Autonomia e intellettuali

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Claire Fontaine, America (burnt unburnt), 2011.

Pubblichiamo un estratto da Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo di Pier Vittorio Aureli, Quodlibet (2016).

Il progetto dell’autonomia fu anche il tentativo di scorgere le nuove forme di dominio sociale e culturale da parte del capitale nel contesto di un impetuoso sviluppo economico. Se intellettuali come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini rispettivamente accettarono con elegante disincanto o, al contrario, rifiutarono in modo drammatico e apocalittico gli effetti culturali del neocapitalismo, altri, come ad esempio il poeta e saggista Franco Fortini, mossero la loro critica oltre il paradigma della nascente società dei consumi e rimisero in questione il lavoro intellettuale in quanto lavoro, come forma di produzione a tutti gli effetti dentro quella che si manifestava sempre più come industria culturale (e che includeva le arti, il design, la letteratura)1. Per intellettuali come Fortini si trattava di costruire la critica al lavoro intellettuale non a prescindere, ma a partire dalla realtà dei rapporti di produzione.

Alla luce di questa visione del lavoro culturale, una intera generazione di intellettuali trentenni negli anni Sessanta superò l’ideale di distacco estetico caro alla cultura liberal-socialista di stampo crociano. Questa nuova generazione ritenne che l’unica via per una vera dimensione autonoma del lavoro intellettuale e artistico potesse formarsi solo a partire da una rigorosa presa di coscienza del modo sempre più diffuso e tecnologicamente avanzato in cui il capitalismo organizzava la via dei propri subalterni. Dentro e contro – espressione celebre coniata da Mario Tronti a proposito della linea di condotta da tenere nei confronti del Partito Comunista del quale lo stesso Tronti non cessò mai di far parte – divenne uno stile intellettuale che mirava a una disincantata analisi di questi rapporti volta a ridefinire temi come la politica culturale, il lavoro intellettuale o l’esperienza poetica.

La necessità di verificare continuamente i mezzi e i fini del lavoro intellettuale diede luogo – come durante altre congiunture politiche – alla formazione di gruppi di intellettuali legati spesso dal lavoro redazionale delle riviste. Al di là della solidarietà umana e professionale che questa forma di esperienza culturale implica, l’idea del gruppo veniva riscoperta in quegli anni nella sua dimensione politica originale di amico/nemico, vale a dire come possibilità per il lavoro critico di essere risolutamente parziale e dunque di non cadere nell’illusione borghese di una presunta imparzialità dell’arte e del sapere. I gruppi di intellettuali che si formavano a ridosso di esperienze editoriali rivendicarono soprattutto la possibilità di un impegno politico senza che quest’ultimo dovesse essere integrato nelle direttive culturali delle organizzazioni politiche di massa.

Al contrario veniva messo in discussione proprio il ruolo organico dell’intellettuale all’interno del partito teorizzato da Antonio Gramsci. Riconoscersi nei gruppi significava inoltre concepire il proprio lavoro non più come un’esperienza individuale da offrire a una società di individui, ma al contrario come esperienza collettiva che si manifestasse nello spirito unilaterale di secessione di una politica culturale di assoluta e intransigente parzialità. A questo proposito è interessante ricordare un passo di una lettera indirizzata da Fortini al gruppo dei «Quaderni Piacentini», una delle élite politico-culturali costituitasi sull’onda dell’impatto della rivista politica «Quaderni Rossi»:

«Alla inevitabile costituzione, all’interno dei ceti e delle classi, e oggi in corso, di visibili o invisibili comunità psico-sociali, vere e proprie caste moral-culturali, una prospettiva di nuovo comunismo non può non opporre la prospettiva di comunità che sia ad un tempo il campo di una vita eticamente ricca e i centri di una azione pratica, quindi di verifica della prima. Questi gruppi, che si autoregolino secondo leggi non scritte d’una comune finalità e concezione del mondo, non sarebbero né gruppi di pressione (e quindi collaboratori sostanziali dell’ordine esistente) né gruppi propriamente politici (nel senso funzionale cioè liberale del termine, cui hanno in pratica aderito, almeno in Italia, anche i partiti marxisti). Dovrebbero sorgere su qualsiasi base (professionale, sindacale, amicale, generazionale) come assunzione a coscienza responsabile e conseguente di una comune vision du monde. Formazioni di questo genere si sono sempre avute, nella storia, e hanno sempre preceduto le vere e proprie formazioni politiche che si sono poi poste come tendenzialmente egemoni. Per il loro rifiuto iniziale e radicale della realtà storica circostante possono somigliare ad alcune delle innumerevoli società aristocratiche di cui è ricca l’antica e moderna storia dell’occidente; ma per il loro impegno alla trasformazione di quella medesima realtà evitano, insieme all’orgoglio di casta, le possibili degenerazioni».2

Questa idea di gruppo come aristocrazia sociale non deve apparire in contraddizione con l’idea di intendere il ruolo intellettuale come lavoro. Aristocrazia sociale significava volontà di affermare una posizione di potenza e superiorità intellettuale sulla base di contenuti politici. Questo voleva dire che il valore della cultura era inteso dai gruppi non nei termini di una sua presunta verità scientifica (o peggio dal suo successo commerciale come avviene oggi), ma dalla possibilità del pensiero di farsi arma critica di parte, sintesi unilaterale, al servizio di una parte della società contro un’altra.

Note

Note
1Sull’opera di Franco Fortini quale paradigma del lavoro intellettuale in Italia vedi il fondamentale saggio di Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Manifesto Libri, 2006. Vedi anche Franco Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valtentina Tinacci, Quodlibet, 2006.
2Franco Fortini, Lettera agli amici di Piacenza, in L’Ospite Ingrato: testi e note per versi ironici, De Donato, 1966, p. 90.

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