Quando gli esclusi prendono la parola

Letteratura e classe operaia, a partire da Prunetti

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Claire Fontaine, MECW Karl Marx-Frederick Engels Collected Works brickbats, 2016.

Ma oggi, a noi. Dove sono i compagni e gli amici che debbono ricevere quello che più abbiamo amato? Al di là degli affetti, che possono solo duplicare noi stessi, abbiamo accettato o subito la perdita di tutta la solidarietà nella superstizione che tutto ci sarebbe stato restituito ad una svolta della storia. La parola «amico» ha mutato regione – Adorno lo ha spiegato da tanti anni – e significa poco più o poco meno che contiguità di corte e di sorte; di ufficio, cattedra, centro studi, insomma affari.
FF, Le ultime parole, in QF, p. 14 (1965) 

1. A leggere 108 metri di Prunetti (Laterza, 2018) si salta sulla sedia e si trattiene a stento il respiro. Discutere duramente con il proprio genitore della prosecuzione del percorso di studi come se quella prosecuzione non fosse già automatica e segnata, almeno per quello che riguarda i gradini da raggiungere; interrogare la propria identità mentre si frequentano banchi di scuola dove siedono, in maggioranza, esseri che mostrano una predisposizione naturale a interagire con saperi e discipline che ti sono ignote; affrontare la vita della precarietà dopo aver raggiunto titoli di studio (la laurea) che la generazione precedente della tua famiglia non aveva nemmeno immaginato, ma solo sperato; far riemergere il tuo DNA di classe nella capacità di mescolare ciò che è vietato fare fuori dalla tua classe: arti liberali e arti meccaniche, ciò che l’Occidente ha diviso per deliberata scelta nei secoli dei secoli (o almeno da quando esiste l’Università, più o meno da ottocento anni); sbarcare in terre ignote, masticando lingue mescolate e apprese per strada e nei bar, senza quell’eleganza che ti impongono gli istituti di insegnamento stranieri a lauto pagamento (il British Council, l’Alliance française…), con quell’accento e quella mescidanza che ti rimarranno appiccicati per sempre, e che coloro che sono capaci di scimmiottare con successo l’accento straniero ti rimprovereranno quotidianamente: questo tesoro di esperienze mi appartengono in profondità, e però le ho ricacciate nel non dicibile.

Il mondo in cui sono approdato definitivamente da quasi tre anni (quello dell’Università) si basa proprio su questo divieto. Le mie esperienze lavorative nel precariato più o meno cognitivo tra Francia e Italia (venditore di gadget per un’associazione animalista poi chiusa dalla finanza; telefonista di una nota ditta di spaccio di surgelati per telefono; pony express di un’agenzia di rilascio visti passaporti; cameriere in un’enoteca chic di un quartiere romano in via di gentrificazione; guardiano di un museo di arte contemporaneo nonché vigilantes in feste aziendali nella Ville Lumiére) non possono essere dette. Non ne trovo lo spazio nelle cene e nei convegni, dove il tema maggioritario è la presunta, e indiscutibile, inettitudine degli studenti, accanto all’aggressività dell’inglese nei confronti delle discipline umanistiche. Il libro di Prunetti squarcia il velo, permette alle biografie come la mia (sono tante) di avere uno spazio, di conquistarsi una cittadinanza cognitiva. Il lato cattivo, gli esclusi della narrazione dei cervelli in fuga e della grande occasione imposta alla nostra generazione dalla Terza Via dei laburisti di Blair, ecco, il lato cattivo diventa epico.

Vi sembra poco? No, non è poco. Di fronte a una società che questo particolare tipo di escluso – il figlio di operaio – vive nella parte più scivolosa («la società come collasso, come frana, come cancrena»), Prunetti decide di rispondere di non arrendersi al labirinto, ma di sfidarlo. Questo stesso labirinto mi appartiene, è nella mia pelle. Non è facile parlarne. Proprio per questo, di fronte a 108 metri, vorrei essere spietato. Perché questa epica parla di me. E perché da molto tempo questo me non si trasformava in un noi. Vorrei capire dove va, dove può andare, cosa può questo noi.

2. La bestia nera di 108 metri è Maggie Thatcher, che compare in forma di incubo e di mostro concreto a più riprese. A leggerla a Parigi, mentre il treno è in ritardo a causa di un maestoso e lunghissimo (un minuto di più…) sciopero degli cheminots, l’allegoria di Prunetti si rivela nel suo potere di costruire una costellazione storica. Riunisce eventi lontani e dà senso a quelli passati. Il nucleo di questa costellazione consiste in uno scontro mortale, che lascia sul tappetto le ferite di una sconfitta storica che ha posto le basi per il nostro presente, sul piano discorsivo, economico, sindacale. I minatori che perdono, la Thatcher che vince, sono un momento in cui si riattivano tutti i momenti di un conflitto che ha lasciato sul tappeto i nostri. Non è un caso che la Iron Lady non compaia mai come figura storicamente incarnata nel romanzo. Essa significa anche altro (la marcia dei 40.000 in Italia, per esempio). È un revenant, certo, ma è anche una memoria che appartiene esclusivamente alla classe operaia. Alla storia della classe operaia del Novecento. Non fa parte dei libri. La raccontano, la descrivono, la storpiano in mostro e figura i proletari.

