Noi siamo il transindividuale

Una serie tv su Netflix

Claire Fontaine, They hate us for our freedom 2008. Courtesy of the artist (5) (1000x750)
Claire Fontaine, They hate us for our freedom, 2008.

Non è fatto inedito che tra arte e politica, tra cinema e movimenti, ci sia uno stretto legame. Anche laddove ci si nasconde dietro il neutrale, l’impolitico, l’oggettivo – anzi, potremmo dire che tale nesso si rafforzi proprio quando cerca di essere celato, nascosto o non viene percepito. È questo il caso di numerose serie televisive prodotte da Netflix e ospitate sulla sua piattaforma. No, non stiamo parlando de La casa di carta. Ma la serie spagnola può introdurci alla questione. Infatti, già dalla prima stagione, è stata al centro di dibattiti politico-culturali, soprattutto quando i movimenti politici hanno iniziato ad usarne l’estetica – le famose tute rosse e la maschera di Dalì – riempiendola di rivendicazioni. Insomma, in quel caso, il terreno dell’appropriazione e della riappropriazione univa il colpo alla Zecca di Stato spagnola e i movimenti dal basso con le loro rivendicazioni economiche, ma non solo.

Ora, Wir sind die Welle – Noi siamo l’onda – è una di queste serie. Disponibile dal 1 novembre, annunciata a Roma durante la See What’s Next, è ambientata nella Germania occidentale. In una piccola cittadina, dove alle ultime elezioni l’NfD (con esplicito rimando all’AfD) ha raggiunto il 14% e speculazione edilizia e retorica nazionalista sono saldate, avviene l’imprevedibile. Tutto inizia con l’arrivo al liceo di Tristan, un ragazzo che sconterà lì gli ultimi giorni di detenzione con permessi di uscita diurna. Il giovane studente, arrestato ad Amburgo, dove militava con altri compagni nel celebre e temuto Schwarzer Block, crea un ponte tra quattro suoi compagni di classe, soggettività incomunicanti fra di loro – un immigrato di seconda generazione, un figlio di contadini sul lastrico, un’orfana che vive con il nonno dopo la morte della madre e la fuga del padre, una figlia di una famiglia borghese e socialdemocratica. Piccolo gruppo, ma in cinque si può già essere moltitudine…

Il gruppo inizia sin da subito a configurarsi attorno alla reciproca narrazione dei propri mondi: Rahim racconta delle violenze e dei pedinamenti da parte della giovanile dell’NfD; Hagen, dell’inquinamento delle falde acquifere prodotto da uno stabilimento industriale che ha mandato sul lastrico diverse famiglie, tra cui la sua; Zazie, della sua avversione all’ethos borghese e del suo inquinante comfort; Lea, dell’insopportabilità e insostenibilità dell’indifferenza della socialdemocrazia. L’incomunicabile, la separatezza, l’arcipelago delle soggettività scisse fra loro, si riempie nel mare della parresia, della prise de la parole. E Tristan è da subito chiaro – è stanco di lotte che assumono nemici distanti, per poi non fare nulla; la rivoluzione è già dentro le pratiche quotidiane di trasformazione del proprio esistente. Si comincia da subito. Antifascismo ed ecologia, i due grandi temi dei movimenti contemporanei, si intrecciano ed articolano in pratiche dirette, artistiche e irriverenti. L’obiettivo va colpito, ma guai a non colpire sorridendo. Lea ci accompagna nel breve rapimento del segretario dell’NfD candidato alle elezioni che, dopo essere stato sedato, viene rinchiuso in una teca vestito da Hitler, dove una cima gli tiene alzato in su il braccio destro. Gogna mediatica per il nazista: i giovani sanno da quale parte stare, e internet rimbalza la notizia, a scuola se ne parla e si ride nei corridoi, nei bagni, nel cortile, nelle aule. Ma ecco, dicevamo, Lea ci accompagna nel momento del rapimento e ci restituisce il senso profondo del legame tra parola e gesto, processo ed evento:

