Fabbriche della conoscenza

Note su nord e sud, università e forma urbana

ATTIVI~1
Attivisti della Freedom Summer che cantano prima di lasciare la sessione al Western College for Women ad Oxford, Ohio, Mississipi, giugno 1964.

«L’utilità delle università, o delle multiversità, è quello di avere una relazione con la struttura del potere del presente, in questa società di uomini d’affari, diventando più simili ad un’impresa industriale. Ci sono ferrovie e acciaierie e supermercati e fabbriche di salsicce – e ci sono anche le Fabbriche della Conoscenza, la cui funzione è quella di servire gli altri e lo Stato»1. 

Subordinazione e sfruttamento. Per una critica all’ideologia populista del Nord-Sud

In occidente, se ancora vediamo il mondo in termini di Nord e Sud è perché siamo abituati a considerarlo in rapporto tra colonizzati e colonizzatori. Jean-Paul Sartre, nell’introduzione al libro di Albert Memmi, The Colonizer and the Colonized, riferendosi alla condizione algerina, colonia storica della Francia, sintetizza le principali questioni del libro parlando in termini di subordinazione e sfruttamento, distinguendo due categorie di individui: l’essere umano che gode a pieno dei suoi diritti civili e l’altro, quello a cui i diritti vengono negati, che soffre di miseria, fame cronica e ignoranza, ovvero il«subumano»2. Sartre afferma che «solo il Meridionale ha le competenze per parlare della schiavitù, perché solo lui conosce il«Negro» [ovvero la propria condizione]; i Settentrionali puritani e astratti, conoscono solo l’uomo come entità». Qui, per il filosofo francese, il rapporto tra i due mondi non è solo di natura culturale, di antagonismo tra gli usi e i costumi di due popolazioni che convivono nello stesso territorio, ma si inserisce nel sistema più generale del lavoro e della produzione dentro al capitalismo. Come infatti sottolinea Sartre, il colonizzatore si trova lì perché ha accesso a terreni, prodotti e forza lavoro a basso costo. Il colonizzatore francese, alla pari del suo connazionale in Francia, gode di diritti democratici, a discapito invece di una intera popolazione destinata a rimanere nella sua ignoranza, e nell’impossibilità di impostare una lotta politica contro il potere dominante.

La lettura del libro di Albert Memmi, pubblicato per la prima volta nel 1957, agli sgoccioli del colonialismo, assume una certa attualità e, grazie al suo modo di descrivere, aiuta a capire meglio le condizioni in cui si vive in quei luoghi dove il rapporto tra Nord e Sud è più tangibile. Memmi si concentra sugli aspetti della vita quotidiana, assumendo prima il punto di vista del colonizzatore e poi quello del colonizzato. Il colonizzatore appare, fin dal primo giorno del suo ingresso nella colonia, come un viaggiatore, probabilmente un borghese neolaureato, che si insedia in un luogo come Algeri, che a primo sguardo trova affascinante ed esotico, dove vivrà guadagnando di più e spendendo meno, e dove gli sarà garantito un alto salario e una buona carriera3. Anticipando il tipico europeo di oggi quando si sposta per lavorare in un paese meno sviluppato del suo, per come viene ritratto, il colonizzatore gode di tutti i vantaggi che il Welfare della madrepatria francese gli offre, a differenza del colonizzato che nemmeno conosce l’esistenza di possibili tutele sociali. Per Memmi, il ritratto del colonizzato appare invece agli occhi del mondo nella mistificazione che gli viene fatta dai colonizzatori, come parte di una popolazione di pigri e inutili, che siano questi «braccianti agricoli, residenti negli slums, professori, ingegneri o fisici», giustificando così la bassa retribuzione, pur lavorando alla pari dei colonialisti europei. Etichettandoli in questo modo, si crea una condizione conveniente per il colonizzatore che cerca di mantenerla e proteggerla (da qui il concetto di protettorato)4, sdoganando una generalizzazione di definizioni razziste e anticipando di gran lunga i meccanismi alla base delle odierne diseguaglianze.