Dovevo scrivere la mia storia, la storia della working class in cui ero nato. Dovevo farla circolare, perché diventasse una minuta proteina di quel codice che avrebbe rotto le catene della sopraffazione. E sapevo anche un’altra cosa. Che se non fossi andato per il mondo, non avrei capito niente della mia storia, della storia della mia parte.

Prunetti lo dice a p. 129. È più di una frase, è, esplicitamente, un programma. Ma un programma di cosa? Per Wu Ming 1, è la forma aggiornata della non-fiction novel. Aggiornata nel senso che viene dopo Orwell ma assume su di sé il peso dei dibattiti sul rapporto tra fatti e verità e tra fiction e non-fiction che sono stati al centro di passaggi epocali come l’avvento del web, dei movimenti contro-culturali e a volte anche parzialmente mainstream (soprattutto il post-modernismo). Ma il punto più importante, per Wu Ming 1, mi sembra consista in quello che i sociologi della letteratura chiamano il «patto col lettore»: esplicitare le scelte che l’autore opera in termini narrativi, soprattutto sul piano del rapporto tra invenzione letteraria e realtà fattuale. Il termine usato per descrivere la forma virtuosa di questo patto è «etica». Sul muro dell’etica si è schiantato uno degli autori che, con Gomorra, era stato l’eroe della nebulosa del New Italian Epic, contribuendo in parte al dissolvimento di quella insorgenza letteraria.

Il compito è difficile, ma Prunetti è forse lo scrittore che se ne assume in pieno la difficile responsabilità. «Responsabilità» è la parola che usa nel terzo articolo del decalogo della narrativa working class in quello che può essere considerato l’intervento più interessante degli ultimi anni sul tema. La direzione che viene imposta al discorso – «Se parliamo di noi e delle nostre famiglie, non lo facciamo per narcisismo. Le storie familiari diventano storie esemplari. Se diciamo «io», lo facciamo ancora non per culto della personalità, ma per un’assunzione di responsabilità su quel che raccontiamo» – è però un po’ diversa dal problema etico-narratologico posto da Wu Ming 1: bisogna ammetterlo. L’etica di Prunetti pone sì un problema di verificabilità di quello che si dice, ma non si limita a questo; l’io del racconto assume una dimensione collettiva che trascende il problema fiction-non fiction. Prunetti pone esplicitamente sullo sfondo un problema che esorbita dalla letteratura. Si tratta dei «destini generali». L’etica e la responsabilità assumono una curvatura progettuale e collettiva, che assegna all’autore e alla sua scrittura un preciso rapporto con il mondo, che a me ricorda il più etico tra i nostri autori novecenteschi, Franco Fortini. Nel 1955, Fortini scrive:

Per ognuno di noi che dimentica
c’è un operaio della Ruhr che cancella
lentamente se stesso e le cifre
che gli incisero sul braccio
i suoi signori e nostri.
Per ognuno di noi che rinuncia
un minatore delle Asturie dovrà cedere
a una sete di viola e d’argento
e una donna d’Algeri sognerà
d’essere vile e felice.
Per ognuno di noi che acconsente
vive un ragazzo triste che ancora non sa
quanto odierà di esistere.

La poesia si intitola, significativamente, Complicità; il rapporto tra il «noi» (presumibilmente gli intellettuali) e il mondo degli oppressi non è pacifico né scontato. Ma la fondazione etica del ruolo dello scrittore si misura proprio sul grado di partecipazione all’emancipazione. Seppure in maniera indiretta, mi sembra che il romanzo di Prunetti si distingua proprio per questa musa etica da una schiera sempre più nutrita di romanzi incentrati sul mondo del lavoro e scritti con la tecnica dell’auto-fiction: penso soprattutto ai recentissimi romanzi di Giorgio Falco, Angelo Ferracuti, Vitaliano Trevisan, dove prevale il senso di una sconfitta totale, di un pessimismo disperante e che, da alcuni punti di vista, vanno anche più a fondo nella diagnosi dei meccanismi di alienazione rispetto a Prunetti.

Solo che oggi, nel mondo dell’inadeguatezza neoliberale disegnato in maniera spietata da Mark Fisher, la disperazione è cool, perché in parte risponde alle esigenze di produttività e ritmo che ci vengono imposte, ne è parte integrante; la responsabilità e la via d’uscita, invece, non sono cool. In una cena elegante, come non si parla più di operai, così non si parla più di alternative. Sempre Fischer ci ha spiegato come il TINA thatcheriano sia stato radicalmente introiettato nel nostro tempo e nel nostro inconscio, intaccando in profondità anche istituzioni e modi di vita che storicamente erano riusciti a resistere (l’università, per esempio).