«Fin dove ti spingeresti? Che cosa rischieresti? Per un ideale, per i tuoi amici, per l’amore, per il nostro futuro? Non è possibile cambiare il mondo seguendo le regole; ma il mondo deve cambiare, tutto deve cambiare. Mettiamo tutto in discussione, perché era ora che qualcuno lo facesse. E se la cosa vi spaventa, tanto meglio. Avete avuto abbastanza tempo, e l’avete sprecato. Ora non possiamo più tornare indietro. Abbiamo deciso: ora, è il momento di agire. E noi non chiederemo il permesso»

Determinazione e irriverenza, attacco in profondità e leggerezza del gesto. Wir sind die Welle ci mostra cosa può la nostra generazione, la potenza dell’essere giovani. Nell’indifferenza generale, si apre una crepa, una faglia che dapprima attraversa Lea, la studentessa borghese, nella lettura di Logo? Nein, danke! (esplicito riferimento al noto libro di Naomi Klein, nella serie Nola Kleiner). «Ruf die Wahrheit von allen Dächern!» (Urla la verità da tutti i tetti!), le annota dolcemente Tristan nella dedica sulla copia «requisita» alla biblioteca scolastica. E di fatti, l’Onda, il nome del movimento sviluppato dal gruppo, urlerà la verità da tutti i tetti cui quotidianamente la nostra generazione si affaccia, i social. Così, le virali azioni del gruppo estenderanno quella crepa fino a farla divenire una faglia interna alla città: rottura generazionale, tra adulti indifferenti che agitano il vessillo della legalità per nascondervisi e giovani determinati a trasformare o perlomeno a veder trasformato il proprio presente; rottura politica, che mostra l’isolamento dei giovani fascisti e della loro ghettizzazione quando diviene chiaro il vero nemico del bon vivre.

Insomma, è proprio vero quel che Negri scriveva ad Agamben ormai trent’anni fa:

La differenza fra reazionari e rivoluzionari consiste in questo: che i primi negano, i secondi affermano la massiccia ontologica vuotezza del mondo. I primi dunque sono votati alla retorica, i secondi all’ontologia. I primi tacciono, i secondi soffrono del vuoto. I primi riducono la scena del mondo a un orpello estetico, i secondi l’apprendono praticamente. Solo i rivoluzionari possono dunque praticare la critica del mondo perché hanno un rapporto vero con l’essere. Perché riconoscono che questo mondo inumano pure l’abbiamo fatto noi. Che la sua mancanza di senso è nostra mancanza di senso e la sua vuotezza nostro vuoto1

È questa differenza, questo scarto che si danno nell’Onda – e qui viene da pensare all’Onda italiana, seppur da una prospettiva «post» per noi nati a cavallo tra Seattle e i fatti dell’11 settembre, coetanei di Impero, figli di Genova. Ciò che è in gioco, nell’Onda, e nell’attuale, nel qui ed ora, è una produzione di soggettività autonome, principii di individuazione altri rispetto a quelli del mercato. La posta in palio è altissima: le nostre vite, le nostre esistenze, finanche quella del pianeta. All’indifferenza dei più, all’arroganza dei grandi (in tutti i sensi) vi è da opporre tutta una vita, pulsante viva in movimento. Molecolarità contro molarità, molteplicità in divenire e divenire-unici – quel che ancora qualcuno2 si ostina a non comprendere, noi già lo sappiamo e lo pratichiamo. Lo scontro non è al livello dell’amico e del nemico, ma tra forme di vita irriducibilmente conflittuali fra loro, è vita che resiste alla morte, è pienezza dell’essere che investe il vuoto. Via il cielo3, tuonava Lenin: il sentimento propriamente etico (e dunque rivoluzionario) è la gioia, vita che si afferma, non morte che nega. Non è un caso che i compagni di XM24 abbiano convocato la loro conferenza stampa indossando proprio le maschere de L’Onda.

