Dal possibile al reale

Il design come pratica evolutiva

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Martina Muzi, «Stills from the scenario–film The feminine space in–between» (2013).

Un’ingenua paziente esplorazione di un inafferrabile universo di storie e materiali attraverso un ambiente multiplo e confini da ridefinire.

Un’instantanea tra tecnologia e studi umanistici, di un’esperienza politica stimolatrice di processi evolutivi attraverso una partecipazione alla contestazione dell’esistente.
Martina Muzi

Le dinamiche culturali del nostro tempo si profilano sempre più complesse, aggrovigliate. Cercare di comprendere il filo che le tiene insieme appare un’operazione rischiosa ma non futile. Per farlo occorre abbandonare i consueti confini disciplinari, bisogna annettere al territorio di uno sguardo specialistico anche la riflessione ingenua di chi azzarda l’ibridazione linguistica, aprendosi su un campo indefinito povero di istinti univoci e dettagliati.

Oggi ci si confronta con materiali frammentati e dispersi, composti da ogni sorta di elementi spuri o addirittura antinomici e trovare la via d’uscita richiede l’atteggiamento del paziente esploratore. Si tratta di una sensibilità cronicamente infantile, ma allenata alla sconfitta e alla precarietà, che si muove attraverso una matassa di legami in cui pubblico e privato, visibile e nascosto, risultano alla fine inestricabili, confusi: una realtà che ha sempre un dietro e qualcosa di altro, una superficie e un occulto. Sono forse questi gli elementi che ci possono aiutare ad indagare le perverse costruzioni del capitalismo finanziario e le implicazioni con l’inafferrabile universo del design contemporaneo. Siamo trascinati in un mondo che vive di continui rimbalzi e rovesciamenti – dove è possibile cogliere consonanze e dissonanze – che ci proiettano dentro un meccanismo assurdo, una società assurda. Questo intreccio di spazi, corpi, lingue, storie, materiali e affetti è il territorio con cui si misura il mondo del progetto.

La dimensione del nostro quotidiano appare, alla luce di queste considerazioni, come uno spazio segnato dall’immanente necessità di attivare nuove pratiche. Utilizzando, anche, gli oggetti che la popolano come privilegiati catalizzatori culturali ed espressivi. Vogliamo provare ad esplorare un territorio, una condizione sospesa, ai confini dell’arte e della vita. Un luogo di tensione dove tutte le relazioni, i rapporti con la sfera del quotidiano sono capaci di creare un potenziale operativo, determinando un ambiente multiplo affermato unicamente da un senso di pluralità. È un’indagine che nasce dalla necessità di ridefinire i confini disciplinari del design proiettandolo in una dimensione che sposta la ricerca estetica e formale verso la complessità del nostro tempo. Emerge così un campo allargato fatto di incroci disciplinari dove antropologia, letteratura, filosofia, arte, architettura disegnano una densità di possibili scenari. Sono territori sociali in cui occorre decidere che mondo vogliamo, e per questo conoscerlo e agire. Con le sue caratteristiche di istantaneità e pervasività il design può fare la sua parte nel definire scenari antagonisti segnati dall’estetica di un processo che nasce e si sviluppa dall’urgenza di un contesto. La lettura di questa necessità oscilla tra la determinazione di una soggettività individuale e quella di un ambiente più ampio e globale. Il design, quindi, nasce e si sviluppa proprio sulla base della scelta di un contesto preciso.

Nel saggio Adversarial Design di Carl Di Salvo, pubblicato da MIT Press (non ancora tradotto in italiano) l’autore esplora, ad esempio, le relazioni tra media e pratiche di progettazione socialmente impegnate. Il suo lavoro combina scienza, tecnologia, studi umanistici con la ricerca di design per mettere in luce le qualità sociali e politiche della progettazione. Si tratta di ricerche focalizzate sul concetto di bene comune e sul ruolo del design nella formazione di una consapevolezza collettiva. Il testo si sviluppa nel tentativo di rispondere a due interrogativi sostanziali: c’è un modo per il design di essere politico? Se sì, quali modalità ci sono e come funzionano? Riprendendo alcuni principi espressi da Chantal Mouffe nel saggio Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Di Salvo afferma che il design costituisce un mezzo per generare relazioni antagoniste ritenute essenziali per creare un’esperienza politica. A partire dal concetto di «politico» espresso dalla Mouffe, il pensiero di Di Salvo consolida l’idea che la sfera del politico sia una condizione di esistenza sociale che, se compresa e gestita in modo appropriato, ha il potenziale di migliorare, piuttosto che minacciare le condizioni del governo democratico. L’adversarial design si profila così come una sorta di stimolatore di questi processi evolutivi.

Il politico si riferisce, quindi, alle esperienze di antagonismo che emergono come conflitto in un corpo sociale dominato da interessi contrastanti. Il design segnato da questa tensione si occupa di come l’antagonismo può essere articolato attraverso il lavoro di progettazione . «Forse, scopo fondamentale del design – argomenta l’autore del saggio – è quello di creare spazi di confronto, di fornire risorse e opportunità per un numero sempre maggiore di persone capaci di partecipare alla contestazione dell’esistente».

Nascono da queste premesse i progetti sviluppati da Martina Muzi con la quale, da tempo, condivido ricerche sia teoriche che pratiche. Ne è un esempio The feminine space in between dove convergono una serie di sollecitazioni attorno alla dimensione del politico nel mondo della progettazione. «I luoghi sono collegati alle possibilità. Le possibilità sono, ancora una volta, collegate alla vita. Diventare è una lotta sociale e personale: cercare un lavoro, una casa da vivere, un luogo in grado di garantire pratiche di valore. Come una donna in continua preparazione per costruire un’indipendenza personale, sto cercando un posto che è in/tra le possibilità» afferma Martina Muzi.

