Intersoggettività o transindividualità
Materiali per un'alternativa
Arriva in questi giorni in libreria, per manifestolibri, il saggio di Vittorio Morfino, Intersoggettività o transindividulità, un libro che ripercorre alcuni momenti chiave del pensiero filosofico moderno e contemporaneo leggendoli alla luce dell’alternativa tra le categorie di intersoggettività e transindividualità, tra una filosofia che pone lo spazio di interiorità dell’ego come un prius logico e ontologico e una che pensa in modo radicale la costitutività delle relazioni. Si tratta di un libro importante nel panorama del pensiero politico contemporaneo: una critica puntuale della categoria di intersoggettività letta come espressione di una filosofia dell’individualismo possessivo. Ne anticipiamo qui alcuni passi tratti dall’Introduzione, avvertendo il lettore che rispetto all’originale è stato alleggerito l’apparato di note per rendere più agevole la lettura online. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
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I termini “intersoggettività” e “transindividualità” sembrano ricoprire uno spazio semantico simile: il primo indica, attraverso il prefisso “inter”, la relazione che intercorre tra i soggetti, il secondo attraverso il prefisso “trans” designa questa stessa relazione, ma facendo riferimento all’individuo. Certo, si potrebbe marcare la differenza sottolineando che la preposizione “trans” indica non solo uno spazio “tra”, ma anche un attraversamento e un andare oltre. Resta il fatto che la differenza tra i due termini nel loro significato comune è assai labile e difficilmente percepibile. Questo potrebbe portare il lettore a pensare che l’“o” del titolo sia da pensare nel senso del “vel” latino. In realtà, l’intento di questo libro è precisamente quello di porre, nel modo più netto e radicale possibile, un’alternativa: aut intersoggettività, aut transindividualità. Naturalmente, porre le categorie di intersoggettività e di transindividualità in alternativa significa prima di ogni altra cosa compiere un’operazione di “demarcazione”, di “presa di distanza” rispetto a un diffuso senso comune secondo cui non solo lo spazio delle relazioni sociali sia da pensare in termini di “intersoggettività”, ma che in fondo dire “transindividualità” significhi dire la stessa cosa, in modo più criptico o forse più alla moda (a seconda della geometria variabile di un “gergo” amico o nemico).
Tuttavia la posizione dell’alternativa nei termini tutti teorici di un aut aut non deve trarre in inganno: non solo questa alternativa non è visibile sulla superficie della storia della filosofia ufficiale, ma è ri- coperta da un’altra alternativa, quella tra individualismo (dove si dà per scontato l’equazione individuo=soggetto) e organicismo, olismo o comunitarismo1. La categoria di intersoggettività, che ha avuto certo il suo punto di elaborazione più alto (e con esso anche l’esibizione più onesta dei suoi limiti) nella fenomenologia husserliana, nelle meditazioni parigine in particolare, marca profondamente di sé tutto il “canone” filosofico moderno da Descartes a Leibniz, da Kant all’idealismo tedesco, da Feuerbach all’empirismo logico, giungendo sino alla filosofia contemporanea e colonizzando la più parte della “filosofia spontanea” degli scienziati sociali.
Se a questa categoria si dà alternativa, sulla superfice della storia filosofica, questa è da cercarsi assai più, come detto, in forme di organicismo o olismo. Il primo punto teorico da fissare è dunque questo, punto su cui hanno ampiamente insistito, sulla scorta di Simondon, tanto Étienne Balibar quanto Jason Read: la categoria di transindividuale rifiuta tanto il primato degli individui sulla relazione sociale, posto dal modello dell’intersoggettività, quanto il primato della totalità sociale sugli individui. Per dirla nei termini, divenuti canonici, di Tönnies: comunità e società.
