Food Humanities. Agricolture, estetiche, ecologie
Pratiche e saperi della suavitas
Forse addenti il cappero, perché sottomano non hai uno scoglio, da annusare e assaggiare a piccole leccate furtive come ti è accaduto di fare sui sassi, per sapere che sapore hanno. Per un po’ di sapere sul mondo
E in principio fu un cappero. Da solo al mattino. Nella sua salinità esasperata, sulla lingua prima del caffè, prima di qualunque altra sostanza organica dedicata al risveglio. Un fiore verde, resistente al vento, pianta malleabile, infestante come i rettili che la propagano, migrante radicale per sensorialità idrica. Terrore di botri e cisterne. Arbusto delle rovine, piaga della conservazione monumentale. Te lo ritrovi in un vasetto dentro il frigo e pensi: vabbè è un cappero. Se l’hai comprato a Carrefour puoi certo ignorarlo prima di infilarlo da qualche parte, giusto per riferire ai commensali che c’è. Altrimenti, non noterebbero la differenza. Se viene da un’isola vulcanica, raccolto in bocciolo verso l’alba o comunque lontano dalle ore del sole, vagliato nei calibri oppure chissenefrega, raccolto in un fusto meglio se una vecchia botte per la salatura, allora no. Il vasetto lo apri con l’ansia di una webcam in diretta sullo scoglio della Pollara. La prima cosa da fare al mattino… in cerca di cosa? del ricordo di un bagno perfetto a fine novembre? dell’immagine di te che risali in costume bagnato tra i rovi che pungono e quell’ultimo sguardo dietro le spalle giù verso la baia che ride? Chissà. Forse addenti il cappero, perché sottomano non hai uno scoglio, da annusare e assaggiare a piccole leccate furtive come ti è accaduto di fare sui sassi, per sapere che sapore hanno. Per un po’ di sapere sul mondo.
Macché madeleines. Basta con le vecchie zie delle province campestri e i loro infusi al tiglio. La sostanza è tossica, e il creosoto fa bene solo alle mummie. Non ci servono alimenti che ci riportino a momenti originari, a istanti intatti da parafrasare nel tempo che resta, quello che ti separa dalla prossima vacanza. L’orgasmo è lì a portata di mano, basta aprire il frigo. Per l’album dei ricordi ci sono i netowork sociali. E così liberati, gli alimenti, uno per uno, volta per volta, te li puoi godere senza rimpianti, collocati in una puntinatura del gusto di cui ciascuno può costruire la trama.
Un cappero al mattino che inaugura una costellazione di rimandi minerali e luci oblique. Una ricotta di capra che, tra il mercato contadino in cui l’hai comprata e l’odore del maglione di chi te l’ha venduta, sembra ripetere cucchiaio dopo cucchiaio la monotonia rassicurante dei campanelli degli ungulati. La fa compagnia una marmellata di marasche, vette di acidità che ispirano la disposizione d’animo per il resto della giornata: il piacere delle dissonanze. E il pane di Zina: coltiva roveja e biancola al lago del Salto, il primo un pisello selvatico che sembra parlare la stessa lingua del paese da cui lei proviene e che ha il sapore di una colata lavica, il secondo un grano tenero a bassa resa col quale fa questo pane più scuro del nome del suo grano, che consumi col rispetto di un gesto rituale. E quel guanciale bianco e rosa di suino nero e il suo paradosso di un profumo delicato che arriva per ondate a ogni giro di affettatrice.
Solo alimenti? Domanda che si fa largo nel distacco dalla cultura contadina. Certezza e solidità di un ordinamento cosmico che non obbligava a chiedersi che sapore avesse il pollo arrosto: identità di cose, gusto e parole
Sono alimenti. Solo alimenti? Domanda che si fa largo nel distacco dalla cultura contadina, da quella prossimità col vivente che cresce, si nutre, si ammala, resiste, prolifera nel coltivarlo e allevarlo, e del quale ci nutriamo. Certezza e solidità di un ordinamento cosmico che non obbligava a chiedersi che sapore avesse il pollo arrosto: identità di cose, gusto e parole, il pollo ha il nome del pollo e il gusto del pollo. Che altro, sennò? Ecco, è in questa confusa alternativa che si colloca la nostra esperienza del cibo, da alcuni decenni. Da quando pensiamo che un ordine culturale che pareva più vicino alla natura si è incrinato per sempre, e noi non sappiamo più dove stare.
