Il FattoreF
Prendere posizione sulle emozioni
Luogo: un paese dell’Europa mediterranea in lenta ripresa economica. L’azione si muove tra due zone periferiche, che chiameremo: Sanremo e Macerata. Dramatis Personae: un grande evento popolare, un attore, un monologo tratto da un testo di un drammaturgo contemporaneo, un fascista che spara, sei migranti di origine africana senza nome. Un coro di giornalisti, giornaliste, titolisti e opinionisti. Eventi: un’ondata di commozione che attraversa il paese, uno tsunami emotivo. Non per gli africani feriti, però.
Cos’è che ci commuove? Cos’è che ci muove? Cosa ci parla e cosa, invece, rimane muto? Quali parole e quali gesti hanno effetti sul mondo? E quali i corpi che producono immedesimazione, empatia, identificazione? Tenterò di prendere parola su un fatto ancora a corpo caldo, sull’esibizione televisiva dell’attore Pierfrancesco Favino, sulle reazioni che ha suscitato e su alcune riflessioni di ordine estetico-politico. Ma, per meglio osservare, vorrei rimuovere ogni traccia di personalizzazione. Con un atto di disindividuazione lo chiamerò dunque «FattoreFavino», anzi meglio: «FattoreF», per concentrare l’attenzione non sulla persona, sul talento del singolo, sulle sue intenzioni, e così via, ma piuttosto su alcuni funzioni agite, accadimenti non perimetrabili entro lo spazio angusto del singolo individuo, ma trasversali, mobili, transpersonali. Funzioni drammaturgiche che agiscono il campo, potremmo dire, e che a tratti – come le nuvole o i banchi di nebbia – si addensano in coincidenza di un’identità personale, magari convivendo con altre funzioni contraddittorie, con intensità emotive differenti che rimangono nascoste o in sottofondo a un volume più basso. Come la fisica quantistica, le passioni non riconoscono il principio di non contraddizione.
Il tempo. La prossimità con l’aggressione fascista di Macerata, la mancanza di reazioni da parte delle istituzioni, le vergognose narrazioni dei media hanno agito uno spostamento, mettendo in connessione il «FattoreF» con altre variabili. Un concatenamento. Il problema qui non è solo il fascista di Casa Pound e l’ondata neofascista (organizzata) che attraversa l’Europa, ma il sistema di percezione attraverso cui l’esistente viene rielaborato, e in questa rielaborazione incompleta o difettosa razzismo e neofascismo vengono autorizzati come possibili legittimi. Un ruolo da protagonista lo gioca l’infaticabile lavorìo dei media nel narrare, amplificare, nominare, convocare, dare parola e, in una parola, di fatto contribuire a produrre il fenomeno di cui si occupano con tanta meticolosità. È importante tenere insieme neofascismo e razzismo, senza che il primo nasconda il secondo: non si tratta infatti solo di un’identità con una sua densità ideologica, ma di un fenomeno più ampio e dai confini meno netti. Dico questo solo per convocare il contesto, non per farne un’analisi, ma vorrei sottolineare che se parliamo di sistemi di percezione e di nominazioni, allora la contiguità con ciò che è linguaggio, logica delle sensazioni, narrazioni, immaginari e immaginazione, politica culturale delle emozioni, corporeità, presa di parola e pratiche artistiche che hanno effetto sul mondo mi sembra significativa. E parlando di arte e di estetica può capitare di prendere parola dentro un discorso non del tutto marginale o accessorio.