Certo, va detto chiararamente, il termine “transindividuale” non ha una vera e propria storia, se non molto recente. Se ne possono trovare una manciata di occorrenze dal significato incerto in alcuni autori francesi del Novecento (Kojève, Lacan, Althusser) e un uso sistematico nella produzione teorica dell’ultimo Goldmann per pen- sare il soggetto collettivo o, meglio, il rapporto individuo-classe sociale. L’emergenza del termine come categoria teorica forte è l’effetto dell’incontro tra il pensiero di Gilbert Simondon e la critica althusseriana della categoria di intersoggettività: in particolare è la pubblica- zione in Francia nel 1989 dell’Individuazione psichica e collettiva2, testo di cui la categoria di transindividuale è indiscutibilmente la chiave di volta, che ha innescato una serie di effetti tra i quali il più rilevante è l’uso, prima apparentemente estemporaneo poi sempre più sistematico, che ne ha fatto Balibar: incontriamo il termine una prima volta nella sua lettura di Marx del 19933, per ritrovarlo poi al centro della sua interpretazione di Spinoza del 19974 e, a più riprese negli anni seguenti, sino all’ultimo testo pubblicato nel 2018 intitolato Filosofia del transindividuale: Spinoza, Marx, Freud5, testo che costituisce una sorta di bilancio complessivo del percorso. Sulle sue tracce Jason Read e Luca Pinzolo hanno dedicato due monografie molto differenti alla questione: il primo ripercorrendo la preistoria della categoria in Spinoza, Hegel e Marx, per poi analizzarne gli sviluppi, impliciti o espliciti, in alcuni autori contemporanei come Lordon, Virno, Stigler, Lazzarato; il secondo trattando il “transindividuale” come sintomo dell’incapacità della tradizione fenomenologica dell’intersoggettività di pensare la costitutività della relazione sociale (Husserl certo, ma anche Heidegger, Henry e Lévinas). Infine, alla questione, sono state dedicate due ampie raccolte di saggi in Grecia e in Italia6.
Decentramento del soggetto e transindividualità
Si tratta, dunque, di un’alternativa del tutto sbilanciata: da una parte, infatti, con la categoria di intersoggettività, entra in gioco niente di meno che la spina dorsale della filosofia moderna da Descartes a Husserl e oltre, dall’altra, con la categoria di transindividualità, una storia recente e, tutto sommato, marginale. Ma l’alternativa è sbilanciata per un altro motivo, come ha ben spiegato Jason Read: la categoria di transindividuale, negli autori da lui analizzati non è una semplice alternativa all’intersoggettività, ma la categoria capace di spiegare il tessuto materiale a partire da cui emerge e in cui si afferma la categoria di intersoggettività. In altre parole: l’intersoggettività non come luogo costitutivo del legame sociale, ma come suo effetto immaginario o ideologico.
Questa mossa, lo spostamento della categoria di intersoggettività dalla posizione di causa a quella di effetto, è la conseguenza di una ben più celebre mossa teorica, quella che potremmo chiamare del “decentramento del soggetto”, mossa che dobbiamo a «quei due o tre bambini che nessuno aspettava […] nel corso del diciannovesimo secolo», figli naturali, nel senso «in cui la natura offende i costumi, i principi, la morale e la buona educazione»7, figli che hanno dovuto sottostare alla difficile condizione teorica di “essere padri di se stessi”, di «costruire con le proprie mani di artigiano lo spazio teorico in cui situare la propria scoperta, tessere con fili d’occasione presi a prestito un po’ intuitivamente a destra e a manca la grande rete con cui catturare, nelle profondità dell’esperienza cieca, [il proprio oggetto]». Althusser sta parlando di Marx e di Freud. Facendo eco a un celebre passaggio dell’Introduzione alla psicoanalisi, scrive:
Dopo Copernico sappiamo che la terra non è il “centro” dell’universo. Dopo Marx sappiamo che il soggetto umano, l’io economico, politico o filosofico non è il “centro” della storia, e sappiamo anche, contro i filosofi illuministi e contro Hegel, che la storia non ha alcun “centro”, ma possiede una struttura senza necessità di un “centro” se non nel misconoscimento ideologico [méconn- aissance ideologique]. Freud a sua volta ci rivela che il soggetto reale, l’individuo nella sua specifica essenza, non ha l’aspetto di un ego centrato sull’“io”, la “coscienza” o l’“esistenza” – sia essa l’esistenza del per-sé, del corpo-proprio, o del “comportamento” – che il soggetto umano è decentrato, costituito, da una struttura avente essa stessa un “centro” soltanto nel misconoscimento immaginario [méconaissance imaginaire] dell’“io”, cioè nelle formazioni ideologiche in cui si riconosce8.