Mentre Memmi offre una lettura che ideologicamente è sempre stata georeferenziata, tra un Nord, rappresentato qui dalla Francia e dagli Stati Europei, e il Sud del mondo, Carl Schmitt nel suo piccolo saggio Terra e Mare aiuta a rovesciare per un attimo l’ideologica Nord e Sud costruendo una storia del mondo dal punto di vista dell’egemonia degli Stati Europei sui mari e sulla terra, più precisamente sul trasporto e sulla circolazione navale e terreste5). Grazie alla panoramica storica riportata da Schmitt, la subordinazione di determinati territori rispetto ad altri assume una tendenza tale che cambia di continuo, come se fosse un gioco di flipper, in base allo sviluppo del capitale in uno o in un altro angolo dell’Europa in determinati momenti della storia. A questa lettura si aggiunge anche il ruolo storico della mobilità della forza lavoro (soldati, uomini, classe operaia) in base alle oscillazioni dell’economia e dei mercati. Qui, i due soggetti messi a confronto da Memmi richiamano all’attenzione l’astrazione di Karl Marx quando parla dell’uguaglianza di base che si manifesta tra due individui nei rapporti di scambio. Per Marx, nello scambio (di compra-vendita) «gli individui, i soggetti tra cui si svolge tale processo sono determinati semplicemente come soggetti di scambio […], tra essi non esiste alcuna differenza, e questa è la determinazione economica […]»6. In qualche modo, nella determinazione economica, con la circolazione delle merci e della forza lavoro, attraverso la spinta del capitale, viene annichilita qualsiasi distinzione territoriale. Addirittura il concetto Nord-Sud può costituire un ostacolo per lo sviluppo capitalistico, per il quale, come ben evidenziato da Marx, la circolazione e il superamento dei confini hanno un ruolo fondamentale nei processi di accumulazione, e nella ricchezza di determinate nazioni e di territori rispetto ad altri.

Che oggi, ancora, dentro ad una delle crisi più lunghe della storia, si parli maggiormente di Nord-Sud è sintomatico di una rivendicazione di quei territori storicamente più produttivi si pensi, ad esempio, al programma originale della Lega Nord sulle autonomie , e non è nemmeno un caso che ciò coincida con l’avvento delle politiche della Destra e del fenomeno mediaticamente definito come populismo. Concetti come l’identità e la sovranità nazionale, l’identità del nord contro quella del sud dentro una stessa nazione, così come altre tematiche propagandistiche, che oggi raccolgono consensi facilmente, hanno la loro origine moderna nelle politiche di suburbanizzazione degli anni Cinquanta avviati negli USA e nei piani del boom economico che mettevano al centro dell’agenda politica la classe media bianca. Come reso noto da diversi storici e studiosi americani, con lo sviluppo stesso delle città suburbane durante la Guerra Fredda, in contro-risposta a una ipotetica minaccia del socialismo, e dell’abolizione della proprietà privata, il governo americano iniettava a grande scala un modello insediativo, domestico e culturale integralmente opposto a quello sovietico: per ciascun americano bianco era possibile possedere un’abitazione unifamiliare, automobili, un lavoro gratificante, moglie domestica e figli proiettati verso il college.

Dopo il 2007, con l’entrata in crisi di questo modello sociale e di questa forma dell’abitare, che garantiva una condizione ed un certo status sociale tra gli americani bianchi, seguito in Europa dalle politiche di austerity e di smantellamento del Welfare, si possono in parte comprendere le diverse rivendicazioni populiste della classe media (ex-classe operaia) sull’identità e il radicamento a un determinato territorio e l’avversità rispetto a chi è straniero, proveniente dal sud (o altre parti). Sergio Bologna, in un seminario tenuto al MACRO a Roma il 23 Novembre 2019, ha sottolineato il fatto di come queste rivendicazioni, in riferimento alla Pianura Padana, siano in parte legittimate dalla vecchia classe operaia che abita in quei luoghi e che si è vista sottrarre il Welfare raggiunto dopo anni di lotte e proteste sindacali in fabbrica. Secondo Bologna, è qui che la Sinistra ha faticato ad inserirsi, aprendo così la strada alla retorica della Destra populista, la stessa che pervade oggi l’Unione Europea e non solo7. Si può sostenere in parte che è a causa di una certa «fragilità intellettuale» della classe media che anche nelle periferie e nelle provincie dei territori più sviluppati dell’Occidente, certi dogmi abbiano avuto una presa diretta. È proprio nella famiglia nucleare che si sono sedimentati determinati valori, quali, appunto, l’identità, con il radicamento alla proprietà, la sicurezza finanziaria, di reddito, o la rendita.

