Il conflitto politico

La stagione dei movimenti in Italia tra violenza e repressione

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Maurizio Benveduti, Octobriana, N.d.R. 18. 04. 1976.

Quella sera a Milano era caldo, il bel libro di Marco Grispigni (manifestolibri, 2016) sulla violenza politica nel secondo dopoguerra in Francia e in Italia, arriva al decennio cruciale 1968-1978 dopo un attento confronto dell’uso del conflitto di piazza e della repressione poliziesca in Italia e in Francia, per ridimensionare la retorica allarmistica sugli anni di piombo mostrando di che lacrime grondi, e di che sangue, il periodo della «normalizzazione» post-bellica.

Caddero allora sotto i colpi della polizia decine di lavoratori (specialmente fra il 1947 e il 1954 e poi nel 1960 in Italia, nel 1946-1947 e poi negli anni della guerra d’Algeria, 1954-1962, in Francia). D’altra parte, la cultura del conflitto politico, della rivolta e del servizio d’ordine fece parte dell’identità dei militanti comunisti fino a tutti gli anni Sessanta, senza mai debordare in ideologia del terrorismo e della lotta armata. Violenza e terrorismo vanno ben distinti, tanto nel dopoguerra quanto negli anni Settanta. Nel 68 italiano e francese cambia piuttosto la figura del militante, che attinge ad altri strati sociali e sfugge al controllo dei partiti e dei sindacati di sinistra. Le conseguenze si vedranno nelle strade.

Anche da parte della polizia i due paesi presentano un’evoluzione in parte simile. La prima mossa comune fu la cacciata o l’emarginazione nel 1946-1947 dei partigiani assunti in polizia dopo la Liberazione e il ritorno di vecchi arnesi in un primo tempo epurati, poi l’organizzazione di reparti speciali (Celere e Crs) in funzione anti-sommossa. In Francia si adottano tecniche più «razionali» che riducono grandemente l’uso di armi da fuoco contro i manifestanti. Salvo a impiegare anche nella metropoli le pratiche algerine di guerra coloniale, come nei grandi massacri parigini del 1961-1962. In Italia permangono metodi più «primitivi» e cruenti di corrente impiego verso operai e contadini. Ancora nel 1968 la sostituzione del controllo a distanza dei manifestanti (idranti e lacrimogeni), rispetto al contatto fisico (cariche con camionette, manganelli e matraques), è anticipata dalla Francia (sebbene il maggio sia stato tutt’altro che incruento), e alla fine dell’anno importata in Italia. Qui, dopo i dubbi fasti dei carabinieri a cavallo nel 1960 e la sconfitta militare di Valle Giulia nel marzo 1968, la polizia viene ringiovanita e modernizzata, adeguandosi alle tecniche di una nuova composizione generazionale di manifestanti.

Il cuore del libro è, beninteso, la violenza della contestazione e l’assunto è bell’e chiaro. Al principio di tutto ci fu Piazza Fontana, la «strage di stato» e l’ondata di aggressioni ed bombe neofasciste nella prima metà dei Settanta, che genera nei movimenti prima una risposta difensiva, poi il passaggio a forme di violenza diffusa in una logica di insubordinazione sociale, e, ben distinta, una pratica minoritaria (ma non esigua) di lotta armata organizzata, che domineranno tutta la seconda metà del decennio, culminando nel rapimento e poi uccisione di Moro e spegnendosi intorno al 1978, con sanguinosi ma declinanti colpi di coda all’inizio degli Ottanta. Vicende che non costituiscono, se non per durata ed estensione, una peculiarità italiana, avendo ampi riscontri in Francia, Germania e perfino negli Usa. I numeri fanno però la differenza, numeri non tanto dei morti (che pure furono parecchi), quanto delle persone coinvolte direttamente e dei simpatizzanti.

Contrariamente a una vulgata interessata, gli anni Settanta sono segnati essenzialmente da una larga presa di parola, della partecipazione e dall’insubordinazione di massa, che si coagularono in stimoli di sindacalizzazione negli apparati statali (polizia ed esercito compresi), organizzazione non corporativa del ceto medio, scuola, magistratura, riconoscimento di diritti sindacali (Statuto dei lavoratori), secondo una «compresenza di conflitti di sistema e conflitti di cittadinanza» e una logica di democratizzazione del quotidiano. Decisiva, inoltre, in quegli anni – dopo i grandi successi «generalisti» dei referendum sul divorzio e sull’aborto – l’emersione di un movimento femminista che stravolse l’agenda politica tradizionale e le abitudini incistate degli stessi contestatori, con un gamma che andava dall’autocoscienza al separatismo e ben presto investì (seguendo l’esempio Usa) le definizioni di genere, l’omofobia e il queer.

Il clima plumbeo della seconda metà del decennio vede invece una gestione di piazza da parte delle forze dell’ordine sempre più dura, sebbene frammentaria e non sistematica come nel primo dopoguerra (almeno per quanto riguarda le uccisioni), e una corrispondente escalation della rabbia dei manifestanti, scomposta nelle componenti di violenza diffusa «esistenziale» e quella militarmente organizzata, che scaturisce sia dalla tradizione Pci (Gap, Br) che dai servizi d’ordine di movimento (Prima linea e altre sigle). Con una netta differenza fra il prima e il dopo l’ingresso del Pci nell’area governativa: in questa seconda fase viene a formarsi, agli occhi degli antagonisti, un blocco politico che legittimerebbe l’innalzamento dei bersagli fino a Moro.

In realtà il «successo» di quell’operazione segnò il massimo divario fra spontaneismo più o meno violento e terrorismo militarizzato, con conseguente e altrettanto «plumbea» vittoria della repressione e stagnazione complessiva della vita economica sociale nell’epoca della restaurazione trasformazione postfordista. Purtroppo proprio quel clima e i timori ricorrenti di ondate di ripresa della contestazione hanno indotto in molti storici, e ancor più in giornalisti tuttologi, la confusione fra terrorismo e qualsiasi eccesso pratico o verbale, alimentando un pensiero unico e un senso comune neoliberale privi di ogni carattere scientifico e, cosa ben più grave, brodo di coltura per i nuovi mostri che spuntano su entrambe le rive dell’Atlantico.

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