3. Girolamo De Michele ha allineato una sorta di canone contemporaneo di libri «sovversivi», che sembrano far da sfondo alla narrazione del Prunetti: da Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana a Forza lavoro di Roberto Ciccarelli, ma anche La lettera sovversiva di Vanessa Roghi (che non c’entra, ma c’entra). Non so se la diagnosi sia davvero esatta, ma la utilizzo e, se si vuole, la esplicito perché, in questo passaggio in cui emerge come la sinistra sia, oggi, essenzialmente una categoria estetica e storiografica, a me pare che il letterato sia, di fatto, il più sovversivo.

Nel canone di De Michele, Forza Lavoro di Roberto Ciccarelli sta un po’ a parte, perché è un libro che si colloca esplicitamente in una certa linea italiana di pensiero radicale (operaista e post-operaista) che è piuttosto lontana da Prunetti (vedi dopo, su questo). Mi sembra più produttivo concentrarmi su scuola e operai, che sono nodi centrali nella costruzione della narrazione di 108 metri, e forse mi aiutano ad affrontare il tema centrale per me: che cos’è la letteratura working class di Prunetti, e che cosa significa per i nostri destini generali, nell’Italia del 2018, dei Salvini e dei Di Maio.

Inizio com’è giusto che sia, dagli operai, e quindi da Marta Fana. A leggere Non è lavoro, è sfruttamento dopo aver letto l’intervento di Prunetti sulle nuove scritture working class si ha quasi l’impressione che lo scrittore abbia domandato, la sociologa abbia risposto. Prunetti inizia da un antefatto preciso: «Guai infatti a parlare di classe operaia. Ripetere tre volte il mantra ad alta voce: la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste». Fana ha iniziato a farsi conoscere con un debunking sacrosanto delle fandonie di Poletti sui dati occupazionali del Jobs act; nel suo best-seller ha poi ribadito, dati alla mano, che il lavoro c’è, è sottopagato e messo coscientemente nell’angolo. Quest’opera di smontaggio del paradigma neoliberista di non è inedito; in Fana si accompagna a una precisa idea dell’attuale assetto produttivo, dove fattorini e lavoratrici domestiche, sottoposte a regimi contrattuali precari, sono definibili, e riunibili, sotto la vecchia etichetta di classe operaia. Fana e Prunetti fanno coppia fissa nelle presentazioni da quando lo scrittore fissò nel contrasto tra il sorriso di Marta e i denti di Farinetti lo scontro tra « il molare che macina le vite degli operai» e «Quel sorriso […] bello come il movimento che abolisce lo stato di cose presenti».

Storytelling e numeri si parlano, ma questa working class ridiventata cool sembra sacrificata in un quadro vintage. Prunetti condivide con Marta Fana una visione idealizzata degli operai, che ricorda l’immaginario togliattiano (e lavorista) degli anni Cinquanta. Dialogando con gli sguatteri in un pub inglese, per spiegare da dove viene, Alberto dice:

Io vengo da un posto che fa 108 metri d’acciaio. Binari lisci come cosce e senza smagliature o ruggine. E mica le vendono al mercatino di Natale dietro casa quelle rotaie, sapete? Le hanno imbullonate nelle ferrovie di tutta Europa, anche qui da voi, cari sguatteri. E vi dirò di più e dopo questa offritemi una bella pinta scura. Sapete chi c’è a fare la manutenzione di questa acciaieria che non ha rivali nel continente e nelle isole britanniche? Un saldatore-tubista-manutentore che si lava i denti con la mola a spazzola, si fa la barba col cannello da taglio e sul cilindro incandescente appena forgiato si cucina uova e bacon in padella. E questo eroe working class è il mi’ babbo. Quindi rispetto e un’altra pinta, please. E quando dicevo queste cose, che ero il figlio di un metalmeccanico che con una mano sola spostava rotaie lunghe quanto uno stadio inglese, i miei soci senza fare la tara a certi racconti operai si frugavano le tasche e mi offrivano da bere. (p. 94)

Certo, qui c’è dell’ironia, ma in questo passaggio-chiave, da cui deriva il titolo del libro, c’è un orgoglio (un pride) dell’auto-rappresentazione (certi racconti operai) che rende 108 metri un libro in cui l’immaginazione degli operai, prodotta da loro, trova spazio direttamente nella scrittura, e la trova, appunto, in forma di orgoglio. Che il pride abbia un aspetto direttamente etico-politico, è dimostrato evidentemente dalle regole che ad Alberto vengono raccontate, e che egli troverà ovunque:

Dai una mano ai tu’ soci. Sciopera. Non leccà il culo al capo. Non fa’ il crumiro. Non infierì se ti tocca menà. Non prendertela troppo coi pisani, so’ umani anche loro. Diffida dei quattrinai. Se uno studiato ti chiama signore, mettiti col culo al muro. (p. 129)

Mi sembra che questa visione faccia il paio con le radici anche culturali inglesi che Prunetti rivendica, che oggi trovano una propria realizzazione politica nel laburismo coerente di Corbyn e nella cinematografia dell’ultimo Loach. Non si può non pensare a I, Daniel Black, dove un operaio – bianco e inglese – si trova ad affrontare le difficoltà derivate dalle conseguenze distruttive che il neoliberismo ha avuto sul welfare state, facendo emergere, tuttavia, un’etica stentorea, un sentimento di solidarietà innato, addirittura una capacità morale nei confronti della ragazza che è tentata dalla via della prostituzione.

