La stazione di Piazza Garibaldi
Racconti per il mondo nuovo #1
La stazione di Napoli Centrale ha un ingresso controintuitivo. È uno scalo in cui si entra in un verso e si esce in un altro. La ragazza si era sempre chiesta se il macchinista, alla guida del locomotore, per riportare il treno sulla sua direzione fosse costretto ad attraversare tutti i vagoni, tutte le carrozze, per arrivare all’altro lato del comando. Per portare fuori il locomotore che viene da giù, per dirigerlo verso Roma. Ed è una entrata lisergica, perché nessuno, che non sia mai stato a piazza Garibaldi, riesce a immaginarsi questo ingresso tra i grattacieli di una impensabile Manhattan, resti di un sogno di grandeur che fece della periferia sud della città il laboratorio di un architetto giapponese, che progettò il centro direzionale meno adatto al carattere di questa città. Niente vicoli, niente prossimità. Solo edifici enormi, lunghi, che non parlano tra loro. Strade senza bar, niente che ricordi la prossimità dei vicoli. Un progetto che riesce a fare di questo angolo qualcosa di anomalo, sottratto persino al clima meridionale, con tutte le correnti fredde che non trovano ostacoli, e che sorprendono, allibiscono. Entrando a Gianturco alla ragazza colpì un particolare strano. Una sorta di carne grigia, adagiata in una virgola tra due container.
Qualcosa che dava la sensazione che ci fosse vita, anche se non avrebbe mai saputo dire perché. È una sensazione strana, capita spesso e in pochi se la spiegano ma tutti sanno che è vero. Entrare in una stanza e saper dire se c’è qualcuno anche se non si vede nessuna forma. Sapere se il gatto è morto anche prima di avvicinarsi al suo corpo vecchio, saperlo prima di saperlo. E così, per le stesse ragioni che ragioni non sono, sapere che quell’angolo di cose che ha occupato un angolo del suo occhio non è una cosa come un’altra. La ragazza si girò verso il vetro, si appoggio alla sua superficie fredda per eliminare, al massimo possibile, l’ostacolo al guardare e pensare. Ci volle una manciata di secondi, se non quasi un minuto per riuscire a focalizzare di nuovo la virgola grigia. Che sembrava più grigia grazie ai colori sgargianti dei due container in cui era infilata. Uno rosso, l’altro giallo. La prima cosa che le venne in mente è che si trattasse di una coda di balena. E non ci fu verso, pur montando e smontando tutti i percorsi che sconfessavano quella ipotesi, di pensare a qualcosa di diverso di una coda di balena. Era passata quasi mezz’ora ed ora la ragazza era sicura: quella macchia dalla forma strana, seminascosta, era il segno che in mezzo a quel mercato di merce da porto era adagiato un cetaceo. La certezza era tanta che la ragazza non esitò a scendere a quella fermata non frequentata, lontana solo cinque minuti da Napoli centrale. E si trovò proprio nel mezzo tra la torre della Telecom e il più grande mammifero al mondo.
Uscì dal lato che diceva porto e cominciò a camminare, tenendo per bussola i due sgargianti container. Si avvicinava lestamente, non ci voleva molto. Solo che un cancello chiudeva la parte dei magazzini dell’import export cinese e sbarrava il passo alla visione ora nitida di una balena grande, distesa lungo tutta la lunghezza sulla quale era scritto «Xena Honk Kong». Ma la cosa che turbò la ragazza più di tutto fu non l’esistenza di quel corpo in quell’ambiente, ma il fatto che il corpo continuasse a respirare. Uno soffio, un movimento quasi impercettibile, ma la balena era viva. Per poco, forse ma viva. Si tolse lo zaino dalle spalle e decise che valeva la pena abbandonare il trolley. Si tenne stretta alle grate della recinzione e slanciò il suo corpo esile verso il cielo. Ritrovato un equilibrio si lanciò in qualche calcolo basato più sull’esperienza del mondo che sui principi della matematica. Anche se le sue gambe erano lunghe non ce l’avrebbe fatta, solo alzando la destra, a passare dall’altra parte. Occorreva trovare una imperfezione del cancello sul quale alzarsi di un po’ e la vide nella rientranza di un angolo di cinta. Così a dieci centimetri più in su, le bastava piegare il ginocchio e portarlo dall’altro lato dell’inferriata. Posare il piede corrispondente sulla sporgenza lato porto e poi duplicare i movimenti con l’altra gamba. Era dentro.