Vi è, però, un punto di svolta, nella serie, che assume una prospettiva mainstream. Lea propone, vista la grande viralità social e l’appoggio studentesco che accompagnano ciascuna azione, di estendere l’ingresso a tutti nel gruppo, così da trasformarlo in movimento. Qui avviene una frattura, poiché immediatamente Tristan e Zazie non appoggiano questa posizione, e quando Lea fa di testa sua e convoca un’assemblea pubblica si varca un punto, che rischiava di essere di non ritorno. L’assemblea molto partecipata, infatti, si dirige quasi da sé e totalmente disorganizzata verso il macello, assaltandolo, distruggendo alcuni attrezzi e ricoprendolo di scritte – la disorganizzazione porta all’arresto di numerosi partecipanti all’azione, al crollo di credibilità de L’Onda, che da qui in poi sembra quasi esistere per sé, come un significante vuotato dal suo originale significato. Questo risvolto mainstream, che fa della socializzazione e dell’attraversabilità di un movimento la chiave per la sua dissoluzione, replica – ad un livello poco esteso – quella sempiterna retorica socialdem dei manifestanti buoni e dei manifestanti cattivi su una scala differente, e cioè quella tra coscienti e incoscienti. Un certo richiamo, ovviamente involontario, alla grande macchina anti-movimentista del PCI si avverte, almeno per noi spettatori italiani.

Questa parte della serie, probabilmente dovuta alla classica (e un po’ stucchevole) esigenza della lite fra amanti (Lea e Tristan) che si deve ripercuotere sul resto dei soggetti, si chiude nell’ultima azione della prima stagione. Infatti, dopo un’irriverente azione dimostrativa all’insegna del We are the 99%, con Lea fuorigioco e allontanatosi Rahim, gli altri tre componenti del gruppo progettano un attentato ad una fabbrica di armi, responsabile della morte di civili, tra cui la madre di Tristan, impegnata in missioni umanitarie nel cuore dell’Africa. Sul punto di compierlo, Lea riesce a «fermarli»: applicando alla lettera il Ruf die Wahrheit von allen Dächern!, occupa lo stabilimento assieme ad un centinaio di altri studenti, dissuadendo i tre dall’attentato, ma facendo rimbalzare così la portata mediatica dell’azione. Questo breve spoiler (mi scuso con chi non l’ha ancora visto, ma era doveroso per introdurre quanto segue) ci dice una cosa importante: una volta innescato un processo autonomo di produzione di soggettività, queste ultime non svaniscono nel momento in cui il processo si interrompe. Come nel processo di produzione economico il valore eccede sempre la misura, così nel processo di produzione di soggettività la potenza eccede sempre lo stesso processo. Il transindividuale, il famigerato «movimento» – che cos’è un movimento se non un transindividuale? – continua a svilupparsi indipendentemente dalle soggettività; gli individui, momentaneamente sospesi nella solitudine del beau vivre liberal-borghese, continuano a individuarsi: il processo ricomincia quando meno lo si aspetta, ma va preparato. Contro il mainstream appiccicato addosso a Tristan, Lea ci dimostra che accessibilità e attraversabilità di un movimento, e relativa socializzazione del potere, sono più potenti di una «perfetta» e geometrica potenza… e non è da sottovalutare che sia proprio una ragazza a comprendere quel che Landauer, cent’anni fa, cercò di spiegarci:

È necessario qualcosa di completamente diverso, o qualcosa di più della rivoluzione perché sulle costruzioni degli uomini sopraggiunga qualcosa che permanga e che permanendo proceda sempre oltre4.

 

 

Note

Note
1T. Negri, Arte e multitudo, a cura di Nicolas Martino, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 27-28.
2Cacciari, nel suo Così li abbiamo traditi, Espresso, 20 ottobre 2019, continua con la retorica della distinzione tra politico e sociale, dell’autonomia del primo in un quadro sempiternamente schmittiano: «Vedete un po’ il caso: come sembra facile da noi la mobilitazione via web, media, ecc., quando si tratta di inquinamento e clima, e quanto difficile, se non impossibile, quando il problema è specificamente politico, di lotta politica, quando cioè non si tratta di valori universali, ma di capire chi è l’amico e chi il nemico e organizzarsi contro quest’ultimo».
3La citazione, parafrasata, è «Eliminato il cielo – connessione secondo leggi di tutto il mondo (di tutto il processo del mondo)», in V. I. Lenin, Quaderni filosofici con una introduzione su Il marxismo e Hegel di Lucio Colletti, Feltrinelli, 1958, p. 91.
4G. Landauer, La rivoluzione, citato in M. Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione, DeriveApprodi, 2017, p. 164.

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