Qui mi pare di vedere un po’ una rottura rispetto alla ferocia analitica di molta nuova sinistra italiana degli anni Settanta, operaista e non solo. Difficile ridurre ad unità questa tradizione (e sicuramente qualche traccia di questa stentorea idealizzazione la si può indicare in certa nouvelle gauche dell’epoca: basta pensare a Servire il popolo). Lasciando perdere una ricostruzione faticosa ed erudita, è forse più efficace richiamare qualche esempio pop. Mi viene in mente La classe operaia va in paradiso, dove il centro pulsante del discorso di Elio Petri è il conflitto interno all’operaio Lulù Massa, rotto tra l’adesione alla mutazione antropologica montante, l’adesione a una solidarietà attiva e sindacalizzata e infine la possibilità di una ribellione (se non rifiuto) del lavoro alienato. Nel discorso di Lulù c’è dentro tutto il dramma del decennio rosso, fino al Settantasette e forse oltre.

Forse è ancora più chiaro ricordare una canzone di Gaber, dall’album Storia di un impegnato e un non so. Siamo nell’anno seguente al film di Elio Petri: 1972; sul bagnasciuga batte ancora la schiuma del Sessantotto e della sua onda lunga operaia. E proprio Gli operai si chiama la canzone che voglio qui riprendere, come ottimo sintomo complessivo di un’atmosfera, di una certa attitudine. Prima di ascoltarla, è bene ricordare due passaggi. Nel primo, gli operai sono descritti così:

Gli operai
sono immaturi impreparati
leggono poco
e non si fidano della cultura
Gli operai hanno ancora
il complesso della borghesia
dei suoi valori scontati
che loro vogliono imitare
con sforzi meschini
che non si posson più vedere
gli operai.

È la parte iniziale della canzone; il cantante è un borghese convinto di raccontare una storia in cambiamento, e cerca di mettersi dalla parte giusta. Gli operai sono la parte giusta perché la loro soggettività, il loro oggettivo ruolo nello scontro tra capitale e lavoro li rende pericolosi:

Gli operai hanno ancora una forza
per non farsi fregare dalla gente perbene
che con tante parole con tante promesse
li frena li tiene
gli operai
Gli operai hanno addosso una forza tremenda
che può rovesciare questo mondo di merda
che noi alimentiamo e non si ferma mai
gli operai gli operai gli operai

Lasciamo in sospeso anche questo discorso, ma vale la pena, la canzone di Gaber, di ascoltarla interamente. Però è evidente che il discorso del Prunetti – e questo vale in parte anche per Amianto – è un discorso di pride che trova la sua ragion d’essere nella nostra particolare condizione di chi ricostruisce una storia dopo una sconfitta, e non nel vortice della lotta. Con La lettera sovversiva di Vanessa Roghi, il discorso sulla scuola di Don Lorenzo Milani ha finalmente riacquisito una sua dimensione storica, sottratta alle strumentalizzazioni della prima ora e agli attacchi, altrettanto strumentali, degli ultimi anni.

La «funzione Don Milani» emerge in 108 metri in maniera cristallina, quasi scolastica. Destinato al calcio (ma in maniera fallimentare, p. 32), Alberto, figlio di operai, scopre il possibile ruolo progressivo della scuola e della cultura (Ormai i figli degli operai fanno il liceo e l’università, siamo negli anni Ottanta. Perché con qualche fatica in più, si sa, si può avere il figlio dottore, quello che attaccherà il pezzo di carta al muro. Mica è giusto spaccarsi la schiena per generazioni, no?, p. 51) grazie ai gesuiti e soprattutto all’esperienza eretica e concreta di padre Balducci (E quando Balducci viene al liceo a parlare con noi nell’aula magna ci incanta, perché ha una visione delle cose che non sembra un prete e non parla come un intellettuale. Infatti è figlio di un minatore e ha orecchie grandi come badili. p. 52) e si appassiona alla lettura grazie a una biblioteca pubblica e all’amorevole guida di un bibliotecario.

