È questo che chiamate vincere?

Tutto brucia con Motus

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Motus, Tutto brucia - Short Theatre, foto di Claudia Pajewski.

All is still. È tutto fermo, immobile, come una terra dopo che ha tremato. Rimane la parola l’unico movimento. In scena la città, Troia, inerme, arresa, un mucchio di cenere sopra la terra, fumo, odore di sangue bruciato e urina, osceno di corpi. La città immobile è quello che resta. A muoversi gli ultimi rimasti in vita senza sapere come sopravvivere. Sono rimaste le donne. Ecuba sopra il corpo sgozzato di Polissena, Andromaca, Cassandra, quella che vede inascoltata, Elena la straniera, l’eros che è più facile ridurre a polemos.

Donne potenti finite nelle mani del potere di altrettanti uomini, a ciascuna il suo, Odisseo, Agamennone, Nottolemo, gli eroi. Quelli della forza che diventa arma, dell’ingegno che produce l’inganno, dell’astuzia che è sempre assassina. Schiave, snudate, abusate, umiliate. Un certo destino delle donne, servire, perfino a pretesto per una guerra, in nome di un potere che si fa proprietà, per goderla sono morti a migliaia. Hanno alle spalle un lenzuolo, un mantello che ricopre la terra rivelandone la forma, un sudario dentro cui rotolarsi: fuggire alla visione, nascondere lorrore che è un corpo violato.

Silvia Calderoni, Stefania Tansini, R.Y.F. Francesca Morello, sono i corpi tragici di queste donne a un tempo mute, danzanti, urlanti, striscianti, dritte in piedi, fiere, erette e inclinate, luttuose. Corpi punk nel modo in cui la voce esce dal gesto, dalla musica e da un canto che adotta il frammento, il verso inglese a farne già la lingua straniera dell’esilio. Parole rotte, lingue spezzate, come fa il dolore e fa anche l’amore. È la tragedia di chi resta in vita, di chi non sa come sopravvivere alla morte, alla carne brandellata insieme alla mente sconvolta. La carne significante, parlante, la carne che è scrittura.

Non è la tragedia dell’eroe vincitore? Se il racconto lo fanno donne che piangono per essere sopravvissute, destinate alla schiavitù, allo stupro, alla vita violenta, è perché c’è stato chi ha ucciso, raso al suolo, chi ha già avuto la meglio sulla vita. È il trionfo delle vinte, delle afflitte, delle addolorate? Chi ha vinto ha vinto anche e proprio perché ora la parola è loro come gliela lasciassero, gliela concedessero. Anche questo fa chi vince bruciando: lascia che i morti lo raccontino, ne facciano l’origine del pianto. L’arma della parola data. L’arma del pianto di chi subisce. Quanto piace al vincitore vincere con quest’arma, che assoggetta mentre fa di sé il soggetto della narrazione. 

È questo ciò che chiamate vincere? Conquistare? Fuchi che non servono all’alveare, questi uomini vincitori, usurpatori, succhiatori di miele, capaci di bucare un ventre, di infilare una spada. Tutta la storia senza una sacca che trasporti il nettare, è una storia di ammazzamenti, cimiteri senza pena. Chi è intelligente la guerra non la fa. Così in scena vediamo falce e coltello impugnati in una danza che rende l’una complice dell’altro, la morte e ciò che la provoca, evocazione ultima, manifesto di quanto quella morte sia stata assassinio. Chi è intelligente la guerra non la fa.

Così, allora, niente vittimizzazione, niente vittime. Sopravvissute, semmai. Quando smutandato compare l’osceno, e ci arriva la sozzura di un corpo bellissimo. Quando la montagna di cenere che è diventata la città Ecuba se la butta addosso e finisce per averla per sempre sotto le unghie, la sua terra sotto la pelle. Quando la scrittura di Euripide, che attinge a Sartre per tradirlo, diventa quella dei Motus, Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, insieme a Ilenia Caleo, raffinatissimo sguardo femminista, una scrittura frutto di una collaborazione, sulla scena e fuori, come dovrebbe essere il teatro, il pensiero, ogni ideazione, ogni rivoluzione. La dimensione relazionale e collettiva dell’arte, di ogni produzione culturale, direbbe Carla Lonzi.

È tutto pubblico, è lì nella scena piazza, in quella terra cenere, legale, visibile, accettabile, è sotto gli occhi di tutti, quel che resta è quel che ha prodotto quel potere sistemico e legittimato della violenza, quella che oggi chiameremmo la cultura dello stupro, quella che viola il corpo di ogni minoranza, di ogni oppresso, di ogni terra occupata. È pubblica la sua vergogna, non occorre svelarla, non è privata, è pubblica, basta solo confessarla pubblicamente, come ogni cosa inconfessabile.

Alla fine Ecuba si spoglia, Elena si spoglia, e con loro tutte ci spogliamo. Nudi corpi non violenti. Nudi, non violenti, che non vuol dire pacifici o pacificati, ma esposti, e come tali aggressivi. Sì, aggressiva è anche l’esposizione di un corpo inerme, senza armi per uccidere, contro un potere repressivo, coercitivo, assassino. È una forza contro un’altra forza. La versione femminista della guerra è la non guerra, del potere è la politica non violenta intesa come Butler la intende, una pratica sociale e politica che culmina in una forma di resistenza. Una lotta in divenire, desiderante. I nomi non sono più legati allaltro che nomina e così padroneggia, sono corpi anonimi, plurinominabili, sono umani, bestie, animali, tartarughe e cagne, e altro, saranno altro, tutto e altro.

Alla fine, saremo, dice, tutto ciò che ancora non siamo. Saremo altro, saremo tutto. Bellissima invocazione alla lotta. Non è finita qui, dal vuoto il pieno. La fine non è un finale, o il finale non è una fine. Ecuba esce. Ma lascia il suo vuoto. Niente è grato, dice Ecuba, senza il desiderio. Quello che smuove, che fa saltare qualcosa, quello che produce un qualche movimento. My sister my world. La polis sarà delle donne o non sarà. Forse quel sipario alle spalle è il cielo viola che avvolge la città, che contiene i corpi, li avvolge e li cura col suo colore. Della sera, dell’ora violetta. Il viola della transizione, della metamorfosi. L’ultimo bordo visibile dello spettro della luce. Poi, o altrimenti, il buio.

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