Eppure il cibo rappresenta da sempre quell’incrinatura, il nostro posto incerto tra vegetali, animali e geologie, almeno da quando ha varcato la frontiera di quello che per Piero Camporesi era «il paese della fame». Uscito da lì, dalla penuria, dagli stenti, dalla fame nera, dallo scorbuto e dalla pellagra, dalla catena alimentare con noi in cima, il consumo di qualunque alimento è andato a collocarsi nell’orizzonte delle relazioni con tutto il resto: con le feste, le risate, l’uncinetto delle tovaglie, la porosità delle stoviglie, tra cristalli e argenti e comunioni di ogni sorta, tra il tempo perso e quello infinito del gioco con le mani, in alleanza con funghi, fermenti, lieviti, batteri e la molteplicità degli agenti della metamorfosi del commestibile, ovvero della trasformazione di una cosa in un principio vitale. Per noi, umani, il cibo non è mai solo cibo. È sempre qualcos’altro. E la cultura alimentare e l’esperienza che essa rende possibile è la continua e variante risposta alla domanda sul suo statuto, e dunque sul nostro.
Dacché nella perifrasi pollo arrosto si è rotta l’identità di un’evidenza tra l’alimento, la sua definizione e la sua esperienza di gusto, si dispiega la varietà di una parafrasi che spazia dagli allevamenti in batteria ai girarrosti della grande distribuzione organizzata, cadenzata dai ritornelli di galletti felici, campagnoli e imbustati e più di rado dalle esplosioni epifaniche di capponi natalizi nostrani dalle ossa dure e inspolpabili, fino ai polli in cacciatora in edizione vintage tra vecchie-nuove osterie e il più variegato design industriale delle cotolette. La permanenza della parola pollo non garantisce alcuna continuità dell’esperienza. La lingua è la stessa, ma non dice la stessa cosa. È questo il nostro attuale imbarazzo: attingere a una medesima nominazione per dare statuto a entità del tutto diverse, a esperienze del tutto diverse.
Siamo nel pieno della rivoluzione del saccarosio: accogliente, rassicurante, ripetibile, ecco riproposta su scala industriale l’identità tra nome e cosa nell’esperienza di un godimento universale
Certo, dagli anni Sessanta l’arrivo dello zucchero ci ha tramortiti tutti: il grano saraceno non ha retto la concorrenza glicemica del tegolino. Siamo nel pieno della rivoluzione del saccarosio: accogliente, rassicurante, ripetibile, ecco riproposta su scala industriale l’identità tra nome e cosa nell’esperienza di un godimento universale. L’ordine cosmico è ripristinato su scala globale, e quando dici dolce, sai come dove trovarlo e hai esattamente quel che ti aspetti. L’esperienza dello zucchero diventa più generalizzata di una moneta e predispone all’immediato di una soddisfazione che avrà concorrenti solo nelle droghe pesanti.
C’è nel gusto un sapere che va diretto all’intimità delle cose. Una conoscenza quasi tattile, inafferrabile nel suo fondamento, ma che dà forma a un mondo di relazioni dove ogni cosa rimanda a quell’altra, all’infinito
Ma il tempo dei miracoli non è finito per sempre, e può accadere che una pianta di pomodoro cresciuta per caso su un pianerottolo ti catturi col suo odore selvatico e ti riconduca all’estasi dei colonizzatori delle Americhe, impazziti di meraviglia per il profumo di un vegetale. O che una mostarda alla senape di zucca e pere fatta da un agriturismo degli Appennini ti costringa a pensare alla convivenza degli opposti e a un equilibrio delle dissonanze. Perché su questo aveva ragione il filosofo rinascimentale Tommaso Campanella: c’è nel gusto un pensiero. C’è nel gusto un sapere che va diretto all’intimità delle cose. Una conoscenza quasi tattile, inafferrabile nel suo fondamento, ma che dà forma a un mondo di relazioni dove ogni cosa rimanda a quell’altra, all’infinito. Un sapere che attraverso la suavitas non incolla la cosa al suo significato, ma al rimando che essa ha con tutte le altre, che la inserisce in un mondo di analogie, corrispondenze, prossimità e distanze, che mette in discussione il modo in cui il sapere moderno ha pensato il rapporto tra gli enti, ovvero tra le cose e il modo in cui per noi umani è possibile conoscerle.
