Viaggio ai margini dell’impero
Un film di Sergio Racanati
Lila è un viaggio ai margini dell’impero. Il film di Sergio Racanati ci restituisce lo sguardo dell’autore su un mondo attraversato da contraddizioni che si rivelano nelle relazioni e nei luoghi in cui si radicano le comunità dell’Himalaya. Il viaggio si svolge attraverso la Valle di Parvati, nel villaggio di Kalga, in India, a 4.500 metri di altitudine sull’Himalaya, ed è durato due mesi.
I luoghi attraversati dal regista sembrano annodare progetti individuali e collettivi in un’unica dimensione apparentemente piana, levigata, senza frizioni. È lo sguardo dell’autore ad accompagnarci oltre il velo, facendoci imbattere in un processo di sottile ma costante deformazione di usi, costumi, tradizioni. È una discesa graduale, quella in cui ci conduce la macchina da presa, lenta e docile come è stato il movimento su cui ha poggiato la dialettica ancora in corso. Quella che ci si presenta dinanzi agli occhi è tutt’altro che un’azione costrittiva, unilaterale, di deliberata violenza nei confronti delle persone che abitano quei luoghi. Piuttosto, si assiste a un processo complesso di reciproci scambi e influenze, al fondo delle pratiche comunitarie.
Si vede, in superficie, che le identità collettive subiscono torsioni e avvitamenti, in un quadro immanente, in cui i fattori di sviluppo sembrano intersecarsi su un piano perfettamente orizzontale. Le lattine di coca-cola si mescolano ai rifiuti della vita quotidiana, la plastica si sporca di acqua, polvere e sterpaglia, i tralicci della corrente segnano le pendici dei monti, incidendo la base su cui si staglia il cielo dell’Himalaya. L’occhio dell’autore entra curioso in questi sentieri, registrando la successione degli elementi, che sembrano giustapporsi uno accanto all’altro. È però una sequenza che, presto, tende a scomporsi da sé, lungo linee segnate da fratture e smottamenti, in cui ci imbattiamo durante il viaggio. Quel piano orizzontale, in cui gli elementi sembravano accatastarsi indifferenti lungo valli e pendii, comincia a deformarsi in maniera disordinata, descrivendo un processo di frastagliata ma inesorabile colonizzazione in cui tutti sono implicati. Quello di Racanati non è uno sguardo che giudica, immobile dalla sua postazione dietro la telecamera. Piuttosto, egli diviene parte del movimento in cui le comunità si evolvono, reagendo ai colpi di un capitale sempre più invadente e pervasivo.
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Certo, non si tratta di uno sguardo neutro: la telecamera ci conduce nel cuore della contraddizione, lì dove più alta è la tensione, a partire dalla quale i luoghi della vita in comune vengono stravolti. L’ambiente, in questo senso, è un fattore decisivo: non un elemento neutro ma ciò che costituisce lo spettro delle possibilità in cui si dispiega la progettualità soggettiva, nella sua costitutiva esposizione all’alterità. L’ambiente, allora, è il luogo preferito dal potere, che solo indirettamente incide su comportamenti, identità, forme di vita. E la tentazione di cadere nella difesa nostalgica dell’identità perduta è sempre dietro l’angolo: a volte Racanati sembra rifugiare l’obiettivo della telecamera negli angoli rimasti incontaminati, lì dove le comunità sembrano sottrarsi al mostro estraneo per mantenere i propri valori. Ma è una difesa votata alla tragedia: la natura dell’uomo è fuori di sé, nelle storie che vive, nei luoghi che attraversa, nelle persone a cui si relaziona.
Allora, è bene accettarla per intero la sfida. Dentro la tragedia di un mondo dilaniato, colonizzato, violato nella propria natura più profonda, giace la possibilità del riscatto. Perché dove la natura è ammazzata, e quel profondo vien fuori finalmente nudo, disarmato, la presa degli spettri che in quelle segrete si nascondevano si fa meno serrata. È il tempo di riportare tutto in superficie, di profanare gli idoli, di aprire l’orizzonte agli infiniti orizzonti che fanno il cielo dell’Himalaya. Quello di Racanati, allora, è un viaggio al confine, fra un mondo in rovina e uno tutto in procinto di farsi, dove la partita è tutta da giocare. È uno strappo violento nell’uniformità del mondo, come il suono stridente che ci ossessiona durante tutto il film: è quell’ansia indomita che anela al nuovo, dentro la tragedia delle identità perdute, eppure così pressanti.
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