Il riso di Nataša

Felicità e vita eterna secondo Tolstoj

Fiamma Montezemolo, Field Notes, 2015, Courtesy Magazzino
Fiamma Montezemolo, Field Notes, 2015 - Courtesy Magazzino.

Soundtrack
La colonna sonora di Guerra e pace differisce da quella che istintivamente ci saremmo immaginati. Tolstoj, buon conoscitore della musica e dei suoi effetti emozionali, fa risuonare filologicamente nei salotti degli anni 0 e 10 dell’Ottocento il clavicembalo o il fortepiano, i notturni di Field, mazurke pre-chopiniane o brani di Mozart e Cherubini e cantare melodie popolari russe, naturalmente. Al nostro orecchio è inevitabile che risuoni un altro sfondo, peraltro anacronistico, per esempio il Beethoven del periodo di mezzo – come però avverrà soltanto con la Sonata a Kreutzer, di ambientazione e redazione più tardiva. Ma ancor più – per un effetto indipendente dalla volontà di Lev Nikolaevič che lo apprezzava con riserva – Pëtr Il’ič Čajkovskij, che viceversa del romanziere fu grande ammiratore pur non condividendone molte idee e soprattutto la svolta profetica dopo l’Ispoved’ del 1882. Più che alla celebrativa Ouverture 1812 pensiamo alle miniature delle Stagioni op. 37, dove è difficile, malgrado le dediche d’occasione premesse in partitura, non riconoscere il principe Andrej che ascolta ciarlare Nataša e Sonja in una notte di plenilunio a Otradnoe nelle Notti di maggio o nella Barcarola di giugno e altre scene di idillio campestre nella Trojka di novembre o nel walzer di Dicembre.

Città
A differenza da Dostoevskij e da Gogol’ che tracciano un’accurata topografia fantasmagorica di Pietroburgo, Tolstoj è indifferente e reticente rispetto agli sfondi urbani, quanto minuzioso nel descrivere i teatri di battaglia di Austerlitz e Borodinó o si incanta rievocando la caccia o la vita quotidiana in campagna a Otradnoe e Lysye Gory. Senza dimenticare gli sfondi caucasici dei racconti autobiografici di guerra o l’itinerario siberiano di Resurrezione. E in vecchiaia i percorsi in treno, dal dialogo della Sonata a Kreutzer al monologo interiore che si conclude alla stazione di Astapovo nel novembre 1910. Per contrasto i cenni alla capitale imperiale sono vaghi e quasi infastiditi (il palazzo sul Lungoneva degli Inglesi per il primo ballo di Nataša Rostova, la cena all’hotel Angleterre in Anna Karenina) e, per quanto riguarda la più frequentata Mosca, si limita a elenchi e raramente si allontana dall’Arbát, che per lui gioca lo stesso ruolo delle sordide adiacenze di piazza del Fieno in Dostoevskij. A eccezione dell’incendio di Mosca (quando il dentro si rovescia in fuori), la sua attenzione verte sugli interni, come contenitori dei personaggi, casse di risonanze dei dialoghi: sarebbe strano sentire il francese se non nelle conversazioni dentro i palazzi o nelle deliberazioni degli alti ufficiali all’aperto, sui campi di battaglia. La costruzione intercambiabile dei personaggi richiede quinte solenni, distanziate dalla flânerie nevrotica di Dostoevskij o del Gogol’ pietroburghese – per non parlare degli scrittori a venire. La Mosca di Tolstoj non può essere quella di Bulgakov o dei diari affamati di Marina Cvetaeva.

Il popolo e la storia
In tutto il romanzo – tralasciando la trattazione appiccicata alla fine – viene mostrato in concreto come ci sia scarso rapporto fra i piani e gli ordini esecutivi e quanto accade in realtà: l’esempio delle battaglie vale a maggior ragione per ogni altro evento. I comandi non vengono eseguiti e solo per caso, fra i mille ordini impartiti dai generali in capo, se ne trova a posteriori qualcuno che coincide con i fatti reali. Le previsioni risultano geniali solo quando alcune di esse (fra le tante formulate) risultano a posteriori confermate dagli avvenimenti. La storia si svolge in perfetta indipendenza dai progetti e dai leader che credono, appunto, di condurre le masse da qualche parte con la disciplina, l’onore o ideali patriottici, mentre invece sono trascinati dalle masse in moto, nel migliore dei casi. Troppe sono le varianti e gli impulsi ciechi che fanno di una guerra l’opposto di una partita a scacchi e vanificano qualsiasi scienza alla Clausewitz (beffarda e marginale apparizione sulla scena di Borodinó).