The feminine space in between parte da un’analisi della condizione femminile in un’economia neoliberale e struttura un interessante dispositivo progettuale concentrato sull’evoluzione dell’abitare in una dimensione nomade. «Siamo tutti in fase di transizione, siamo tutti figlie e figli di tradizioni, siamo tutti padri e madri di conoscenze future, siamo tutti figli e figlie di un luogo, siamo tutti nel mezzo di luoghi, siamo tutti madri e padri di spazi» continua Martina Muzi. Sono alcune frasi espresse nel Manifesto che introduce allo sviluppo del progetto, una sorta di mappa concettuale che interroga il proprio tempo e la personale condizione di donna dove il design è vissuto come un agente manipolatore e come strumento di conoscenza.

Il risultato più evidente del processo di indagine e sviluppo del progetto è la realizzazione di un abito/contenitore/archivio/casa/ cellula nomade che evidenzia come in between/nel mezzo/attraverso/in divenire, si dia compimento a quella condizione di deterritorializzazione declinata da Deleuze e Guattari in Millepiani. Un concetto che ha avuto il suo corso, ed è la condizione della nostra contemporaneità quella di una crisi delle identità. Viviamo in un tempo ibrido dove essere donna e designer significa procedere, vivere nel tentativo di creare spazi di azione da un punto di vista politico, economico e culturale. Martina Muzi lascia emergere la necessità di sentirsi membro attivo di un mondo in costante trasformazione. L’obiettivo è quello di modificare lo spazio pubblico in una futura casa, un luogo in grado di accogliere risorse economiche e culturali frutto di una convivenza rinnovata.

The feminine space in between apre alcune riflessioni anche sulla questione di genere. Il progetto è un vero e proprio viaggio dentro e fuori se stessi, si alimenta dei riferimenti teorici di Carla Lonzi, Judith Butler e della letteratura di Donna Haraway che si muove sul crinale di una identità che sfugge, che appare in continua mutazione. In between manifesta la voglia di andare oltre. Non per essere una ribelle senza causa, ma una donna nomade con l’obiettivo di realizzare la propria felicità, affermare il proprio essere al mondo in continua interrogazione del proprio ruolo di donna e designer. Del resto, il modo in cui stiamo al mondo e lo sentiamo, e conosciamo gli altri, è sempre il nostro fragile corpo, unica casa certa. Proprio il corpo preso nelle sollecitazioni tecnologiche del nostro tempo sta subendo una profonda mutazione. Occorre comprendere la natura, il senso di questi nuovi scenari dove l’individuo appare come un insieme di dati frammentati utili solo all’estrazione capitalistica di valore e come oggi questi fenomeni stiano prendendo corpo in un clima di sostanziale acriticità soprattutto da parte del mondo del progetto.

«Oltre la modificazione immateriale del nostro paesaggio quotidiano ci troviamo di fronte un complesso tecnologico che ci mette davanti alla necessità di combattere la negazione dell’accesso agli strumenti riproduttivi e farmacologici, alle catastrofi ambientali, all’instabilità economica, nonché a forme pericolose di lavoro non pagato o sottopagato» afferma il collettivo Laboria Kuboniks in The Xenofeminist manifesto. Proprio il tema del corpo in relazione con le forme del lavoro è uno dei temi sui quali stiamo condividendo un percorso con Martina Muzi.

Il titolo del progetto è Refusal Party. Da una parte, si intende riflettere sulle trasformazioni che stanno avvenendo attorno al lavoro e al suo valore, soprattutto, nel mondo del design. Dall’altra stiamo indagando pratiche performative di relazione con gli spazi del lavoro stesso attraverso l’incontro con situazioni e realtà differenti. Si rivela un’attitudine al design come tensione ancorata al mondo reale, alla vita quotidiana e allo stesso tempo si prova a indicare dimensioni inesplorate, contraddizioni e paradossi del nostro tempo. Refusal Party apre uno spazio di critica allesistente e induce un’esperienza perturbante rispetto a certezze consolidate che esprimono una passività dilagante. Indagare la stretta relazione ontologica tra progetto e pratiche del quotidiano porta alla definizione o meglio alla ricerca di una forma politica che si determina dal basso, attivando le differenze di contesto, di condizioni materiali e immateriali che cooperano in vista di un potenziamento reciproco. Si tratta di un recinto operativo in divenire, di una forma che non si è ancora stabilizzata, sebbene molte persone, artisti, designer, architetti la stiano già praticando. È grazie a questo auspicato ricongiungimento che la politica del design sospesa tra realtà e possibilità diviene un interessante territorio d’indagine.

Refusal Party si definisce in questa sospensione come una pratica che soltanto nell’unione in un gruppo di corpi e nell’occupazione di uno spazio più o meno determinato si pone nella condizione di formare una qualche forma di resistenza, di cattura di un tempo e di un lavoro altro. È una cosa che è nel mondo, non semplicemente uno stare pur nella sua precarietà. Si muove attraverso domande e passioni reali, puntando a costruire uno sguardo singolare sul mondo, come parte di una lotta per l’autonomia. Bisogna pensare per non essere pensati dagli altri, se non vogliamo limitarci a vivere secondo categorie che rifiutiamo e che troppo spesso ci sembrano come trappole.

Si ringrazia Alejandro Ceron per aver contribuito al secondo episodio di Refusal Party a Lubiana il 26 maggio 2017 nell’ambito degli Associated Projects della XXV Biennale del Design Faraway, so close curata da Angela Rui e Maja Vardjan.

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