La primavera estetica di Game of Thrones
Noi siamo l'autore
Stagione 1, Episodio 3. Potrebbe essere indicizzato così il nuovo libro di Tommaso Ariemma, Game of Thrones. Imparare a stare al mondo con una serie TV (Il melangolo, 2020), da oggi in libreria. Idealmente, infatti, si tratta dell’ultimo atto – salvo reboot, prequel, sequel eccetera – di una trilogia iniziata nel 2017 col fortunatissimo La filosofia spiegata con le serie tv, e proseguita lo scorso anno con Filosofia degli anni ’80. A mettere in serie i tre testi non è tanto la continuità tematica, come se fossero i tre tomi di un intero. Gli episodi sono autoconclusivi e di argomento eterogeneo, ma li attraversa il medesimo intento di fare filosofia, di esporsi all’attualità senza rifugiarsi nell’archeologia dei concetti. Abolita ogni distanza rispetto alle cose del quotidiano, abbandonata ogni torre d’avorio, l’autore si immerge nella densità del nostro tempo, facendone esperienza diretta piuttosto che ricavarne un raffinato oggetto di studio.
Formalmente questo coinvolgimento – opposto alla neutralità del soggetto reclamata da una certa postura che si presume scientifica – si traduce nel racconto in prima persona. Dal punto di vista del contenuto, invece, la materia d’analisi privilegiata è quella del cinema, della letteratura, della nuova serialità. Qui, però, si vorrebbe enfatizzare il presupposto ontologico di un simile approccio: questo ambito mediologico, infatti, è solo uno degli infiniti luoghi in cui il senso si sedimenta, perché siamo sempre davanti a un aleph, l’universo si dà tutto intero in ogni suo punto. Non esistono recinti, altezze o profondità nei quali il logos si ritrae, lasciando che il deserto cresca fuori da tali nicchie; al contrario, il senso – valore, potenza, essere, sostanza – è disseminato secondo una logica frattale: spartendosi non diminuisce, ma sempre si dà integralmente. Ovunque tutto è mondo, siamo sempre in un pieno, mai sull’abisso.
È insistendo su questa premessa che si commenterà il libretto dedicato a Game of Thrones. Con una clausola coerente: no spoiler. Nessuna anticipazione dei contenuti, né elucubrazioni su temi già distesi in una prosa leggera e limpida. Ciò che segue è solo un piccolo trailer, lascerà vedere qualcosa dell’episodio, rielaborandolo autonomamente. La serie ideata da Benioff e Weiss, ispirata alla saga letteraria di George Martin e prodotta da HBO dal 2011 al 2019, non ha funzionato solo come una gigantesca macchina di intrattenimento. Si è trattato di un fenomeno socio-culturale e politico enorme, di portata niente meno che ontologica. Il trono di spade è stato una sorta di primavera estetica, un lungo processo di emancipazione.
Poco più di cento anni fa, esponendo la sua estetica fondata sull’autonomia dell’arte, a sua volta intesa come intuizione pura, Benedetto Croce richiamava un cartello che spesso si trovava nei teatri d’opera e che ammoniva il pubblico intimando di “non unirsi al coro”. Difendere la purezza dell’opera d’arte richiede che i suoi spettatori se ne tengano a distanza; paradossalmente, l’arte è tanto più tale quanto meno se ne ha esperienza. Lo spettatore modello è quello che entra in relazione con l’espressione materiale dell’idea cercando di schivarla, di non farsi coinvolgere troppo: se ti vien voglia di cantare nessun dorma, controllati, non farti trascinare, cerca, piuttosto, di individuare ciò che quest’aria rappresenta nella storia del Concetto. Sembrerebbe una teoria antiquata, non più al passo coi tempi, con quello che nel frattempo è successo ai nostri corpi e alle nostre sensibilità. E invece il dogma dell’arte pura è duro a morire. Come insegnano, per esempio, le recenti polemiche sugli Uffizi alle prese con Chiara Ferragni, si pretende un pubblico di mistici, che entri in un museo come in una chiesa, un luogo deputato a difendersi dal tempo, per poi anestetizzare l’esperienza estetica mantenendo l’opera in uno spazio sacro.
Ebbene, nei quasi dieci anni in cui è stata distribuita, Game of Thrones ha trasformato un pubblico vastissimo da mero target – o, usando un’espressione assai in voga quando essa era in gestazione, da semplice “utilizzatore finale” – in componente attiva e partecipe. La serie è stata una sorta di opera collettiva, alla cui sceneggiatura hanno contribuito proprio coloro che hanno passato tante notti in bianco per aspettare la messa in onda della nuova puntata. Lungi dal trattenersi davanti allo schermo, milioni di persone hanno fatto petizioni perché si girassero da capo intere stagioni con plot alternativi, e attraverso un fitto e continuo esercizio di critica, hanno orientato le scelte degli autori. Tutt’altro che fanatismo: il comportamento degli utenti è stato a tutti gli effetti quello di una potente lobby, un gruppo di pressione che, esponendosi a un soggetto agente (l’Autore), ha creato uno proprio spazio di azione. È qualcosa di più dell’interattività cui siamo ormai avvezzi. Si tratta di un processo di emancipazione nel corso del quale le soggettività coinvolte hanno dimostrato di essere lucide, consapevoli, di aver elaborato un gusto, di saper organizzare rivendicazioni. Svincolatesi da un cliché – desueto e gratuito – che le immagina passive a ingurgitare qualunque cosa venga loro somministrata, esse hanno dimostrato che esporsi a un’azione – scenica, musicale, visiva – non vuol dire stare inerti, che l’esperienza estetica è prima di tutto rapporto: in un rapporto si entra, non si sta a distanza, e si è necessariamente attivi e protagonisti.