«Due o tre», dice Althusser. Il terzo è senza dubbio Darwin grazie a cui sappiamo non solo che il “genere umano” non è né l’immoto centro del creato, né «l’erede da sempre atteso, naturale, dell’intero universo», ma che la sua stessa forma, lungi dall’appartenere all’intemporalità di un mondo intellegibile, è l’esito contingente di una necessaria trama di relazioni non orientata da un senso, cosa che vale evidentemente per ogni altra forma-specie. “Transindividualità” significa dunque a un tempo il rifiuto del primato dell’individuo-soggetto come fundamentum inconcussum rispetto a cui la società è un posterius, l’esito di un accordo (si pensi alla tradizione contrattualistica nelle sue differenti varianti sino agli esiti contemporanei), quanto il primato della società pensato come organismo o come sostanza etica di cui gli individui-soggetti non sarebbero che espressioni o articolazioni. “Transindividualità” o “ontologia della relazione”9, a patto di udire in tutta la sua forza lo stridere dei due termini nell’ossimoro contenuto in questo sintagma. Rifiutare tanto il primato dell’individuo, quanto quello della società (e intendo primato nel solco del prius naturae della tradizione aristotelica), significa fare della relazione l’elemento costitutivo tanto dell’uno quanto dell’altra: la società, certo, non esiste se non nell’intreccio delle pratiche degli individui, ma allo stesso tempo gli individui sono pensabili solo come individui sociali, meglio, come già-da-sempre socializzati all’interno di una serie di relazioni che si ritualizzano dando luogo a ciò che chiamiamo “istituzioni” che non sono altro, in fondo, che l’imporsi in modo stabile di “situazioni”.
Se volessimo analizzare le istituzioni, entro cui siamo già-da-sempre presi, dal punto di vista di una generica “sociologia relazionale”, la famiglia, la scuola, la comunità religiosa, lo Stato ci apparirebbero come dei sistemi di relazioni stabili tra “attori sociali” la cui dinamica andrebbe compresa nella dialettica tra il “campo” e l’“habitus”, per usare la terminologia bourdieusiana. Naturalmente si tratta di sistemi di relazioni tra “soggetti” e “soggetti” e tra “soggetti” e “cose”, che possono essere isolati solo in modo artificioso: in realtà, la loro complessità sta proprio nella loro profonda interconnessione. Lingua, usi, costumi, leggi, credenze non sono che sistemi di relazioni, sistemi di pratiche, la cui intelligibilità risiede nella relativa permanenza che essi esibiscono di fronte al mutamento storico, che tuttavia non è qualcosa di esteriore al sistema delle relazioni, ma consiste proprio della sua variazione tanto in rapporto a se stesso quanto in rapporto agli altri sistemi.
Il transindividuale tra Spinoza e Marx
Contrapporre la categoria di transindividuale a quella di intersoggettività significa in primo luogo far emergere delle alternative radicali all’interno del pensiero filosofico moderno. In primo luogo, certo, Spinoza come grande alternativa, selvaggia anomalia, rispetto alla sequenza Descartes-Locke-Leibniz entro cui è fondata la metafisica dello “spazio di interiorità” che genera la problematica dell’intersoggettività. In secondo luogo Marx che nell’Ideologia tedesca colpisce a un tempo la totalizzazione dello spazio di interiorità hegeliana e la sua critica solipsistica, esibendo il dorso dello Spirito e dell’Ego, il complesso tessuto materiale che li costituisce.