Per contro, la crisi della classe media è coincisa anche con l’avvento di una nuova classe di «lavoratori della conoscenza» (spesso figli della classe media stessa, o della vecchia classe operaia), quali professionisti, ricercatori, precari istruiti e lavoratori freelance in vari settori, aprendo ad una lenta ristrutturazione del capitalismo diventato più cognitivo8, dove il lavoro intellettuale e la produzione di conoscenza nella università assumono valore globalmente dominante9. Se da un lato questa trasformazione implica una maggiore precarizzazione del lavoro (a differenza della generazione dei propri genitori), dall’altro lato con la continua produzione di informazioni, con una maggiore e più intensa mobilità del lavoro, ogni rapporto tra persone nelle relazioni sociali, dalla sfera territoriale, metropolitana, a quella domestica, è potenzialmente portatore di nuove conoscenze.

In alternativa alla sua natura coercitiva, dettata dal sistema di produzione del capitale, questa stessa conoscenza può anche essere sottratta a tale meccanismo, per assumere un ruolo di emancipazione per quella classe media che è oggi più fragile intellettualmente, o che, usando delle parole più adeguate, fatica a organizzarsi politicamente e culturalmente. Se è vero che, come sostenuto da Hal Draper negli anni Sessanta, nel pieno dei conflitti tra classe media e studenti, l’università è una fabbrica e, come cercato di argomentare nel presente paragrafo, l’ideologia Nord-Sud è un apparato per legittimare i rapporti di subordinazione e sfruttamento a tutte le scale (territoriale, urbana, domestica), allora il progetto della prima condizione può essere sovvertito e servire come distruzione della seconda. In tal senso, diventa utile capire astrattamente come è stato declinato il progetto dell’università nella storia in dialettica con i piani sul territorio e la scala domestica, facendo riferimento ad alcuni dei paradigmi più noti, per rivisitarli in chiave di liberazione dalle ideologie. Due sono le domande fondamentali: può essere la conoscenza intesa come progetto politico per superare definitivamente l’ideologia Nord-Sud? Che tipo di spazi, scala e forme essa debba assumere per rendere esplicita una condizione che di per sé va oltre i confini nazionali: in grado di esplicitarle meglio oppure di contrastare l’assunzione che di per sé l’architettura è una forma di colonizzazione e subordinazione?

La storia dell’università. Progetto territoriale ed apparato di riproduzione del capitalismo

Nel Medioevo gli studenti non venivano istruiti per svolgere un mestiere specifico, ma, più in generale, venivano educati a vivere nella società come uomini10. L’abbandono della famiglia comportava all’epoca un distacco intellettuale ed educativo dai propri genitori poiché, una volta dentro, ci si doveva abituare a degli habitus11 dettati dalle regole disciplinari ed accademiche proprie del college. Clonando in parte il modello organizzativo della vita monastica, la fondazione di Merton College ad Oxford nel 1264 apriva la strada ad un modello generico, quello dei cosiddetti quadrangles, che per circa quattro secoli continuò a moltiplicarsi innestandosi nel tessuto medievale di Oxford e poi di Cambridge. Guardando alla mappa delle due città inglesi, la diffusione dei quadrangles ne restituisce chiaramente uno scenario in miniatura di ciò che, a partire dal XII secolo, stava già accadendo in realtà in tutta l’Europa. L’Università Medievale, alla pari delle altre istituzioni quali la Chiesa o il Parlamento, va letta nell’ottica di un progetto politico territoriale più esteso appoggiato dal Papato e dall’Impero, composto da collegi, università e istituti di educazione. Nel corso di pochi secoli, nel territorio europeo, da nord a sud e da est a ovest, veniva disseminata una rete di collegi e di università, ognuna con una propria forma, l’uso di una stessa lingua, il latino, e con stessi habitus e regole tali da attrarre studenti da tutte le nazioni e da facilitare lo status del ius ubique docenti (una specie di mobilità Erasmus medievale), un meccanismo che consentiva ai docenti di insegnare nella stessa rete di Studium Generale12 senza ostacoli. La rete di Studium Generale, che comprendeva le sedi dell’Università di Bologna, Parigi, Oxford, Lovanio, Salerno, Cracovia, ecc., si organizzava seguendo uno stesso modello di comunità di docenti e allievi, il modello organizzativo che all’epoca era definito dal termine specifico Universitas13.

Mappa della città di Oxford. I college universitari e i monumenti sono evidenziati in nero (RCHM, An Inventory of the Historical Monuments in the City of Oxford, Londra 1939).