La scelta di Alberto è, però, parzialmente stroncata dal padre, che lo vorrebbe instradare su un percorso tecnico; il risultato è un compromesso tra il suo desiderio di iscriversi al liceo classico e l’indiscutibile richiesta di Renato. Si iscrive allo scientifico. Questo percorso, esemplare, ha la forza (e la debolezza) di un apologo, tanto rispecchia la costruzione storiografica della sua concittadina maremmana Roghi. Si potrebbe discutere a lungo di questa visione integralmente «laica» di Don Milani, come anche della presunta scorrettezza dell’appropriazione che i movimenti del Sessantotto hanno fatto della Lettera a una professoressa. Come ci hanno insegnato i maestri, i libri vanno sicuramente letti tenendo sempre presenti le conclusioni, e l’eredità di De Mauro (e la sua peculiare lettura democratica e progressista del lascito di Lorenzo Milani a cui Roghi è strettamente aderente) pesa moltissimo nello stemperare, almeno in parte, il violento discorso antiautoritario della Lettera, la sua messa sotto accusa dei saperi – e soprattutto della lingua come istituzione e come strumento di gerarchizzazione sociale e di esclusione; ed è questo discorso, che viene a Milani direttamente da una lettura letterale del Vangelo, che agì, fra altre cose, come un fermento negli anni successivi alla sua morte. Ecco, anche questa tensione, la lascio in sospeso, sperando di ricordare tutto quando ci sarà da riprendere il filo.

4. Ma è bene che il romanzo di Prunetti – e in parte la sua proposta narrativa – manchi di un programma esplicito, di una tesi teleologica. Perché la bellezza del libro, la forza della sua proposta, sta in realtà nel far esplodere (quanto consapevolmente?) questo canone, nel farlo quasi inavvertitamente, in parte mettendo in crisi lo stesso impianto laburista del suo pride proletario. Partiamo da un passaggio finale, in cui Alberto dialoga coi lettori:

Se non me ne fossi mai andato, del resto, i miei sogni, i miei incubi non sarebbero stati sognati in inglese. E io ormai sognavo nella lingua di Shakespeare. Quella lingua che è il vero tesoro di Silver, che appartiene oggi al vostro umile narratore e a Gerald l’attore matto. La lingua dei bardi delle Cause perse, dei cavalieri erranti che lottano contro i mulini a vento, dei camminanti che prestano le proprie gambe alle utopie e fanno i facchini, o le pulizie o i camerieri e studiano un idioma straniero in una scuola serale, con le castagne in tasca. Che pretendo il pane e le rose, il salario equo e i sonetti d’amore del poeta dell’Avon. (p. 129)

I fili del racconto si riannodano. Soppesiamo bene queste parole. Il figlio dell’operaio Renato è andato via da Piombino; è l’espatrio lo ha reso finalmente straniero alla propria lingua. Ne esce fuori, in 108 metri, un mescidamento quasi al limite del pidgin, e giustamente Prunetti ha ricordato, nella sua risposta a Wu Ming 1, il dolciniano del Nome della Rosa («penitenziàgite!»); anche a me era capitato di ricordare questo caso come un esempio di lingua del reietto, giustapposta, delocalizzata, programmaticamente minore, perché non si propone mai come lingua standard, parlata, ma è una paradossale lingua franca che esprime un’esperienza individuale (e per questo è paradossale, perché annulla il fatto spiccatamente sociale della lingua).

Con questa esperienza Prunetti aggiunge finalmente un tassello-chiave a quella che era stata l’esperienza letteraria della nebulosa del New Italian Epic, e cioè una forma di sperimentalismo linguistico su base pragmatica, che non si riallaccia alla tradizione letteraria italiana del pluristilismo dantesco, ma a quella linea di multilinguismo di chi scrive in italiano in presenza di altre lingue, che secondo me (qui ho cercato di spiegarne la genealogia) parte dai volgarizzamenti medievali per arrivare su su fino al grande Luciano Bianciardi (non più dimenticato, come mostrano questo intervento e quest’altro).

Luciano Bianciardi, il lavoratore culturale. Il vero avatar di Alberto. «Se non me ne fossi mai andato, del resto, i miei sogni, i miei incubi non sarebbero sati sognati in inglese.» Questo passaggio strizza l’occhio al lettore del Bianciardi della Vita Agra, che dice: «dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a tradurre quello che avevo sognato». In Alberto rivive l’idea bianciardiana del lavoro culturale, la sua potenzialità sovversiva. Sovversiva, certamente, ma anche controcorrente rispetto agli ambienti radicali del Sessantotto. Bianciardi se ne sente in parte estraneo, in parte alternativo. Si sente integralmente inserito in una linea rivoluzionaria esplicitamente italiana, garibaldina (penso ad Aprire il fuoco, sulle cinque giornate di Milano, o a Da Quarto a Torino, riscrittura dell’esperienza dei Mille); si sente estraneo alla sua lingua (che considera lingua non parlata dai più, contro all’inglese «lingua chiarissima e popolare»); vuol vendicare la classe operaia a cui appartiene più per scelta che per appartenenza (e penso alla progettata vendetta contro il Torracchione nella Vita agra; ed è soprattutto nell’attività narrativa di Bianciardi che si trova un rapporto problematico tra fiction e non fiction (soprattutto sul terreno dell’auto-fiction). Prunetti non lo dice mai, ma se qualcuno è da richiamare è una linea – Bianciardi. Ed è questa linea – Bianciardi che mette la narrativa di Prunetti in tensione di nuovo con una certa tradizione della sinistra italiana.