Nelle pratiche organiche dei contadini delle ultime generazioni, nelle maestrie dei cuochi, nella generosità dei ristoratori, nelle ossessioni per le fermentazioni e le lievitazioni, in quella folta schiera di sperimentatori cui applicare aggettivi di naturalità, artigianalità, vivacità, radicalità, sincerità, autenticità… nella quale spuntano vignaioli, panettieri, norcini, casari… c’è l’espressione di un desiderio di rapporto col mondo, vivente e non, che abolisca o quantomeno diminuisca la nostra separazione da esso e che ci consenta un po’ di quell’esperienza sublime, attraverso un formaggio, di una prossimità con le capre e con l’erba Mutellina, con i fiori dell’Imperatoria attraverso un distillato che useresti come un profumo e con la geologia di rocce madri e vulcani tra i quali solo il vino, traduttore minerale per eccellenza, può trasportati meglio di una funivia.
Pratiche della suavitas che emergono a migliaia per desiderio di un altro rapporto col mondo, per desiderio di creazione di altri mondi: inattesi, sorprendenti, capaci di generare un po’ di stupore
Pratiche della suavitas che emergono a migliaia per desiderio di un altro rapporto col mondo, per desiderio di creazione di altri mondi: inattesi, sorprendenti, capaci di generare un po’ di stupore. E certamente non seriali, ripetibili solo per differenza, capaci di far sentire all’umano quel sistema di presenze vitali correlate che si è perso con il sapere moderno. Pratiche di una nuova ecologia, dove con questa non si intende la conservazione dell’equilibrio di un ambiente, ma la produzione di un ambiente nel quale ricollocare la prassi umana, intesa come prassi tecnica, a partire dalla creazione di nuovi nessi tra i viventi tutti. Nessi che è compito di un’arte dell’associazione, della trasformazione, di un’arte della metamorfosi rendere sensibile.
Ciò che fanno ogni volta che ribaltano romolaccio e portulacia in una cassetta di un mercato contadino, che riprendono un vigneto non clonato su piede franco e ci fanno un cru, che coltivano grani e pseudocereali che si gonfieranno un po’ meno nel nostro stomaco, ecco ciò che fanno questo produttori non è tanto ritrovare tradizioni e tecniche più naturali, quanto inventare una natura a partire da una coltivazione, da un processo, da una ricetta o da una pratica di trasformazione che ci consentirà, nell’atto di alimentarsi, di avere un altro sapere sul mondo. Se questi produttori sono oggi i protagonisti di una nuova pagina del sapere sociale non è solo perché i nuovi contadini hanno un phd in antropologia o perché le loro conoscenze ibride spaziano dalla botanica biondicatrice alla grafica punk, ma perché ci mettono in condizione di avere un accesso al sapere che indica un’altra strada della conoscenza.
Lì, nell’esperienza di gusto, questi produttori ci ricordano che la natura la si crea mentre la si coltiva e la si conosce mentre la si mangia.
Food Humanities. Agricolture, estetiche, ecologie è un cantiere disciplinare volto a mettere in relazione la diffusa sensibilità ambientale delle pratiche agricole del nuovo millennio e la rivoluzione del gusto di cui le agri-ecologie sono portatrici. Una nuova cultura gastronomica emerge tra le agricolture contadine delle ultime generazioni: attenzione per l’impatto ecologico, capacità di generare ambiente e di produrre differenti canoni estetici. Le Food Humanities intendono fornire strumenti di formazione transdisciplinare – tra scienze ambientali e nuove filosofie del vivente, tra estetica e storia dell’agricoltura – per comprendere la svolta agri-ecologica del presente. Food Humanities è un corso di perfezionamento dell’Univeristà di Roma3, promosso dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze. È coordinato da Daniele Balicco e Ilaria Bussoni, e diretto da Daniela Angelucci.
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