Il «FattoreF» si è materializzato nel monologo1nella serata di sabato. Nel pomeriggio a Macerata si è svolta una manifestazione solidale, antirazzista e antifascista, che ha occupato parte del dibattito pubblico dei giorni precedenti: criminalizzata dai media e dall’entourage vicino al PD, prima negata, poi annullata da chi non l’aveva convocata, poi autorizzata a mezza voce, e in ogni modo silenziata. Stare nel tempo è tutto per un attore, altrimenti la battuta suona stonata. Fuori tempo, fuori ritmo. Prima del monologo che ha mosso i cuori al pianto, il «FattoreF» si è prodotto in una serie di performance non altrettanto riuscite (battute transfobiche, siparietti da italiano medio che sbava sui décolleté delle cantanti e così via). Sicuramente non erano firmate da Koltès. Il tempo è tutto. Attore, ascolta. Tu non parli, sei parlato. Il «FattoreF» è stato un fuori tempo. Perché un testo, una parola, un’intonazione non sono un esperimento senza gravità: cadono nel mondo, fanno attrito, entrano in contatto con altre parole altre intonazioni che stanno in prossimità, sempre spazialmente determinate. Nel giorno dell’antirazzismo e senza il coraggio di una presa di parola o di posizione esplicita, l’accento stentato e migrante del «FattoreF» è suonato a tant* fuori luogo.
Partiamo dal corpo attoriale. Se c’è grandezza, è tutta nelle parole di Koltès, il re-citante qui c’entra poco. È facile confondere l’intelligenza e la bellezza di Shakespeare o Pinter con quelle di chi le mette in voce, ma del resto all’attore l’intelligenza non è dovuta, e all’attrice ancor meno, o no? Però le parole di Koltès lasciate sole, disabitate, senza contesto, senza incandescenza di corpo incarnato d’attore, posizionato, vivente nel mondo, parlante di voce propria, rimangono parole dette e basta. Sono solo – direbbe CB – re/citate appunto. Attore, il tuo nome lo dice chiaro: agire qualcosa devi, far accadere, ricombinare mondo devi, inventare nuove sensazioni non ancora esistenti. Altrimenti «il tuo nome non è esatto», un titolo di Romeo Castellucci. Nella piazza, come sulla scena, si agisce. È utile leggersi Arendt per ritrovare tutte le assonanze tra la scena-scena e la scena del politico: la compresenza dei corpi, l’esposizione allo sguardo dell’altro, la dimensione dell’agire, lo spazio tra, relazionale. Attore e agorà hanno la stessa radice – actor, da ago, acto, da cui attore inteso come agente la scena, e drào: agire, da cui dramma, drammaturgia – ed entrambe la condividono con agon per dire della dimensione agonistica, conflittuale, che è costitutiva sia del politico che della presa di parola. Del resto, senza conflitto non c’è azione drammaturgica: lo sa bene chi scrive sceneggiature per il cinema o per le serie.
Le parole scritte, le parole messe in voce, incarnate, incorporate. Koltès parla da un margine, è lui stesso un margine, un emarginato. Anche dai suoi titoli urlano i margini: la notte, l’orlo della foresta, i campi di cotone. E le notti, i campi, le foreste, i deserti qui non sono ambientazioni realistiche, perimetri di un esistente localizzabile, e nemmeno trascendenze metafisiche: sono piuttosto geografie immaginarie e politiche, luoghi comuni, atlanti cartografici di un simbolico condiviso e parlante. Quando nella Francia degli anni Ottanta vengono evocati la sabbia che secca la gola, le notti ai bordi del deserto, le insurrezioni in hangar abbandonati di periferia, le parole non rimangono senza referente, non vanno a vuoto. Con queste parole Koltès faceva comparire in scena lo spettro del rimosso collettivo francese: l’Algeria. È il colonialismo preso per intero che fonda l’Europa, certo, ma il fantasma che inquieta i sogni della République ha anche un nome proprio. Non una generica denuncia che parla al cuore buono del popolo e lo consola, ma il nome