Con un mirabile effetto di straniamento (Šklovskij), guardando cioè con uno sguardo finto-ingenuo, l’autore smonta le pretese dei grandi uomini e dei loro storici di svolgere una funzione determinante: quanto più lunga è la catena di comando, tanto più illusoria è la loro presa sulle azioni degli altri e, per paradosso, minore il loro contributo nella composizione delle forze da cui risulta una tendenza. Di qui l’irrisione per i monologhi di Napoleone in Guerra e pace e la denuncia della ferocia di Nicola I in Chadži-Murat. In entrambi i casi però, la storia scorre mossa dalle grandi forze della vita collettiva, dai suoi interessi elementari di salute, malattia, lavoro, riposo, amore, amicizia, odio, passioni assortite – del tutto indifferenti alle vicende di vertice, si tratti di guerra o di riforme civili. Il potere arbitrario dello Stato autocratico e della Chiesa ortodossa e la simmetrica violenza rivoluzionaria (dai decabristi al populismo, alla rivoluzione del 1905) sono forme del male, cui non si deve resistere inquinando la pienezza della vita.

Vivere senza fare del male, senza agitarsi e senza più nulla desiderare – si dice Andrej in fase depressiva guardando una vecchia quercia ed equivale alla fissità del cielo di Austerlitz. Ma il discorso non è poi tanto diverso quando siamo in presenza di un’esistenza schietta e gioiosamente naturale (cioè russa) come il comportamento istintivo di Nataša, che si manifesta nel suo riso di adolescente e man mano si trasforma nella più complessa vitalità segnata dall’età e dalle esperienze, quando sotto il riso si sentono le lacrime o la dedizione ai figli. Ma vale sempre il fatto che il suo ridere (come quello del fratello Petja o della cugina Sonja) non aveva una precisa ragione, ma testimoniava il loro «essere pieni, nell’intimo, di felicità e di gioia, e perciò qualunque occasione si presentasse era per loro motivo di gioia o di riso.

Aderenza all’immediatezza della vita, come in forma più meditativa si manifesta in Pierre Bezuchov, che da prigioniero dei francesi in ritirata si rende conto che le sue parole e le azioni e la sua stessa vita hanno senso solo come particella di un tutto in cui è coscientemente immerso (la goccia e il mare) e sono necessari con la stessa immediatezza con cui un fiore esala il suo profumo. L’amore del tutto fa accettare perfino la rinuncia alla vita e la morte, ci si immerge nel fluire della vita come ci si bagna nell’acqua di un fiume. Il contadino-soldato (ma più il primo che il secondo) Platon Karataev gli ha fatto capire che Dio è dappertutto nell’universo, non il suo algido Architetto come nelle dottrine massoniche. Che Dio è, per così dire, sciolto «nella vita eternamente mutevole, eternamente grande, incomprensibile e infinita», senza perché e senza spazio per una volontà indipendente dell’uomo – qualcosa di mezzo fra lo spinoziano Deus sive natura e un dichiarato approccio taoista e buddhista che diverrà esplicito nel tardo Tolstoj anarchico pacifista e orientato verso un «nichilismo passivo».

Nel saggio In cosa consiste la mia fede, redatto nel 1883-1884, Tolstoj mette in risalto come Gesù non proclami nessun «ideale» trascendente, esortando piuttosto a rinunciare alla propria vita falsa per passare a una vita vera, da una vita animale di supina obbedienza alle leggi sociali e statali, santificata dalla Chiesa, a una vita razionale e sovversiva, ispirata ai precetti evangelici. La vita eterna non è immortalità individuale dell’anima nell’oltretomba, ma vita terrena, mortale, comune di tutta l’umanità, nella successione delle generazioni, nella condizione di pace, perfezione e servizio del prossimo. La felicità e l’armonia immanente a questo mondo sono la nostra eternità. Il riso di Nataša sostituisce le promesse angeliche e altrettanto vale per l’operosa soddisfazione di Pierre. Il cielo di Austerlitz offre la dimensione dell’agire umano, non ne è lo scopo. Dio abita in ogni bivacco di soldati e in ogni bosco di betulle.