Questo flusso di forza lavoro intellettuale, innestandosi nei tessuti urbani in grandi monumenti architettonici, oltre ad avere un certo ruolo, spesso conflittuale ma anche educativo, dentro le comunità esistenti, disseminava la conoscenza in Europa, aprendo poi la visuale verso la colonizzazione dei territori del Nuovo Mondo oltreoceano. Gradualmente nel tempo, dopo la fondazione coloniale di Harvard e degli altri college della odierna Ivy League, tutte collocate negli Stati del Nord, dopo la creazione degli Stati Uniti d’America nel 1776, l’università aveva assunto i caratteri di un progetto educativo nazionale. Il modello del campus americano, stabiliva sia un nuovo principio insediativo, con edifici inseriti in un campo aperto in territori pastorali o di natura, che un modello di comunità autonoma, ma comunque con una certa influenza nella vita sociale delle città. Il campus offriva un proprio modello di vita collettiva utile all’istruzione degli studenti che, una volta terminati gli studi, avrebbero dovuto formare la classe dirigente, intellettuale ed ecclesiastica della struttura di tutti gli Stati. È dentro un tale contesto di fondazione che rivela maggiore potenza la realizzazione del campus dell’Università della Virginia, in un territorio, che, ancor più disumano di quello dell’Algeria di Memmi, si trovava fortemente incendiato dai conflitti nell’epoca della schiavitù negli Stati del Sud.

Il campus della Virginia, progettato e fondato da Thomas Jefferson nel 1822, con un’architettura di per sé coloniale, di bricolage di forme dell’abitare derivanti dai collegi militari e dai castelli reali europei, va decifrato per due aspetti. Il primo, di natura strategica, poiché il progetto era per Jefferson l’oggettivizzazione di una idea di istruzione pubblica, pensata come bene comune accessibile a tutti, senza distinzioni di classe, religione e razza e che doveva servire da modello per l’intero territorio americano14. Infatti, il risultato formale del progetto, con la Rotunda centrale, il loggiato di collegamento e la forma a recinto, derivavano da esempi di campus universitari precedenti già apparsi nel territorio statunitense, come la National University di Samuel Knox, la National University di Washington dell’architetto Benjamin Latrobe e l’Union College di Joseph-Jacques Ramée nello stato di New York.

Disegno del diagramma planimetrico del Virginia Campus di Thomas Jefferson. Ipotesi iniziale, maggio 1817. Qui l’ipotesi appare in forma di diagramma territoriale a crescita illimitata.

Il secondo aspetto riguardava l’organizzazione domestica dell’abitare. In quasi tutti gli esempi elencati, la vita domestica all’interno del campus doveva essere organizzata secondo il modello della vita familiare, così come sperimentato a Union College dal preside Eliphalet Nott tra il 1804-66. Per il ministro presbiteriano Nott, ciascun docente doveva considerare la propria classe come una grande famiglia, avendo così non solo il ruolo di insegnate, ma anche quello di educatore, svolgendo un «lavoro pastorale» che includeva nelle mansioni anche la sfera degli affetti e della cura15. In un certo modo, questa filosofia rappresentava l’anima programmatica dietro al sintagma formale del Virginia Campus. L’edificio era ritmato dalla sequenza dei padiglioni che ospitavano l’abitazione del docente e della sua famiglia, affiancati dalla serie ripetute delle celle degli studenti. Guardando al progetto in termini di pianificazione territoriale, il diagramma a «U» del Virginia Campus Jefferson lo aveva concepito come potenzialmente prolungabile all’infinito (così come dimostrano gli schizzi iniziali), in grado di essere moltiplicato in caso di aumento del numero degli studenti/docenti, un dispositivo architettonico capace di attraversare e superare, con la stessa logica, territori geograficamente differenti. Francesco Marullo inserisce a pieno titolo il Virginia Campus dentro la sua lettura della Typical Plan, che, come in una fabbrica, diventa in grado di «rendere produttiva qualsiasi attività umana»16. La genericità della «pianta tipica» si riferisce all’architettura che si riduce al suo grado zero, l’unico modo possibile per penetrare ovunque con rapidità e per ospitare flessibilmente qualsiasi forma di lavoro intellettuale17. Infatti, il generico, che prenderà piede con l’industrializzazione fordista nel secolo successivo, non presuppone certo una continuità formale da Monumento Continuo, bensì corrisponde ad una settorializzazione e reificazione della conoscenza e del lavoro da costruire dentro qualsiasi possibile area e interstizio della metropoli.