5. Bene, ma la lingua è qui sintomo di qualcos’altro. Gli apologhi lineari, che rispecchiano la sinistra estetica e culturale che abbiamo detto – gli operai stentorei della tradizione laburista e la scuola democratica di De Mauro, una sorta di Togliatti + Don Milani – ebbene, questi apologhi esplodono, si frantumano, in una versione malinconica, riflessiva, che rende 108 metri un libro lancinante rispetto a quel canone. Li provo a riallacciare, i fili, rispetto a quella tensione. La scuola democratica, la funzione Don Milani, si frantuma con la realtà di divisioni di classe che rimangono nei muri innalzati nei due campi avversi. Gli amici del quartiere, i figli dei colleghi di Renato, vedono di traverso il suo successo scolastico:

Dé il Prunetti non ci caca, è diventato un cervellone. O ‘un ti degni di venì a giocà a pallone con noi, Prunetti? Hai mica paura di fatti male, eh?… (p. 42)

Ma anche l’ambiente del liceo che non reagisce pacificamente alla sua presenza:

Ma diciamocelo, anche il liceo non era certo il paradiso. Il primo compito in classe d’italiano fu un disastro. Il prof, che vantava la sua appartenenza a una loggia massonica, il giorno della restituzione del tema aveva l’abitudine di chiamarci uno alla volta in ordine alfabetico. Restituiva i temi corretti con eruzioni di righe di matita rossa e blu. Quando arrivò a me, sfogliò le pagine del foglio protocollo pensoso mentre io, entusiasta, con la coda dell’occhio, vedevo che la carta era praticamente pulita, a parte la mia calligrafia. Sbuffò. C’era scritto sopra 4. «L’hai copiato», disse senza rabbia. «Figurati, uno che ha la casa davanti alla ferrovia…» (p. 45)

Il muro è solido. Le classi non si parlano, ma vivono dentro la carne di Alberto. La separazione continua spietata. 108 metri è, in qualche modo, la rappresentazione plastica di questa scissione. Attenzione, però: non più della scissione del lavoro operaio. Ma della scissione del lavoro culturale proletarizzato. Prima di spiegare al lettore il perché di quella esigenza di partire, Alberto si chiede: «E se non si capisce nulla, a cosa servono le mani fini dei privilegiati?» (p. 129). E ancora:

Come puoi fare i giochi di prestigio con i paragrafi, saldandoli tra loro per creare pagina dopo pagina architetture di parole e viti, di bulloni e lettere capitali? Come fare impennare i sentimenti per dieci pedalate, come far palleggiare i ricordi e le metafore, se rimani al chiuso di una stanza a contemplarti l’ombelico, con l’edera che sale lungo le gambe? (p. 129)

Alberto ci accompagna fuori dal canone rassicurante, dal patto laburista che le masse operaie stringono con la democrazia e con le sorti progressive della borghesia. Tocca un punto forte di tensione, un conflitto irriducibile. Devo ora indicare un titolo che mi serve per comprendere questo specifico passaggio. È uno dei libri più importanti usciti negli ultimi tempi. Si chiama Nietzsche a Wall Street (Quodlibet, 20018) e lo ha scritto Daniele Balicco.

In questo mio ragionamento, non tutte le sollecitazioni di Nietzsche a Wall Street possono trovare posto; utilizzo soprattutto il profilo che Balicco propone di uno dei maestri del Novecento, Franco Fortini. Balicco è il più penetrante lettore di Fortini, del suo progetto intellettuale, del suo itinerario politico. In questo suo libro, Fortini è inserito in un canone – con Said, Jameson, Arrighi – più arretrato nel tempo, sicuramente novecentesco, ma apparentemente diverso da quello, ipercontemporaneo, costruito intorno a 108 metri. Il medaglione di Balicco dà una strana sensazione di dissonanza, perché parla di un Fortini misconosciuto.

L’autore di Verifica dei poteri, infatti, oggi conosce una sorta di riscoperta: una nuova edizione e un nuovo interesse presso critici come Giglioli e poeti-critici come Mazzoni. Ma attenzione: questo interesse sembra tutto orientato a una rilettura di Fortini come archetipo dell’umanista che si sente, oggi, sconfitto dalla marea montante della modernità. Prendetevi il tempo di ascoltare queste parole di Mazzoni: il suo Fortini è un intellettuale programmaticamente privo del progetto di trasformazione comunista della società. Un sacro custode delle auree lettere, che deve difendere il fortino dall’inciviltà che ci circonda.

