Facciamo che era

Il principio ripetizione in Walter Benjamin

OHO group (Nasko Kriznar), Red Snow, 1969, 8 mm film, silent, colour film, 2'40'', Marinko Sudac Collection
OHO group (Nasko Kriznar), Red Snow, 1969, 8 mm film, silent, colour film, 2'40'', Marinko Sudac Collection.

Marina Montanelli affronta in questo libro – Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, (Mimesis, 2017) – con taglio originale il paradigma della ripetizione in Walter Benjamin: dunque il blocco di mito, colpevolezza, diritto e destino nel circolo dell’Eterno Ritorno, dove la ripetizione dell’identico si sdoppia dando vita a un rapporto strumentale mezzi-fini e quest’ultimo a sua volta dà vita a un secondo circolo, «là dove la stessa violenza si biforca in violenza creatrice di diritto e violenza che conserva il diritto» (pp. 31-32).

Esistono però tecniche di ripetizione e variazione combinatoria che ripercorrono il già stato introducendovi elementi di novità, uno Spielraum (letteralmente «spazio di gioco», in senso sia meccanico che ludico): la critica che smembra un oggetto, la traduzione che richiede un compimento di senso (un «salvataggio») nel passaggio dalla lingua originaria a quella di arrivo, un Fortleben (continuare a vivere) della prima nella seconda. Ma l’esempio forse più significativo, annidato e quasi buttato per caso in uno scritto minore, è l’uso del giocattolo nel gioco infantile, l’uso, appunto, che consente di fuoruscire da una metafisica delle essenze e della ciclicità destinale

calandoci in una pratica quotidiana che ci strappa dalla riproduzione demoniaca del sempre-eguale per aprirsi all’emancipazione costruttiva del nuovo. «Nel gioco infantile, nel rapporto che esso stabilisce con la materia della realtà, si esplica una capacità combinatoria, di assemblaggio, di continua scomposizione e ricomposizione degli oggetti e il giocattolo altro non è che la concrezione di questa disposizione» (pp. 65-66). Il carattere infantile molto condivide con quello distruttivo: sfascia (e ne gode) per costruire, per rimontare l’oggetto e la sua pratica. Il nuovo si insinua nella ripetizione come il bambino si insinua nel mondo oggettuale. Il mito è espulso dalla mimesi aprendo uno spiraglio su come trasporre quel gesto immediato del piccolo «giocatore» nella storia (che il giocatore d’azzardo congela invece in destino). Messianismo debole del puer ludens che si manifesta nello smontaggio di una bambola…

Nella perpetua variazione del gioco infantile, precondizione per la formazione di abitudini e regole, campo transizionale winnicottiano, si saldano insieme i due principi antinomici della felicità: l’eternità e l’ancora-una-volta, che non è un «come se» e neppure un «come non», ma un fare «sempre di nuovo». La formula del bambino che gioca, «facciamo che era» «racchiude in sé tutta la potenza del possibile, è esemplificazione pura della memoria dell’avvenire» (p. 145), versione ludica potente del futuro anteriore. La riproducibilità tecnica non ha dissolto soltanto l’aura cultuale dell’opera d’arte, ma indica un’impossibilità generale di fissare un originale più «autentico» della riproduzione e privilegia la deriva incessante del senso su un presunto senso «primo» o «ultimo» delle cose in tutti i campi dell’esperienza.

Uso, abbiamo detto, come generale «uso della vita», ma nello specifico benjaminiano sarebbe più esatto parlare di riuso sistemico. A fianco della ripetizione impercettibilmente variata ogni volta, con il meccanismo della cover musicale (felice metafora di Massimo Palma nella sua recensione del libro sul sito Minima&Moralia), Benjamin inserisce quel principio nella logica del montaggio di materiali spogliati della loro unità mitica, riportati dalla sfera ipnotica dell’Erlebnis unico a quella ordinaria (eppure diventata così rara) dell’Erfahrung, l’esperienza concreta replicabile. Il metodo del suo montaggio letterario teorizzato e praticato nel Passagen-Werk, è, infatti, il riuso dei detriti della storia, collezionare «scarti e rifiuti, non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli» (Conv. N, 1°, 8). Il bambino, come lo storico materialista (e come il baudelairiano straccivendolo del Vin des chiffonniers, che nell’ebbrezza redentrice «terrasse les méchants, relève les victimes»), «è attratto dai rifiuti, lavora con i materiali di scarto della storia smontandoli e rimontandoli senza sosta, riassemblando incessantemente passato e presente secondo combinazioni inedite» (p. 123), per estrazione della storia futura dalla preistoria, delle possibilità incompiute in un futuro anteriore. Nell’immagine dialettica la ripetizione (differenziale) lo è del nuovo, non dell’identico; la rammemorazione (Eingedenken) redime attualizzando e citando nel presente (l’ora della ripetibilità, lo stato di pericolo o di eccezione) quanto un tempo fu sconfitto e ora anela alla rivincita.

In questo modo il dispositivo della ripetizione-non-ripetitiva agisce in senso inverso all’immedesimazione e alla continuità della storia dei vincitori e al tempo vuoto e omogeneo del riformismo socialdemocratico: la riapertura del possibile sottrae la rivoluzione al suo «destino» stadiale, la rende praticabile in ogni fase. Non che non debbano sussisterne le condizioni e si tratti di un puro evento messianico, ma – sia l’antico «riscontro» machiavelliano fra soggettività e occasione o la congiuntura sovradeterminata althusseriana – sono caduti i divieti storicistici che si aggiungevano alle difficoltà oggettive di interruzione della catastrofe, che è, in ultima analisi, il continuare come prima. La sfida del rivoluzionario assomiglia così alla proposta del bambino: facciamo che era…

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