Immagine del Virginia Campus e del villaggio di Charlottesville. In alto si nota la villa di Jefferson a Monticello. Litografia di Edward Sachse, 1856

La settorializzazione della conoscenza avvenuta con l’invenzione del sistema dei dipartimenti, come sottolineato da Henry Heller in The Capitalist University, sbocciava durante la Guerra Fredda, quando, agl’inizio degli anni Cinquanta, governo e privati irrompevano la storica autonomia accademica attraverso grandi finanziamenti in programmi di «Ricerca & Sviluppo» allo scopo di accrescere l’egemonia commerciale e politica degli Stati Uniti18). Secondo Heller, in questo modo la ricerca veniva dirottata ai fini del mantenimento delle politiche imperialiste e coloniali americane e al rafforzamento delle ideologie utili allo sviluppo del capitalismo: all’epoca si da avvio ad una serie di revisioni radicali del programma accademico, quali la revisione delle materie umanistiche, come la storia o la letteratura, il rifiuto ideologico della critica marxiana nell’insegnamento, insistendo su un programma di insegnamento mistificato della cultura identitaria dell’uomo bianco americano. E veniva data maggiore importanza alla ricerca e alle materie scientifiche in funzione dell’innovazione della tecnologia industriale e militare19. L’impatto della divisione della conoscenza in settori e dipartimenti specializzati, reso ancora più efficace dalla burocratizzazione amministrativa che ancora oggi è utile all’università per mantenere la sua aura autoritaria e gerarchica, sgretolava anche la forma insediativa del campus tipico, separando le sue funzioni in rettorato, segreteria, dipartimenti vari, residenze degli studenti e aule, in edifici separati, il progetto dell’IIT di Mies van der Rohe è uno degli esempi più immediati della nuova macchina burocratica e della divisione della conoscenza, tesa a creare e a servirsi delle differenze e delle diseguaglianze piuttosto che annullarle.

Il capitalismo cognitivo oggi, che pone al centro dei rapporti di scambio le relazioni umane, la conoscenza che essi producono, i rapporti affettivi e quelli di cura, è discutibilmente un risultato delle trasformazioni avvenute a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta nell’università e del suo rapporto con il resto della società20. Guardando nostalgicamente a questo mondo, sono sintomatiche infatti le dichiarazioni d’amore di certi accademici in Italia e in Europa al modello del campus alla Silicon Valley, Google o Facebook, e nel concepire lo «studente come prodotto»21. Con le università che assumono il ruolo delle vecchie fabbriche, diffuse però, grazie all’archetipo della typical plan e del lavoro vivo che si riproduce dentro la metropoli, allora è proprio nelle viscere della sfera urbana che bisogna guardare per innescare eventuali alternative e opzioni di lotte volte ad eliminare le differenze e le diseguaglianze.

Lotte e riappropriazione spaziale. La conoscenza come progetto sociale al Nord, al Sud e ovunque

Alla luce degli aspetti finora delineati, la città appare come il nucleo dove, oltre alla continua produzione di idee, spazi, relazioni e conoscenza, si accumulano gli effetti più tangibili dei conflitti tra ordinazione-subordinazione, uguaglianza-diseguaglianza, e tra Nord e Sud. Per come la città e la sua forma urbana si presentano oggi, come ammasso di cose anonime, ogni suo possibile angolo è portatore di discriminazioni di razza, di genere e di sfruttamento del lavoro. Nel tentativo di rispondere a questa condizione, attraverso un’idea di città fondata sull’architettura e intendendo l’intera città come un grande campus universitario, sulla rivisitazione del Potteries Thinkbelt di Cedric Price, il progetto di Dogma A Simple Heart (2002-09) si propone con un approccio critico alla città post-industriale esplicitando il suo ruolo di «fabbrica sociale»22. Nel progetto di Dogma un grande quadrato assoluto si innesta sulle «rovine della città post-industriale» per ospitare al suo interno la genericità della conoscenza che si produce in modo identico in tutti quei territori dove il grande recinto urbano si inserisce: in una rete estesa che comprende una serie di città della conoscenza tra Olanda, Belgio e Germania, come Amsterdam, Delft, Bruxelles, Lovanio, Aquisgrana, Düsseldorf.