Come mai prima, con Il trono di spade si è assistito a questo risalire in primo piano di coloro che tutt’ora vengono spesso pensati come pura materia passiva. Un prodotto televisivo fantasy, che attinge ampiamente all’immaginario epico, ha decostruito il mito dello spettatore stupido. Scrive perfettamente Ariemma: «il mezzo televisivo è stato giustamente preso di mira dagli intellettuali perché i suoi messaggi erano spesso inconsistenti, furbi, pensati per uno spettatore abbrutito, che in realtà non è mai esistito. I messaggi veicolati dalla televisione non sono stati, quindi, all’altezza del suo potere» (p. 13).
Non si tratta, però, di una semplice constatazione di ordine storico-sociologico: Game of Thrones è stato prima di tutto il rivelatore di una nuova ontologia che considera il mondo come un pieno, attraversato da infinite eterogeneità, ma privo di asimmetrie e scompensi. Tutto è sullo stesso piano, e ciò impedisce l’ipostasi di qualsiasi soggettività svettante e sovrana. Il cosmo descritto dalla serie è dominato da una contingenza radicale, da una casualità che mescola insieme le cose più diverse, minando alla radice qualsiasi eccezionalismo umano. Si manifesta l’assenza di una garanzia metafisica per ogni ordine dato, e ciò rende sempre possibile e imminente la rivolta: ciascuno può prendere il posto di un altro in qualsiasi momento. Con Game of Thrones si è sì sperimentato un nuovo modo di concepire l’intrattenimento: «la ricerca della qualità delle nuove serie tv vuole essere, in primo luogo, una rivolta del messaggio: una rivolta del modo con cui le storie venivano create, prodotte, interpretate e consumate» (p. 14). Ma da questo dispositivo narrativo emergeva l’idea, politicamente potente, della trasformabilità di tutte le cose. A questo proposito, un capitolo del libro di Ariemma è dedicato alla costante presenza, sebbene sotto traccia, di Machiavelli nel tessuto narrativo della serie. Le pagine dedicate al teorico dell’aleatorietà di ogni assetto ontologico e sociale si concludono così: «il potere è il risultato di una serie incalcolabile e imprevedibile di forze. Il che rende tutto incerto» (p. 57).
In questo senso, non è affatto un caso che la serie abbia un contenuto mitico, che però allo stesso tempo è interrotto, alterato. La saga «ripropone tutti i caratteri della narrazione della tradizione orale, quella che passava di bocca in bocca e che oggi passa da visione a visione» (p. 22). Per un verso è ribadita la persistenza dell’arcaico nella nostra modernità iper-accelerata. Ma, d’altra parte, è in gioco un concetto di scrittura che carica quest’ultima di un enorme potenza ontologico-politica. Laddove un gradissimo intellettuale del Novecento, Jacques Derrida, ha concepito la scrittura come meccanismo di iterazione e mise en abyme, qui, al contrario, è innescato il nomadismo assolutamente materiale della traccia (in questo caso audiovisiva). Il mito, attraverso l’oralità della sua trasmissione, raccoglieva gli uomini in una presenza immediata e reciproca, assicurando a ciascuno un proprio posto: uno spazio, un tempo e una funzione nella comunità. Al contrario, sganciandosi dai corpi che la innescano, la scrittura è libera di spostarsi, innestandosi su qualsiasi corpo, compresi quelli che si pretendevano esclusi dalla scena del racconto orale. La traccia audiovisiva viaggia attraverso soggettività le più disparate, si contamina e lascia che le soggettività stesse si contamino tra loro: non dimentichiamo che Game of Thrones è una delle serie più piratate di sempre, e che intorno a essa si sono generati migliaia di forum, community e gruppi di condivisione. In breve, questa serie è stata il laboratorio empirico di tutto ciò che Platone odiava della scrittura: che la “parola muta” potesse viaggiare democraticamente, senza il controllo del locutore e quindi senza la selezione degli ascoltatori. Game of Thrones ha riattivato il mito, ma lo ha innestato in un’ontologia aleatoria, nella quale nessuno ha vincoli d’essenza e ciascuno può spostarsi e diventare altro.
Non è una prospettiva irenica, non è un gioco. Questa visione elementare – il libro di Ariemma ricorda la centralità di una filosofia degli elementi, sia nella saga di Martin che nella serie a essa ispirata – richiede che si sia all’altezza di questa piattezza, dalla quale non si innalza alcun principio ordinatore. È necessario saper stare nel caos, sapere che ciò che al nostro sguardo appare come tale è, in realtà, una forma – anche minima – di organizzazione; bisogna avere la forza di riconoscere nell’entropia non qualcosa da evitare, recintandosi nella stabilità di un ordine, piuttosto una mancanza di informazione da colmare. Non abbiamo bisogno di sovrani che ci proteggano dal caos, perché questo non è un abisso, ma creazione, germinazione in corso. Come è ricordato nel libro, è quanto afferma nettamente uno dei protagonisti della serie, Baelish: «il caos non è un pozzo, il caos è una scala» (p. 49). Allora, cosa rispondiamo a chi ci vuole tranquilli e pacifici al nostro posto: non oggi!
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