Costruttivismo
Cosa c’entra questo con la storia? L’ascetismo populista (o, se si vuole, l’anarchismo da gran signore) di Lev Nikolaevič non solo contrappone la vera vita evangelica alle promesse escatologiche della Chiesa-istituzione e al teatro della storia, ma fissa anche gli strumenti di comprensione: all’impossibilità di una scienza della storia (della guerra, del diritto, della politica) corrisponde la potenza del narratore, autorizzato a costruire il senso degli eventi, che lo storico infallibilmente fallisce. Il 1812 è costruito in Guerra e pace secondo la sua verità profonda, che eccede la cronaca e la filosofia della storia; Tolstoj lavora come Dio, dall’interno di un tutto immanente, che consente soltanto il vissuto e lo storytelling. Tanto che – lo ha magistralmente messo in luce Viktor Šklovskij1 – nelle varie stesure del romanzo i personaggi vivono o muoiono e si accoppiano in combinazioni diverse, Pierre diventa un decabrista e il racconto inizio addirittura quaqndo lui e Nataša tornano dalla katorga siberiana, Mosca non brucia spontaneamente come si ribella il popolo, ma il fuoco è appiccato da Dolochov, il principe Andrej, spira prima ad Austerlitz, poi è ferito mortalmente a Borodinó e comunque cede molte idee a Bezuchov. Anche i personaggi storici (Napoleone, Kutuzov, Bagration, Alessandro I) sono di volta in volta alterati rispetto ai dati oggettivi e nelle varie versioni: sono posti sullo stesso piano dei personaggi di invenzione. Insomma, non è un romanzo, né storico né a chiave, ma «un mondo creato da Tolstoj»2. Un mondo costruito per montaggio e variazione degli elementi costitutivi, utilizzando sistematicamente la metonimia, cioè l’uso di dettagli per risalire alla visione complessiva: il riso di Nataša, allora, non è solo un tratto identificativo di personaggio ma una forma di apertura al flusso della vita, una chiave di decifrazione dell’intero romanzo e del progetto di vita giusta che vi sottostà.

Ancor più che nella fluviale epopea moscovita o nella psicologia romanzesca di Anna Karenina questo carattere demiurgico tolstojano emerge nello splendido Denaro falso, scritto verosimilmente nel 1904 e pubblicato postumo. Qui l’autore-creatore traccia una doppia serie di eventi concatenati a una falsificazione iniziale di una cedola: la serie delle conseguenze negative e quella degli effetti positivi, riparatori – tanto che l’assenza della seconda trasforma il bellissimo film che Robert Bresson ne ha ricavato, L’argent (1983), in una favola nera. Nel romanzo breve, invece, il gesto sconsiderato dei due ragazzacci costruisce una serie di reazioni a catena che rovinano la vita di molte persone in vari luoghi, ceti sociali, tendenze religiose e politiche, fin quando uno di quelli che erano diventati criminali in questa sequenza si pente e innesta un ciclo opposto di ritrattazioni che toccano tutti i protagonisti delle precedente discesa agli inferi, riappiccica e redime l’infranto contagiando di bontà tutti i malvagi protagonisti finché, dopo dieci anni, il cerchio si chiude sul primo falsificatore, Mitja, che si ravvede, cambia vita e si dedica a servire il popolo come meglio poteva. Al di là dell’esposizione dell’ideologia tolstojana nei suoi tratti salienti (la condanna della Chiesa e dello Stato, dei tribunali e della servitù contadine, il rifiuto della violenza), l’autore costruisce il mondo nel suo doppio aspetto per cicli successivi di eventi. Come è, dominato dal male di cui il denaro è simbolo, come potrebbe essere se, indipendentemente dalle promesse sull’aldilà, si vivesse secondo i valori evangelici – questa indifferenza verso un retromondo suscitò, come è noto, l’interesse e le fitte citazioni di Nietzsche negli appunti precedenti la stesura dell’Anticristo.

Fuga, morte e sciopero operaio
Torniamo ora all’essenziale, mettendo fra parentesi l’ideologia tolstojana sulla storia e sulla vita genuinamente cristiana: sul piano sociologico c’è poco da aggiungere alle notazioni leniniane del 1909-1910 sull’essere quelle idee lo specchio delle legittime e più radicali aspirazioni ma anche della debolezza dell’insurrezione contadina. Tanto in Guerra e pace quanto e addirittura con maggiore intensità nella stringatezza del terminale Denaro falso egli produce il reale, una volta conferendo senso a eventi accaduti, un’altra derivando eventi esemplari dal senso. L’allegoria fa aggio sulla fattualità, il finzionale è l’autentico. Lo scrittore dona un ordine al mondo e la sua stessa vita materiale deve modellarsi su questo disegno demiurgico, fino a lasciare il proprio status, la famiglia, Jasnaja Poljana e morire ad Astapovo. Quasi la morte chiudesse il percorso innestato dal riso di Nataša e dalla sua maturazione nella successiva felicità domestica. Passando, beninteso, per la dissoluzione nirvanica dell’albero nelle Tre morti, per la morte del principe Andrej e ancor più per quella di Iván Il’ič. Il quietismo esistenziale può condurre a sottovalutazioni politiche – non solo il rigetto della componente violenta della rivoluzione del 1905 che pur distruggeva lo schiavismo russo da lui detestato, ma anche l’incomprensione orientalistica della conflittualità attivata dai suoi seguaci orientali, in primo luogo Gandhi – altro che nirvana! Però gli operai che sospesero il lavoro il giorno dei funerali di Tolstoj – lo notava lo stesso Lenin nel mezzo di una delle sue critiche più aspre del tolstoismo ideologico – avevano colto qualcosa di essenziale.

Note

Note
1Viktor Šklovskij, Guerra e pace di Tolstoj, Elliot, 2014, pp. 17, 19, 22, 23.
2Ibid., p. 20.

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