Perché Renato Nicolini fa ancora paura?

Sul «Teatrino scientifico» di via Sabotino

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Il Teatrino Scientifico di via Sabotino (1979).

Ricordate l’estate romana? È il 1979. Notti di musica, teatro e fotografia. Anche di architettura che come per incanto a un certo punto si materializza in un teatro. Un teatrino di legno e tubolari di ferro tirato su in uno spazio saltato fuori nel quartiere Prati dopo la demolizione di un complesso fatiscente di case popolari. Nel finire degli anni Settanta del Novecento la differenza tra i quartieri a Roma esisteva. Prati nasce nella prima parte del secolo piantando grandi complessi squadrati su un terreno acquitrinoso. Diventa sede di servizi e importanti uffici direzionali. Le sue palazzine lungo il Tevere sono il risultato di una sana competizione ingaggiata dai più importanti architetti del tempo.

Nulla di questo a est. Qui le case prendono la forma dell’intensivo. Un rettangolo inzeppato da appartamenti raggiungibili da scale che catturano (poca) luce dalla chiostrina, quel minuscolo quadrato dove affacciare bagni e cucine, che lega tra loro più stecche abitative fino a saturare in ogni metro quadro l’area a disposizione. Quando nascono i quartieri dell’est non hanno servizi. All’infuori della chiesa che nella «parrocchia» individua la forma di controllo di quella parte di territorio «costruito» (sic) in modo assolutamente selvaggio.

Eppure quel teatrino, quel «teatrino scientifico» realizzato non con i mattoni, ma con quelli che si chiamano i materiali «provvisionali» dell’edilizia, quelli che servono ad incartare gli edifici mentre si costruiscono e una volta finito i ponteggi ritornano in lontani magazzini e legni e teloni vengono direttamente trasportati in discarica, quel settembre è il più solido degli edifici romani. Renato Nicolini, riesce insieme ai progettisti dell’opera (Purini-Thermes), a rendere visibile il meraviglioso urbano. Qualcosa di più di una pur bella architettura. Si attua quando lo spazio della città improvvisamente diventa capace di «produrre movimento, di formulare nuove ipotesi, di rinnovare la cultura e la politica stessa». (Nicolini 1982).

Quel teatrino, quello spazio dove si costruiscono sguardi reciproci tra attori e spettatori diviene un accumulatore di emozioni e parole. Prendendo forma in quel cubo riescono a spandersi in una città che ha bisogno di trovarle. Si va a teatro e nella stessa sera spesso capita che gli artisti non si sottraggano a replicare più volte la propria performance. I posti sono limitati. Il meraviglioso urbano permette a ognuno, spettatore o attore, la possibilità di stupirsi sempre, di fare di quell’incontro reciproco un elemento di crescita. Perché fermarsi? Quando si tenta di rendere stabile quella struttura il progetto non va avanti. Fermato da chi ha deciso che nell’abitare non devono trovare spazio le emozioni. Emozionarsi porta con sé farsi delle domande. A iniziare da quella che allora vedeva, e vede ancora per molti, non riconosciuto il diritto alla casa. Renato Nicolini viene etichettato come cultore dell’effimero da chi, allora pur giunta rossa al governo della città, decide di seguire per la sua trasformazione la logica di sempre: quella dell’interesse privato.

Oggi un pezzo (?) di quel teatrino, è stato ricostruito all’interno del recinto del MAXXI il museo di via Reni, come icona di un’altra estate. Quella che con la scusa di celebrare i quarant’anni dell’estate del 1977, non contestualizzando quell’intervento, finisce con immiserirlo. Contrapponendogli, nella programmazione all’interno del Museo, la cosiddetta concretezza delle macchine di Zaha Hadid, ci dice che le emozioni non si costruiscono nelle relazioni sociali, partecipando collettivamente all’abitare di tutti, ma solo sgranando gli occhi vedendo scorrere il film di quei progetti costruiti dalla finanza mondiale indifferentemente dal posto di dove vengono posati e contro l’abitare dei più. Renato Nicolini continua a fare paura e questo è un buon segno.

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