La felicità dell’altrove

Psicomagie del divenire in uno spettacolo dei Motus

motus

È raro ma accade, avverte il verso di una poesia. Middlesex accade come un miracolo lisergico all’Angelo Mai atterrando fino all’ 8 aprile, per restituirci la fragilità furiosa dell’infanzia, dove già si imparano con ingenuo strazio a conoscere gli infiniti richiami a un altrove che è profezia, le connessioni con il mondo oltre le colonne d’ercole mamma-papà, gli strazi, i disagi, le solitudini e le aperture, il connubio ioaltro che si scrive ancora tutto attaccato. E in questo universo fluido, dove i «peli una settimana sono tre, quella dopo sette, dopo due addirittura 26», si innesta la vicenda di un genere resistente a ogni categoria. Un genere che sfugge all’etichetta «Femmina», scritto alla nascita «senza che nessuno mi interpellasse» su questo corpo narrato da quello dolcissimo e potente cui, per convenzione, tutti noi diamo il nome di Silvia Calderoni.

La storia è quella cui Jeffrey Eugenides ha dedicato un libro, Calliope, cromosomi xy (uomo) ma con mancato sviluppo dei genitali, bambina per famiglia e amici fino ai 13, poi rinata al mondo come Cal, a 14. Fotografata a pagina 578 del libro redatto dal direttore della clinica per l’identità di genere, dove Calliope viene riassegnata alla casella «ermafrodito», particolare caso di «eccentricità biologica». Nello scorrere dei rimandi dell’enciclopedia, da ipospadia a eunuco, si ricostruisce al contrario la dittatura dei noi, «noi donne, noi negri, noi maschi, noi lavoratori, noi precari oltre i quali, attraverso i quali, dentro i quali, accanto ai quali vivono soggetti parlanti e senzienti appartenenti solo alla fluidità di una composizione complessa. Gli emarginati, i migranti, gli autistici, i diversi, quelli che vorrebbero che esistessero le parole per esprimere emozioni ridotte da un linguaggio sciatto, smembrate della loro morfologia caleidoscopica: «come si fa a spiegare la felicità che accompagna il disastro? O l’odio per gli specchi che comincia con la mezza età?».

Che potenti che sono questi Motus, firma della scenografia e della regia di spettacoli che, dalla nostra postadolescenza, ci riempiono di suggestioni, ci trafiggono con immagini e raggi laser, con storie di libertà. Perché se c’è una cosa che Silvia Calderoni è in grado di farci portare a casa è la vergogna per la poca libertà che ci diamo. Per quanto siamo cedevoli alla dittatura della convenzione, del normale. Per quanto scambiamo l’affetto per la compiacenza, per quanto rinunciamo alla ribellione, così solo per non disturbare. Per tutta la musica che non sentiamo, per tutte le volte che non balliamo con nostro padre. (Per scrivere questo articolo ho indossato una coda di sirena dorata e non la toglierò per tutto il giorno, domani forse metterò i gemelli di mio nonno. Psicomagie per una maggiore ampiezza di sguardo, di felicità politica e di vita).

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