Con un unico gesto formale, ma individuando variazioni grammaticali in base ai pezzi di città catturati, che siano questi infrastrutture, tessuti produttivi, ferrovie o fiumi che separano un nord da un sud, di vecchie industrie nordiche un tempo popolate da operai meridionali, un quartiere borghese separato da uno popolare, la mega-università di Dogma, dotata di alloggi, aule e laboratori e altre funzioni urbane, aderisce alla vita precaria e flessibile dei suoi abitanti studenti e non, segnando, con la sua forma, le possibilità educative flessibili che apre al proprio interno.

Planimetria di uno dei muri urbani del progetto A Simple Heart di Dogma (per gentile concessione di Dogma).

Progettata negli stessi anni di Dogma, in un epoca, probabilmente, di grande ottimismo economico in Europa e di fiducia sulla forma, la grande forma sembra che potesse riuscire anche ad unire due confini conflittuali di due continenti o nazioni così come proposto da Office KGDVS nel progetto Border Crossing (2005) tra Messico e USA e nella Cité de Réfuge (2007) tra Marocco e Spagna. Il primo, una sorta di Danteum immaginato per mediare il passaggio degli immigrati messicani esplicitando la condizione tensionale del bordo, il secondo, in Marocco, tra la città di Tangeri e quella spagnola in terra marocchina di Ceuta, è un grande vuoto che dà spazio ad una possibile unificazione che supera le distinzioni nazionali, una terra di nessuno che ai tempi di Sartre avrebbe racchiuso e messo a confronto e faccia a faccia i colonizzati contro i colonizzatori.

Come ogni utopia, quella di Office e Dogma pone delle basi teoriche per mettere in discussione la forma e l’architettura della città assumendo come temi specifici la circolazione e la produzione. Non è dunque una speculazione teorica o formale, ma rivolge in sintesi delle domande chiare riferite al progetto: come organizzare spazialmente la città per superare i conflitti e per considerare il valore emancipatore della conoscenza, oppure della forma urbana? Ma a distanza di anni, quando la città del 2022 non si è certamente arrestata dentro nessun recinto, ma, anzi, ha continuato a densificarsi, dentro e fuori, aumentando le diseguaglianze tra determinati muri che separano spazi urbani o domestici, la città, dove attaccarla, dove criticarla?

È chiaro che radicalizzare violentemente una qualsiasi città con una operazione da Monumento Continuo provocherebbe dei conflitti che si possono ben immaginare. Sarebbe un’operazione violenta, una colonizzazione23. L’utopismo astratto di Dogma e Office KGDVS, alla pari di quello realizzato di Thomas Jefferson e delle ben più violente asserzioni delle università piazzate con arroganza nel bel mezzo della città medievale, sono solo l’indice di quel tipo di conflitto che deve partire dal basso. La loro è un tipo di violenza che richiama all’antagonismo nell’ottica di sottrarre dai loro apparati istituzionali tutto il possibile potenziale emancipatore per distribuirlo ovunque nello spazio urbano, in ogni suo angolo. Simili provocazioni di grandi forme possono essere generiche nella misura in cui riescano a generare lotte come risposta. A tal proposito, quando, negli anni Cinquanta-Sessanta, si pianificava arrogantemente la grande università all’americana, furono gli afro-americani assieme ai movimenti femministi (i più subordinati) a rispondere per primi dando avvio al periodo delle lotte studentesche negli USA che poi innescarono la stagione del Sessantotto nel mondo24.

Negli anni Cinquanta vi erano più di 100 college di afro-americani collocati nel Sud. Ben presto, a seguito delle oppressioni esercitate dai bianchi e dal Nord, con il sostegno della Sinistra e delle Chiese locali, i neri si coalizzarono con gli studenti del Nord. In tutto questo la classe media osservava ciò che accadeva. Assieme agli studenti di Chicago, un gruppo del movimento dei neri, tra cui l’attivista Angela Davis, proponeva la fondazione di un nuovo college autonomo in California chiamato Lumumba-Zapata: la nuova università avrebbe ospitato un terzo di studenti neri, un terzo da Chicago e un terzo di studenti provenienti dalla classe operaia bianca25. Sulla stessa linea di attivismo, nel 1964 era stata fondata la Mississippi Summer Project che si poneva come alternativa alle istituzioni ufficiali. Si trattava di una coalizione tra laureandi neri e bianchi che contribuirono alla creazione di 41 scuole (Freedom Schools) che si riunivano ovunque, nelle Chiese, nelle strade e persino nei cortili sul retro delle case suburbane, che aprivano l’istruzione sia ai bambini e agli adolescenti, che agli anziani che avevano passato la loro vita a lavorare nei campi26). Progetti simili, riecheggiati in Europa negli anni Settanta tramite sperimentazioni un po’ più borghesi come i laboratori didattici di Global Tools di Ugo La Pietra, Ettore Sottsass jr., Superstudio, Archizoom, ecc., offrirono un modo di produrre conoscenza anche fuori dalla scuola, estendendola alla media/piccola scala. In una simile ottica, reinterpretare oggi esperienze del genere, significherebbe introdurre più facilmente spazi di formazione, lifelong learning, per famiglie, lavoratori precari e anziani, estendendo il Welfare universitario anche sul piano del lavoro della cura, e non solo agli studenti, in edifici di quartiere o nelle abitazioni collettive.