impronunciabile. Lo racconta bene il film di Haneke del 2000 Cachè, che appunto vuol dire «nascosto», questo farsi grumo del senso di colpa all’intreccio tra storia privata e storia politica collettiva. Cachè, a differenza del «FattoreF», non fa piangere, non commuove, non consola: è freddo, spietato. Fa male. E in Italia, qual è in Italia il nome o i nomi impronunciabili? Eritrea? Etiopia? Somalia? Mogadiscio, e gli stupri dei reparti italiani non all’inizio del secolo ma negli anni Novanta? Albania? Sarajevo? La memoria è sempre ingranaggio collettivo, nessuno può raccontare la propria storia. È l’altro che mi dice chi sono, scrive Cavarero affermando lo statuto relazionale dell’identità che si dispiega attraverso la narrazione. Cani, negri, froci, parricidi, sans papiers, ecco la moltitudine che abita i testi di Koltès, intensità viventi e poetiche che sono sempre delle linee di divenire, mai dei personaggi. Oppure il dialogo notturno tra un cliente e un venditore di corpo e di sesso. Come in Fassbinder, altro margine parlante dalle Germanie s/confinate del dopoguerra postnazista, si tratta di economia politica degli affetti: ogni scambio – affettivo, relazionale, sessuale, linguistico – è sempre mediato dal denaro in un’economia capitalista. Di denaro si parla, e non di amore, come in Goldoni del resto, amatissimo da Fassbinder. La riscrittura di Das Kaffeehaus – una bottega del caffè abitata da puttane, contrabbandieri e nullatenenti che scorre al ritmo tintinnante di un registratore di cassa, entrate e uscite di contanti questa è la partitura su cui dire il mondo – ci lascia un segnale precisissimo su come rileggere Goldoni fuori dagli orpelli del teatrino borghese che vi ha sovraimpresso l’Ottocento: un Goldoni nero, che scrive il primo testo teatrale in cui il protagonista è un oggetto inanimato, che nello scambio tra corpi media e incorpora desideri, qualità, pulsazioni2. (Che cosa vi ricorda?) Nelle opere di Goldoni il denaro opera come motore drammaturgico, come mediazione tra i personaggi, dichiarando la natura contrattuale, monetaria, creditizia, finanziaria di ogni relazioni nel mutato contesto mercantile in cui fa la sua apparizione l’homo oeconomicus: i matrimoni senza amore, il cibo e la fame, lo scrocco come stile di vita, il gioco d’azzardo, gli affari, le conversazioni, i balli, la festa e la dissipazione, i padroni e i servitori, i rapporti di potere e l’uso strategico delle asimmetrie. Ancora, un’economia politica degli affetti. Che poi sessualità e relazionalità siano organizzazioni materiali seppure invisibili della società ce lo dice tutto il femminismo.
Sull’estetica, o sul sensibile comune. Vorrei dire, con Brecht, che far piangere piangendo, commuovere commuovendosi è poeticamente reazionario. È populista. La catarsi di Aristotele altro non era che lo spurgo delle mestruazioni delle donne (κάθαρσις), e preferisco riconcettualizzarla così, in questo legame con il corpo sessuato. L’area semantica è quella della fisiologia, della biologia medica, dell’agricoltura: evacuazione del fluido mestruale e potatura degli alberi, per nominare la vicinanza tra fisiologia e politica, nel segno della minorazione per uno tra i più misogini tra i filosofi (assimilazione tra natura inerte, passiva e prelinguistica e il femminile), in un segno tutto rovesciato e affermativo per il pensiero femminista (materia agente, immanenza, affetti, intensità, pensiero corporeo). Non a caso, oltre al fugace e misterioso passaggio nella Poetica, il termine ricompare nella Politica, in cui Aristotele parla di catarsi e della sua funzione – simultaneamente cognitiva e emozionale – all’interno di un complessivo progetto di educazione dei cittadini. È dunque una metamorfosi che avviene per affetti, una trasformazione emotiva, un’educazione sentimentale.
