Sapore di sale

Racconti per il mondo nuovo #2

Jan Dibbets
Jan Dibbets, Linea bianca (White Line) installazione per Arte Povera + Azioni povere, 1968. Photo by Bruno Manconi. Courtesy Archivo Lia Rumma.

Da qualche giorno aveva un sapore di sale in bocca. All’inizio pensò che fosse l’effetto di qualche cibo piccante, di qualcosa cucinato con troppe spezie. Poi le venne in mente che poteva trattarsi di un sintomo di disidratazione. La gita in barca era stata lunga e stancante, c’erano troppe meduse per fare il bagno, troppa poca acqua per tutti, cosicché avevano passato la giornata storditi sul legno, solo in parte ombreggiato dal tendalino a strisce. Tre giorni dopo cominciò a cercare notizie del sintomo su internet, scoprendo che poteva avere dal diabete al morbo di Dalton, tutte spiegazioni, che però non la soddisfacevano. Nessun altro sintomo combaciava con il suo stato.

Andava avanti così da dieci giorni. Si limitava solo a chiedere agli amici «ma ti è mai capitato di avere la sensazione di una manciata di sale grosso in bocca sempre?», ma le risposte erano deludenti. Mai un semplice sì o no, ma aneddoti, supposizioni e soprattutto inutili consigli. Accadde però che, oltre a quella sensazione nella bocca, anche la pelle della schiena venne coinvolta in processo bizzarro. Invece di seccarsi come le capitava ogni estate cominciò a notare che quando il sole le batteva contro, dalle spalle alle anche, si formava come una luccicanza diffusa. Era un bagliore mutevole, non si annidava in nessun posto preciso della schiena. O meglio appena guardavi nel posto in cui ti sembrava qualcosa avesse emanato un bagliore quel bagliore si era spostato un po’ più giù o più su, o più a destra o più a sinistra. La sua brillantezza si estese alla parte anteriore delle braccia, ai polpacci snelli, alle natiche piccole.

Ora non chiedeva più a nessuno se fosse capitato anche a lui, il sapore del sale in bocca e il riflettere la luce come se si fosse uno specchio ondivago. Era entrata in quella zona di osservazione intima in cui condividere quello che accadeva con gli altri era impossibile. Si sarebbe dovuto spiegare la progressione degli eventi, rischiando di essere presi in giro o, peggio, di essere presi sul serio, cosa che avrebbe prodotto segnalazioni di specialisti, istruzioni su rimedi fitoterapici e altre cose del genere. Eppure non sentiva solitudine. Anzi provava per gli altri un nuovo sentimento di comunione. Sentiva che il destino di chi le era vicino le apparteneva, Che anche se all’apparenza ognuno si muoveva per conto proprio nel mondo, in fondo, l’umanità camminava inevitabilmente nella stessa direzione. E che quindi quello che accadeva al singolo essere umano, in fondo, riguardava tutti. Era un afflato naturale, per niente costruito con la militanza politica che pure continuava a fare. Era uno scarto del sentire cui non aveva dedicato nessun nutrimento e nessuna edificazione intellettuale. Le veniva su nel cuore come uno sbuffo di gesso e la intontiva, la calmava di bontà.

Però dopo un po’ cominciò a stancarsi presto delle cose che faceva. Se camminava per più di un’ora si affaticava e doveva sedersi all’ombra e riposare. Se studiava per l’intero pomeriggio, alla sera era distrutta come se avesse smontato chiese e ponti e autostrade. Se partecipava a un pranzo al caffè non connetteva per il sonno. Alle lezioni di yoga di Mattia si accorgeva, giorno dopo giorno, che più aria inspirava più aumentava la sensazione di sentirsi esausta. Esausta definitivamente.

Naturalmente andò da un medico, dal migliore in casi di insufficienza respiratoria così precoce. Subì le mille analisi del caso, una diagnosi di malattia progressiva polmonare, seria e rara. L’inizio della terapia sperimentale e la prescrizione quasi assoluta di stare a riposo. Per fortuna però quel medico sullo stare a riposo non voleva che né lui, come scienziato, né lei, come paziente, si rassegnassero e la invitò a continuare a fare la sua vita, rassicurandola sul fatto che lui ci sarebbe stato in caso di crisi, e prendendola in giro sulla luccicanza alla schiena e sul sapore di sale. Le diceva che erano souvenir dell’estate mediterranea, che si portava ovunque la sua costiera amalfitana, che non se ne staccava mai.

Così dopo qualche giorno per la prima volta dopo tanto riandò a mare, sulla barca di legno, con uno dei suoi più grandi amici, altissimo e forte. L’ancora si incastrò nell’ansa di uno scoglio e lei, dimentica di tutto, si tuffò come aveva sempre fatto per andare a fare quella manovra per la quale vantava un allenamento lungo una infanzia. L’acqua era freddissima ma le sembrò un dono quel gelarsi, le sembrò placarsi il sale nella bocca e il fiato allungarsi. E più scendeva e più il polmone funzionava e più nuotava e più il blu se la prendeva. E poi vide un branco di pesci che si fermarono per aspettarla e si gettò in quella moltitudine sentendo con tutto il corpo ora quello sbuffo d’appartenenza che prima sentiva solo con il cuore. E andò avanti con loro, muti e uniti verso l’isola Li Galli nel cui mare era sempre stata felice nella sua vita di ragazza.

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