Corse con i capelli spettinati dal vento di mare, dal profumo delle cime delle grandi navi commerciali, dall’odore del lavoro di carico e scarico, dai mozziconi smezzati nei turni di notte. Correva nel mare che non bagna Napoli. Correva nella deviazione dai suoi programmi. Correva nel suo sogno di infanzia, una balena tutta per lei. E quando le arrivò vicino si sentì il più grande chirurgo del mondo appoggiandole la mano sulla parte che segue la coda sentendola tiepida, ancora in questo mondo. Non era una carcassa. Era una balena, quella che per una vita aveva desiderato di vedere, magari a mare, pensò e le venne da ridere. Era lunga. Ci volle un sacco di tempo, sembrò alla ragazza, per arrivare alla testa. Ma la trovò. E trovò gli occhi della bestia. Erano belli e lei li capiva e la bestia capiva lei. Erano della stessa specie, fu chiaro subito alla ragazza e forse anche alla balena.
Questa scoperta, più di quella che l’animale fosse vivo, piantò nel cuore della ragazza l’ineluttabile decisione di dover salvare la balena. Senza sapere come o con chi. Si guardò intorno, non c’era nessuno. Erano le sette di sera, le operazioni incominciavano alle dieci, si ricordò d’aver letto in un articolo sulle proteste dei portuali a Genova. Ma si convinse, senza nessuna evidenza, che valesse anche lì. Erano da sole, lei e la balena. Le disse che ce l’avrebbero fatta e la balena sembrò crederle sfoggiando la bonomia che le aveva sempre attribuita nei suoi infiniti sogni di bambina. Si girò di scatto, a destra, a sinistra, dietro. Non sapeva cosa aveva cercato. Toccava alla vita venirle incontro, darle un segno, una indicazione. E accadde al secondo giro di occhiate. Quando vide i montacarichi. Quelli che servono per portare i container sulle navi. Lo sportello della macchina era aperta, c’era qualcosa che brillava. Indovinò la preziosa presenza di un mazzo di chiavi. Più prezioso di quell’anello di diamanti che non aveva mai avuto, il giorno in cui nacque suo figlio. Più prezioso di quella vanità che non aveva saputo portare avanti, per insicurezza. Salì sulle scalette, guardò dentro l’abitacolo per rendersi conto di qualcosa, non sapeva cosa.
Da lì sopra capii che la macchina funzionava cosi: era una gru con una doppia punta, una per la prua un’altra per la poppa se si trattava di mettere imbarcazioni a mare. O una per il sud e una per il nord, per i container. O per la testa e la coda in caso di cetacei. Quindi prima doveva imbracare l’animale. Scese e infilò il laccio nella coda, lo strinse non fu difficile. Poi la testa e non fu facile. La balena ansimava, ora. La vita c’era solo per metà. E i suoi occhi non la vedevano più e fu questo che fece male alla ragazza più di tutto. Non strinse la corda ma salì di fretta sulla macchina. Ne accese il motore potente e seguì le istruzioni di quei pulsanti che si facevano interpretare facilmente. Freccia su per alzare. Uno scossone alla gru ma la balena si alzò, come se collaborasse. Marcia in su per avanzare verso il porto, a velocità folle, cioè quella di un millepiedi. Ma arrivarono al ciglio del porto e non c’era tempo di chiedersi se quel punto fosse profondo. Si poteva solo sperare. Allungò il braccio della gru, fino a che l’intero copro dell’animale si trovò oltre il bordo della banchina.
E poi diede il comando della freccia in giù e sentiva che con la balena anche la gru scendeva nel mare, anche lei nel suo abitacolo seguiva la traiettoria verso il mare. Fu un tonfo tremendo quello che fece il grande mammifero quando toccò l’acqua. E fu niente rispetto a quello che fecero i vetri e le ruote carrozzate e lei che sentì un dolore alla testa mentre l’acqua le bagnava le caviglie. Vide la balena muoversi, andare verso il largo. Vide sé stessa dal di fuori, come se fosse un estraneo che la guardava. Si vide che ansimava, che non respirava più bene. Si vide quasi svenuta, con gli occhi chiusi, e vide la tristezza della balena, alla quale la vita toglieva il suo sogno di piccolo mammifero nel mare del Messico. Incontrare una ragazza, guardarla da vicino.
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