L’immedesimazione è riproduzione del Medesimo, dell’Identico (identificazione): non produce differenza, non produce pensiero critico. Identi/ficare il Diverso, verbo transitivo, farlo uguale a Sè: così agisce lo sguardo coloniale. Io sto con Brecht. Invocazione: Attori! Attrici! Rimettete vi prego l’interiorità al posto suo proprio, questo sfoggio d’interiora, questa esibizione degli umori, questa tracimazione d’ego interiormente compostato dell’attore piagnone occhiolucido con musica di sottofondo analfabetizza gli affetti, è abc dell’estetica intesa come logica della percezione. È autoritaria: ti dico per mezzo dell’emozione quale emozione devi provare, lo stesso meccanismo manipolatorio che genera le paure sociali. È un’estetica reazionaria: emozione A che genera emozione A (criterio della rappresentazione), tutte le avanguardie del Novecento si sono battute sul campo, anche perdendoci la vita come Mejerchol’d. C’è stata sperimentazione laddove ci sono stati antinaturalismo e antirappresentazione. Forse non a caso quest’estetica ha tanto successo adesso nel nostro tempo opaco. L’attore si immedesima con il personaggio, lo spettatore con l’attore, una fusione senza scarto. Per Brecht questo tipo di identificazione mimetica produce uno stato di soddisfazione, di equilibrio, e quindi di accettazione dell’ordine del mondo come l’unico possibile. Brecht sogna un teatro per fumatori, un teatro in cui lo spettatore assiste allo spettacolo come si assiste a un incontro di boxe. È il V-Effekt: un’estetica dello straniamento, o distanziamento. Straniamento, in tedesco Verfremdung, richiama subito l’Entfremdung, termine utilizzato da Hegel e Marx per concettualizzare l’alienazione. È uno spostamento, un dislocamento, l’azione di spostare un oggetto fuori dall’abitudine del riconoscimento. Una poetica della distanza, la chiama Slovskji. Ma preferisco ancor di più – anche per il contesto in cui ci muoviamo qui – la somiglianza di famiglia che la traduzione italiana di straniamento ha con la parola straniero. Una poetica che attiva uno sguardo straniero, strabico, che trasforma una cosa solita, conosciuta, in una cosa che piomba inattesa davanti ai nostri occhi. È un divenire-straniero, come lo pensano Deleuze-Guattari, un divenire-minore: «essere nella propria lingua come uno straniero». Ecco perché parlare con un accento africano o rumeno, così come in un dialetto, non è «razzista» di per sé (l’atto creativo non sopporta dogmi): può anzi essere la ricerca di un divenire-minore, di un farsi stranieri nella lingua maggiore, facendo esplodere la dizione in un idioma selvaggio, inciampando, balbettando, minorizzando, delirando la lingua. Ma lo è a patto che si infranga la cornice della rappresentazione: io non sto rappresentando l’altro, proiettando il mio sguardo. Ed ecco perché nel caso del «FattoreF» – attore declamante, immedesimazione, induzione patetica e, in una parola, rappresentazione – l’accento mimeticamente prodotto finisce per rappresentare violentemente l’Altro che non ha voce e non ha corpo, incorporandolo e facendolo identico a sè, invisibilizzandolo ancor più. E suona stonato. Eppure tutti piangono, per quel corpo bianco illuminato e non clandestino. Forse perché ci assomiglia di più?