Se si pensa a contesti come il Sud d’Italia, come la Puglia o la Campania, la presenza di Atenei in aree intellettualmente più fragili è un forte potenziale emancipatore per il territorio comunale e regionale. Ma, a patto di un superamento disciplinare della ricerca dettata dall’impulso della cronaca e dall’impresa. A patto di rinnovare i programmi didattici, superando la tecnicizzazione del sapere, inserendo materie nuove in grado di puntare all’educazione, non solo quella professionale, ma soprattutto quella civica e politica. A patto che, come prima istanza, chi sta più in alto in gerarchia, amministratori e docenti ordinari, possa riorganizzarsi in forme solidali e mutualistiche nella distribuzione del proprio alto-reddito in collettivi di lavoro mettendo alla pari assistenti, dottorandi e studenti. A patto che si possano superare gestioni governate da logiche patriarcali nella divisione del lavoro e nell’espropriazione del lavoro dei precari.

Ma la riappropriazione deve partire dal basso, dal sud-di-qualcosa, dagli studenti e dai precari, dagli immigrati, dai lavoratori, occupando case, aule, strade, piazze, così come è avvenuto con gli studenti a Tirana nel 2018, a Lione e a Santiago nel 2019 e a Hong Kong nel 2020 dai giovani contro il colonialismo del capitalismo cinese; da coloro che, distanti dalla famiglia e dagli affetti, continuano a studiare e a lavorare, ma che da tempo, come moltitudine, hanno superato la vecchia ideologia coloniale tra Nord-Sud.

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Paul V. Turner, Campus: An American Planning Tradition, MIT 1995.

 

Note

Note
1Draper, 1964
2Memmi, 2003, pp. 20-21.
3Memmi, 2003, pp. 47-48.
4Memmi, 2003, pp. 125-126.
5Schmitt, 2002.
6Marx, 2012, pp. 183-184.
7Il Post, 2018.
8Bologna e Banfi, 2018, pp. 120-128.
9Bologna, 2007.
10Deslandes, 2005.
11Habitus viene inteso qui sia nel significato di «modo di essere», sia di «abito».
12Il termine Studium Generale, apparso nel XIII sec., inizialmente, serviva ad indicare la sede dell’università medievale, in seguito, il termine indicava nello specifico le sedi che erano riconosciute dal papa o dall’imperatore.
13Rashdall, 1895, pp. 6-10
14Honeywell, 1931, pp. 160-170
15Turner, 1995, pp. 68-75.
16Marullo, 2014, p. 358.
17Aureli, 2011.
18Heller, 2016.
19Heller, 2016, pp. 42-91.
20Fumagalli, 2007.
21Durante alcune «giornate di orientamento» organizzate dal Politecnico di Bari l’espressione viene spesso utilizzata da diversi docenti per«promuovere» il programma didattico delle varie facoltà. Inoltre, è curioso notare l’utilizzo, per attrarre iscrizioni, spesso, di slide accattivanti con i loghi di aziende multinazionali (Google, Facebook, Tesla, per citarne alcune), come possibili futuri sbocchi professionali per gli studenti.
22Dogma, 2011, pp. 23-64.
23Sull’argomento dell’architettura (e la griglia) come forma di colonizzazione si veda l’intervento di Pier Vittorio Aureli al seminario di Harvard GSD [Re] Form: New Investigations in Urban Form.
24Heller, 2016, p. 92.
25Ferguson, 2017, p. 56.
26Ferguson 2017, p. 66.

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