In Spinoza l’Io e la coscienza sono immaginari: il concetto di coscienza spinoziano funziona in termini precisamente opposti a quello lockiano che Heidegger attribuisce a Descartes, secondo cui «l’ego del cogitare trova […] la sua essenza nella simultaneità autoassicurantesi dell’esser-rappresentato, nella con-scientia»10. In Spinoza la coscienza, lungi dall’essere il luogo in cui un self è presente a se stesso, è il nome, almeno in prima istanza, di una conoscenza inadeguata. Proprio questa inadeguatezza fa della coscienza il luogo d’origine di un’illusione necessaria, l’illusione finalistica, la cui genesi è mostrata nell’appendice alla prima parte dell’Etica:
[…] gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, mentre tutti de- siderano la ricerca del proprio utile, del che sono consci [sunt conscii]. Da questa condizione segue in primo luogo che gli uomini si ritengono liberi, perché sono consci [sunt conscii] delle proprie volizioni e del proprio desiderio, mentre delle cause, dalle quali sono indotti a desiderare e a volere, neppure si sognano, perché ne sono ignari. In secondo luogo, segue che gli uomini fanno tutto in vista di un fine, e cioè in vista dell’utile che desiderano; per cui avviene che aspirano sempre a conoscere soltanto le cause finali11.
La coscienza immediata può così immaginarsi come luogo della trasparenza e della libertà, centro di un universo preparato da Dio per l’utile umano, solo in quanto è strutturale esclusione della conoscenza delle cause sia della natura sia delle azioni umane: conscius sui et ignarus causarum rerum, ripete più volte Spinoza.
Se dunque si volesse proiettare il modello dell’intersoggettività sulla problematica spinoziana, lo si potrebbe fare a patto di spostarlo dal piano ontologico al piano dell’immaginario. La transindividualità non è semplicemente il nome spinoziano dell’intersoggettività, ma è qualcosa di radicalmente differente: la transindividualità precede e costituisce il tessuto immaginario al cui interno prende senso il concetto di intersoggettività. Il modo è il concetto attraverso cui Spinoza infrange lo spazio di interiorità della mente cartesiana; esso è costitutivamente in alio, può cioè sussistere solo in un tessuto di relazioni che lo attraversa e lo costituisce12. L’individuo stesso in Spinoza, così come a un altro livello la res singulares, è fatto di relazioni, è una ratio, una proporzione. Si immagina come ego e come coscientia e immagina tale anche l’alter: intersoggettività immaginaria, contraccolpo di una trama complessa di corpi, di passioni, di pratiche, di idee, di parole, trama complessa di temporalità non riducibile alla contemporaneità essenziale della comunità husserliana né al giorno spirituale della presenza che costituisce il destino del processo storico hegeliano.
Lo stesso Marx nel paragrafo sul feticismo del Capitale fa del soggetto il risultato e non il presupposto della società intesa come «l’insieme delle attività di produzione, di scambio e di consumo». In altre parole, il feticismo non riguarda solo la costituzione delle merci e del denaro come un’oggettività di fronte a dei soggetti presupposti, pensabili secondo il modello tradizionale della coscienza, bensì la costituzione, nel campo transindividuale delle relazioni sociali, «di soggetti che sono parti dell’oggettività stessa»:
Questi soggetti, non costituenti ma costituiti, sono molto semplicemente i “soggetti economici”, o, più esattamente, sono tutti gli individui che, nella società borghese, sono prima soggetti economici (venditori e compratori, dunque proprietari, non foss’altro che della propria forza-lavoro, cioè proprietari e venditori di se stessi in quanto forza-lavoro […]). Il rovesciamento operato da Marx è dunque completo: la sua costituzione del mondo non è opera di un soggetto, ma è una genesi della soggettività (una forma di soggettività storica determinata) come parte e (contropartita) del mondo sociale dell’oggettività13.
L’intersoggettività è dunque in Marx un effetto immaginario della struttura sociale, del modo di produzione capitalistico: al feticcio delle merci e del denaro risponde il feticcio del soggetto giuridico necessario alla circolazione delle merci. È sufficiente scendere nell’“inferno della produzione” per mostrare le relazioni transindividuali che costituiscono questa intersoggettività immaginaria. Si potrebbe fare un passo in più e pensare la “società civile” stessa, nei termini esatti in cui ne parla Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, come l’effetto feticistico del modo di produzione capitalistico.