Omeopatia. L’immedesimazione dell’io con un altro io simile in tutto ma separato sembra l’unica forma possibile di conoscenza affettiva. Mi colpisce sempre molto come sui social media in reazione ad eventi traumatici (un attentato terroristico in Europa ad esempio), il riconoscimento che si attiva sia prevalentemente immedesimativo: cosa avrei provato se io mi fossi trovato là, sono sconvolta perché ho passeggiato in quella strada qualche mese fa, anche io vado a quel genere di concerti ecc. Il tipo di esperienza che l’ipermediazione produce è, paradossalmente, quella di un’immediatezza senza distanza, dunque senza differenza, e dunque priva di senso critico. Una pervasività di performance individuale ottenuta per immedesimazione e identificazione, tecniche grammaticalmente elementari della pratica scenica. La musica è un altro segnale e, soprattutto nel cinema, è spesso utilizzata come un interruttore per attivare nello spettatore un preciso stato emotivo, privandolo di ogni scelta (così nel «FattoreF»). Omeo-patia, ὅμοιος, simile e πάθος, sofferenza, passione. Una cultura omeopatica degli umori. Su Spotify, ad esempio, è possibile scegliere la musica da ascoltare non solo per generi ma anche per mood, per stati d’animo: operazione buonumore, dolce far niente, young, wild&free, melancholia, alone again. Netflix organizza i film in sottogeneri, come commedie cupe, drammi strappalacrime, film drammatici ottimisti. Cultura omeopatica, il segno coincide con se stesso, semplificato, identico, meccanicamente traducibile. Buster Keaton, che fa ridere per inversione, per eccesso di stralunata malinconia, per scioglilingua del corpo, diventerà forse, col tempo, illeggibile: stratificazione complessa di segni non omogenei tra loro dentro cui orientarsi, muoversi, posizionarsi, amatissimo dalle avanguardie, era però icona popolare. Nelle estetiche della rappresentazione il paradigma è lo specchio, il riflesso, l’identico. Come sottolinea a ragione Annalisa Sacchi rovesciando l’ottica, anche la prima stagione del naturalismo è stata rivoluzionaria sul piano linguistico, e non conservatrice, proprio perché svela – nel segno di un materialismo estremo – l’artificialità ricostruita di ogni natura: del corpo del performer, allenato e ortopedizzato, dell’impianto scenico e luminoso, del tempo organizzato in partiture più o meno lineari. L’ingresso dell’oggetto in scena, degli arredi, degli odori, dei suoni: in quel momento storico quest’irruzione rompeva la rappresentazione. La materia è in scena. Era irrappresentabile, e infatti fece scandalo.
Dice Brecht: sulle emozioni si può prendere posizione allo stesso modo in cui prendiamo posizione sulle idee. Le emozioni non sono un immediato, un incontrovertibile su cui non si può questionare. Su questo piano, solo il femminismo può essere di orientamento, perché ha riconosciuto la dimensione relazionale, affettiva, di cura, riproduttiva come lavoro sessuato non retribuito, e dunque fonte inesauribile di accumulazione, e perché ha nominato questa dimensione come un campo del politico, come spazio di dominio ma anche di possibile soggettivazione: il personale è politico. Sara Ahmed parla di politica culturale delle emozioni: i corpi prendono forma dal contatto con gli oggetti e con gli altri, le emozioni plasmano le superfici dei corpi individuali e collettivi.
«FattoreF». In questo pianto televisivo che si autoassolve, che si autoconsola e si autocompiace, non riesco a vedere altro che: io io io. L’ecolalia del nostro tempo: io io io. Interiorizzazione, costruzione del personaggio come figura speculare del soggetto moderno: un io compiuto, segnato da un’integrità psicologica, signori e signore: ecco l’individuo. Fino a tutto l’Ottocento sulla scena non compaiono personaggi per come li intendiamo oggi, bensì personificazioni di forze, dei, semidei, figurazioni, maschere, figure sociali. Nel teatro rinascimentale e barocco i performer condividono lo spazio scenico con le macchine. Umano e non umano, organico e meccanico, senza gerarchie narrative. La costruzione di un dentro/fuori, di un’interiorità conchiusa, di un dentro in cui emozioni e affetti accadono, inaccessibili, è il frutto di un lungo processo di privatizzazione degli affetti. Spinoza lo sa bene: gli affetti sono forze, sono divenire, non proprietà possedute, personali, interiori. È possibile riconfigurare le geometrie degli affetti assumendo la curvatura di una dimensione transindividuale? È possibile pensare le passioni senza passare dall’io? La critica al personaggio del teatro di rappresentazione è anche una critica verso una postura volontaristica del fare sulla scena, una critica del primato della volontà e del produrre. E dunque del posizionamento dell’attore al centro della scena, declamatorio. Indagare zone materiche di intensità, per scomporre parola e significato, decostruire il soggetto di parola, cercando piuttosto zone di indiscernibilità o indeterminazione: tra le parole, tra gli atti di enunciazione, tra gli organi stessi del corpo. Questo hanno fatto le pratiche sperimentali.