Il Fortini di Balicco è, invece, non pacificabile, in guerra con il suo tempo, in inquieta ricerca di un altrove praticabile, ma soprattutto critico feroce del «mandato degli scrittori», della tradizione antifascista e del posto che gli intellettuali hanno nel mondo. Lo abbiamo visto prima velocemente, leggendo una sua poesia. Partecipare all’emancipazione fa parte della bussola dell’intellettuale progressista. Ma la condizione dell’intellettuale rivoluzionario è in sostanziale contraddizione con il suo posto nella società. Il neocapitalismo si articola anche attraverso le parole degli scrittori, che ne risultano essenzialmente organici; non c’è via di scampo, per Fortini, a questa organicità; lo scrittore deve sperimentare una condizione di estraneità per uscirne, lavorare sulla possibilità cognitiva di esserne fuori, sentire la scissione alienante nelle proprie parole come nella propria carne. Nessuna pacificazione è concessa; tutta una tradizione italiana, caratterizzata da un patto tra scrittura e classe operaia realizzata nella forma nazional-popolare – idea e prassi basata su una lettura di Gramsci del tutto sballata – è spazzata via.

Alberto Prunetti ha richiamato, nelle sue riflessioni teoriche, l’esempio di Vasco Pratolini come modello di scrittore working class:

Quando Vasco Pratolini, tra i pochi scrittori italiani emersi da un ambiente popolare, si recò negli anni Cinquanta a presentare Metello di fronte a un pubblico foltissimo di minatori in Maremma, dovette autografare centinaia di copie del suo romanzo. Ma la storia di Metello parlava ai minatori maremmani e loro si riconoscevano nel personaggio del popolano fiorentino. Oggi l’industria culturale non può lamentarsi se le classi subalterne non leggono più, se i libri si pubblicano in tirature ridicole: continuate a pubblicare storie che non parlano del vissuto della gente che ogni giorno lavora, e lavora male, e lavora sfruttata. Avete infilato nella testa della classe lavoratrice sogni che non sono i suoi. Qualcuno può leggere per evadere, per infilarsi nei panni dei quattrinai, qualcun altro per riuscire ad addormentarsi. Ma chi legge per capire la propria realtà e trasformarla, perché mai dovrebbe leggere i libri che i vostri uffici marketing suggeriscono di mandare in stampa?

Quando ho letto questo passaggio dell’articolo di Prunetti, sono saltato sulla sedia. Prunetti sa bene di toccare un nervo scoperto della storia della sinistra italiana. Sa che Metello di Pratolini venne stroncato da Carlo Muscetta, critico letterario comunista; sa che questa stroncatura creò un calderone su Rinascita nel momento del dissolvimento della politica culturale togliattiana (quella così bene fotografata in Uccellacci uccellini di Pasolini); sa anche che Pratolini è l’esempio più importante della narrativa populista travolta dalla critica – urticante per il PCI dell’epoca – di Alberto Asor Rosa e del suo Scrittori e popolo. Prunetti ci sta dicendo che la letteratura industriale di Ottieri e Volponi, la sfida al labirinto di Calvino, la verifica dei poteri fortiniana è qualcosa che va gettato alle ortiche perché è qualcosa di costruito dall’alto, che indica nel grande modernismo europeo la linea da seguire, che, pur essendo operaista di nome, di fatto sembra non avere nessun pride per la cultura operaia.

Non sono sicuro che Prunetti sottoscriverebbe questo terremoto. La lettura di 108 metri, però, evidenzia un punto di lacerazione proprio su questo piano. Se pure Prunetti non si vuol far crescere l’edera sulle gambe – come Fortini? Come Calvino? Come Volponi? – però la sua condizione di scrittore-operaio è quella di un ospite ingrato – l’espressione è di Fortini – a metà del guado, in cui l’ironia non riesce a nascondere una placida disperazione e una pura scommessa. Il punto è proprio che il progetto democratico (togliattiano-donmilaniano), che sia negli anni Cinquanta e che lo sia oggi, si sfracella con gli scompensi tra saperi e classi in questo mondo che si pretende post-industriale ma che non ha cancellato le catene dello sfruttamento. La disperazione di Alberto sta tutta in questo scompenso. Lo dice fra le righe in un passo che abbiamo già commentato e che riporto nuovamente:

Se non me ne fossi mai andato, del resto, i miei sogni, i miei sogni, i miei incubi non sarebbero stati sognati in inglese. E io ormai sognavo nella lingua di Shakespeare. Quella lingua che è il vero tesoro di Silver, che appartiene oggi al vostro umile narratore e a Gerald l’attore matto. La lingua dei bardi delle cause perse, dei cavalieri erranti che lottano contro i mulini al vento, dei camminanti che prestano le proprie gambe alle utopie e fanno i facchini, o le pulizie o i camerieri e studiano un idioma straniero in un una scuola serale, con le castagne in tasca. Che pretendono il pane e le rose, il salario equo e i sonetti d’amore del poeta dell’Avon.(pp. 129-130)