In tutto ciò si potrebbe forse pensare che l’uso del termine “transindividuale” nella accezione simondoniana sia un pretesto o una concessione a una moda, per quanto di nicchia: in realtà l’intuizione simondoniana di una duplice individuazione psichica e collettiva, strutturalmente correlate, è il punto chiave a partire da cui risulta possibile tracciare una tradizione del transindividuale in grado di sottrarsi alle stesse ingenuità simondoniane di un programma per un “nuovo umanesimo tecnico”, una visione neoilluministica che non sembra tener in nessun conto la funzione delle macchine all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.
Note
↩1 | Il riferimento qui è alla querelle “tutta” anglosassone che ha visto contrap- porsi alla fine del secolo scorso individualisti e comunitaristi, di cui i due autori paradigmatici sono senza dubbio Rawls e Macintyre. |
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↩2 | Gilbert Simondon, L’individuation psychique et collective à la lumière des notions de Forme, Potentiel et Métastabilité, Edition Aubier, Paris 2007, trad. it. a cura di P. Virno, DeriveApprodi, 2001. |
↩3 | Étienne Balibar, La philosophie de Marx, La Découverte, Paris, 2014, p. 69, trad. it. di A. Catone, Manifestolibri, Roma 1994, p. 36. |
↩4 | Étienne Balibar, Spinoza: from individuality to transindividuality, «Mededelingen vanwege het Spinozahuis», 71, Eburon,1997, trad. it. a cura di L. Di Martino, L. Pinzolo in Id., Spinoza. Il transindividuale, Edizioni Ghibli, 2002, pp. 103-148. |
↩5 | Étienne Balibar, Philosophies of the transindividual: Spinoza, Marx, Freud, in «Au- stralasian Philosophical Review», Volume 2, 2018, Issue 1, trad. it. a cura di A. Barone, Mimesis, Milano-Udine 2020. L’intero numero dell’«Australasian Philosophical Review» è dedicato a una discussione del testo di Balibar con una sua replica. |
↩6 | Étienne Balibar, Vittorio Morfino (a cura di), Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Mimesis, 2014. A questa andrebbe aggiunta un’altra raccolta, che affronta il tema solo in parte, apparsa in Italia a cura di N. Marcucci e L. Pinzolo, Strategie della relazione. Riconoscimento, transindividuale, alterità, Meltemi, 2012. Vanno ricordati anche due articoli di Carlo Capello che affrontano la questione del transindividuale dal punto di vista dell’“antropologia della persona”: Dai Kanak a Marx e ritorno: antropologia della persona e transindividuale, in «DADA», 1, 2013, pp. 99-114; Antropologia della persona. Un’esplorazione, Franco Angeli, 2016, in particolare le pp. 111-118. |
↩7 | Louis Althusser, Freud e Lacan, in Id., Ècrits sur la psycanalyse, cit., p. 26, trad. it. a cura di C. Mancina, in Id., Freud e Lacan, Editori Riuniti, 1982, p. 7. |
↩8 | Ivi, p. 47, trad. it., cit., p. 30. |
↩9 | L’espressione è di Balibar, La philosophie de Marx, cit., p. 71, trad. it., cit., pp. 36-37, in riferimento a Marx, ma se ne può trovare un interessante antecedente – non certo un precursore, perché gli autori e i riferimenti sono tutt’altri – nell’Enzo Paci del periodo relazionista. Cfr. Tempo e relazione, Taylor, Torino 1954 e Dall’Esistenzialismo al relazionismo, D’Anna, Messina-Firenze 1957. |
↩10 | Martin Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in GA, Bd. 5 (Holzwege), p. 110, trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, 1984, p. 96, nota. |
↩11 | Eth I, app., in G, Bd. 2, p. 78, trad. it. di E. Giancotti, Editori Riuniti, 1988, p. 117. |
↩12 | Questa tesi fondamentale spiega come la ripresa apparente di una definizione scolastica del rapporto tra sostanza e modo, secondo cui il modo esiste sempre in un altro essere, la sostanza, abbia in realtà un significato assai più profondo: il fatto che la sostanza consiste dell’appartenenza reciproca dei modi. In questo senso Pierre Macherey può giungere ad affermare che «a parlare in termini propri non esistono che relazioni», Hegel ou Spinoza, Maspero, 1979, p. 218. |
↩13 | Étienne Balibar, La philosophie de Marx, cit., p. 118, trad. it., cit., p. 73. |
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