Il ruolo dei media nel farsi percezione diffusa del razzismo in Italia a me sembra evidente e gravissimo: chi si trova in un luogo di massima visibilità – come nel caso del «FattoreF» – ora ha massima responsabilità, ed è grave non assumerla. Se vogliamo che il teatro, le arti contemporanee, soprattutto quelle più sperimentali, non siano linguaggi parlati da élite culturali, allora dobbiamo preoccuparci di riconnettere questo fare al mondo. Sono certa che una parte della questione sia rimettere in connessione il pensiero sulle arti sceniche con le teorie critiche, con gli studi queer e postcoloniali, con le riflessioni sul processo creativo, sui sistemi produttivi e sul mercato della conoscenza. Una responsabilità enorme ce l’ha senz’altro il baronato universitario, che negli ultimi decenni ha svolto un’aggressiva operazione conservativa, delle cattedre e delle discipline, marginalizzando le pratiche e imponendo ovunque interpretazioni vetero-storicistiche.
Ma questa è solo una parte del problema, anche perché per fortuna il pensiero critico sulle arti – performative e non – ha continuato a circolare fuori dalle accademie, in spazi informali, a contatto con l’attivismo, e questa rivista online ne è un esempio. Il problema più ampio è quello che potremmo definire in termini di una «democrazia linguistica», o anche «democrazia affettiva», che è il contrario di un livellamento populista verso il basso, di una semplificazione riduzionista. Se solo pochi sono capaci di emozionarsi di fronte a un’opera complessa, o di fronte alla scrittura del movimento, il nodo è politico: «i codici fondamentali d’una cultura – quelli che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche – definiscono fin dall’inizio, per ogni uomo, gli ordini empirici con cui avrà da fare e in cui si ritroverà», scrive Michel Foucault ne Le parole e le cose. Per questo bisogna agire e sperimentare forme della politica con gli strumenti dell’arte, e viceversa. Inventive bisogna essere, inventive prima di tutto. Non coincidere, bensì diffrangersi bisogna. Dunque, prima ancora che politica, ci tengo a dire che questa è una presa di posizione poetica. Ho tutte le armi affilate e il coltello tra i denti.
Ho elaborato queste riflessioni nel vivo dei dibattiti che si sono diffusi sui social, e i miei pensieri si sono dunque intrecciati con quelli di Nina Ferrante, Maddalena Fragnito, Gaia Grosso, Alessandra Fabbri, Silvia Calderoni e altre, fino a rendersi a tratti indistinguibili. Ma so che per noi il pensiero non è mai questione di proprietà.
Letture sparse: Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione; Sara Ahmed, The Cultural Politics of Emotion; Bertold Brecht, Scritti teatrali; Annalisa Sacchi, Il posto del re. Estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo; Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana; Aristotele, Poetica; Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore.
Note
↩1 | Tratto dal testo di Bernard-Marie Koltès La notte poco prima della foresta, Gremese Editore, 1990. |
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↩2 | Devo a Stefano Tomassini il dono di questo rovesciamento di Goldoni. Prima ancora che nel lavoro teorico, accadde facendo tavolino per una messinscena di un Goldoni minore, qualche anno fa. Cfr. Carlo Goldoni, Opere (Prefazione dell’autore 1750, Il servitore di due padroni, Il teatro comico, La locandiera, La scuola di ballo, Il ventaglio, Mémoires), a cura di Stefano Tomassini, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, 2012. |
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