Don Chisciotte non è qui richiamato a caso. I mulini a vento e l’epos straccione di Cervantes rappresentano la fine di un mondo. I cavalieri sono diventati fantasmi, come i giganti delle pale dei mulini. La scissione sta proprio in un mondo che non si riconosce più, in cui si è sfaldata una struttura sociale e la sua rappresentazione. Le cose e le parole si allontanano, non si corrispondono. L’ironica disperazione di Alberto è quella di un epos malinconico (che ricorda il valore critico della nostalgia su cui si è soffermato Enzo Traverso). Si auto-percepisce in un paradigma che ha tutto l’aspetto di essere assai progressista, anzi forse laburista. Troppo bianco, troppo laburista. Ma la sua condizione non gli corrisponde. Qualcosa è finito, un cerchio si è chiuso.

6. Ho ritrovato in 108 metri la possibilità di dire il risvolto nascosto, negato e vietato della mia auto-fiction (che comunque è impigliata in una success story tipicamente neoliberale: il cervello in fuga che trova la sua realizzazione altrove). Ho visto un pride della propria condizione d’origine che restituisce le parole a una storia di classe ammutolita dalla risacca violenta degli anni Ottanta e Novanta. Ho avvistato la contraddittoria responsabilità di chi mette in primo piano se stesso, seppure in forma di composite.

Non posso nascondere, però, il disagio di chi vede «una unità fertile di compromessi e disastri», per richiamare sempre il vecchio Fortini, nella tentazione di non interporre saggiamente, «fra l’azione accanto o nei luoghi di vita del nuovo proletariato e l’elaborazione teorica […] una zona di disperazione tranquilla e una pura scommessa». Continuo a pensare che sia «meglio essere divisi lungamente fra un’attività pratico-politica guidata da principi provvisori e una ricerca teorico-scientifica senza conseguenze apparentemente verificabili.» (il saggio da cui cito si chiama significativamente Il socialismo non è inevitabile). Perché Prunetti non è Pratolini. Pratolini era un operaio autodidatta entrato nel mondo letterario grazie a Elio Vittorini, l’èlite dell’epoca. Alberto è figlio di un operaio, scolarizzato, è un lavoratore culturale. La sua conoscenza della fabbrica è mediata, ambientale, e non diretta. E Alberto vive più quella scissione tra frustrazione ed emancipazione che c’è in Bianciardi, e che lo rende paradossalmente vicino a quel grandissimo epos dell’Italia del boom che è l’Amica geniale di Elena Ferrante, dove Lila e Lenù sono le due facce, impossibili da sintetizzare, dell’integrazione del lavoratore culturale: Lila inquieta, presa nei saperi scientifici emergenti e innovativa, mai integrata e destinata a scomparire; Elena tipicamente gentiliana, umanista progressista e cosmopolita… Alberto vive questa scissione su un piano verticale (generazionale) ed orizzontale-sincronico (la precarietà, la fuga dei cervelli).

Lo devo dire onestamente. Vedo la fuga in avanti della scrittura working class quando essa fuoriesce dalla trappola democratica del pride. Quando lavora su questa ferita. Quando fa risuonare in me le parole della letteratura francese più recente, quella di Didier Eribon di Rétour à Reims, quella della Annie Ernaux di Les Années, quella dell’Edouard Louis di En finir avec Eddy Bellegueule.

Tutti libri in cui i figli della classe operaia, grazie ai percorsi dell’ascesa scolastica, arrivano nel mondo dell’èlite intellettuale, sentendo quanto quest’approdo è ingrato e doloroso. Perché comporta l’adesione a nuove gerarchie di valori e di linguaggi che provocano fratture non suturabili. Diventano voragini perché anche la working class si trasforma, e non per forza in meglio (le pagine di Didier Eribon sull’improvvisa adesione dei lavoratori francesi al Front National andrebbero antologizzate e fatte leggere ai giornalisti democratici di Repubblica…)

Jacques Rancière ha indagato, negli Settanta-Novanta del Novecento, le scritture operaie del XIX secolo, quando il sogno dell’emancipazione si definiva e si accompagnava a un aumento della scolarizzazione delle masse. Ci ha mostrato – qui una presentazione divertente delle sue tesi – che i filosofi, anche quelli progressisti, devono la loro esistenza stessa alla divisione del lavoro, e non rinunceranno mai a farsi crescere l’edera sulle gambe (da Platone in poi, con buona pace di Badiou). La parte dei senza parte, i ciompi di oggi, hanno bisogno non di aderire a un sistema che porta con sé, necessariamente, l’ineguaglianza, ma di sentire la possibilità della propria parte, di trovare uno spazio terzo: quando gli esclusi prendono la parola, riusciranno a darle un tono diverso da quello dei propri maestri e dei vari intellettuali, come provava a fare Jacotot?

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