Singolarità vs individuo
Sull'ontologia della potenza e della molteplicità
Singolare, imprevedibile, comune è il titolo di un seminario in 5 puntate che si tiene presso l’enoteca Il Piccolo (via del Governo Vecchio, 74 – Roma). Il testo che segue è la traccia dell’intervento che l’autore leggerà oggi alle ore ore 18.00.
At nihilominus sentimus, experimurque, nos aeternos esse.
Spinoza
1. Pur ammettendo la relazione, l’opinione comune non perde mai di vista l’individuo: la base ontologica sulla quale tutto si poggia
Secondo l’opinione comune, in primo luogo ci sono gli individui; siano essi pietre, piante, animali, uomini. Il mondo è costituito di individui, ciascuno diverso da tutti gli altri. Nel caso del mondo animale, gli individui convivono, si accoppiano, litigano, si feriscono a morte, si mangiano l’un l’altro e molto ancora. Sembrerebbe dunque prevalere la combinazione sull’isolamento. Pur ammettendo la relazione, l’opinione comune non perde mai di vista l’individuo: la base ontologica sulla quale tutto si poggia. L’animale umano, linguistico e auto-riflessivo, non può vivere – nel senso che non sopravviverebbe – senza socialità, ma si tratta appunto della dimensione inter-individuale. Di questa opinione comune andrebbe studiata la genealogia, afferrando gli scontri e le forze che l’hanno resa possibile. Sicuramente la nozione di “individuo” è stata fondamentale agli albori del moderno, con l’affermazione violenta del capitalismo e la fondazione della sovranità e degli Stati-nazione. Per giustificare il pactum subiectionis, Hobbes descrive uno stato di natura nel quale gli individui si fronteggiano senza posa. Tale è la paura di ciascuno, che è meglio affidare la violenza e il potere al sovrano. Finzione razionale, lo stato di natura non è troppo dissimile dal mercato, luogo nel quale gli individui competono per accaparrarsi merci, ricchezza, benessere. Come Marx ha chiarito nel Capitale, per fare il mercato, in particolare quello delle braccia e della fatica, ci sono voluti sangue, espropri, migrazioni, punizioni, carcerazione e molto altro. Il povero, oltre a essere tale perché spossessato (della terra, dei mezzi di produzione, ecc.), è in primo luogo povero di comunità, strappato alle sue relazioni sociali, individuo rissoso e concorrente tra gli altri. Dietro l’ontologia, e le sue opinioni, si cela dunque una politica, storicamente situata.
2. In entrambi i casi c’è un principio dinamico che scuote la materia e la mette in movimento: il conatus, in Spinoza, e l’appetitus, in Leibniz
Dobbiamo a Gilles Deleuze una nozione assai originale di “singolarità”. Quest’ultima non coincide con l’individuo, ma lo precede e lo costituisce. Riferimenti privilegiati per comprendere questa affermazione, per molti versi sfuggente, sono Spinoza e Leibniz. Più o meno contemporanei di Hobbes, e pur collocandosi su terreni spesso contrapposti, i due sviluppano un’ontologia e un’antropologia alternative a quelle di matrice individualista. Il primo pensa le cose singole come modi finiti dell’infinita potenza produttiva della natura; il secondo una molteplicità di sostanze semplici, o monadi, ciascuna lo «specchio vivente dell’universo». In entrambi i casi c’è un principio dinamico che scuote la materia e la mette in movimento: il conatus, in Spinoza, e l’appetitus, in Leibniz. In entrambi i casi l’individuo è l’esito, e non la premessa, di un processo di individuazione; una sorta di effetto di superficie. Altrettanto, non c’è individuo che non sia composto di infinite parti infinitamente piccole.
3. Perseverare nella propria esistenza vuol dire favorire le relazioni che aumentano la potenza, ridurre al minimo quelle che la limitano
Nelle prime proposizioni della terza parte dell’Etica, Spinoza afferma che ogni cosa singola si sforza, «per quanto è in essa» (quantum in se est), di perseverare nella propria esistenza e questo conatus, o potentia, non è altro che la sua «essenza attuale». Propriamente singolare è la potenza con la quale ogni ente esiste. Si tratta dunque di un’ontologia della potenza e, nello stesso tempo, della molteplicità (delle essenze e delle cose). Come si determina, però, la singolarità di ciascuna potenza? Per un verso essa è una parte o gradus dell’infinita potenza di essere e di agire di Dio, inteso come natura. Per l’altro, e proprio perché parte, essa è il rapporto o la differenza tra azione e passione. Ogni cosa, infatti, è costituita da una molteplicità di corpi, «corpi semplicissimi» (o infinitamente piccoli) che si distinguono tra loro in virtù del movimento e della quiete, della velocità e della lentezza; l’esteriorità degli incontri mette in movimento i corpi, li compone e li decompone, ne fa di più grandi e ancora più grandi, e così via. Gli urti e le combinazioni dei corpi limitano la potenza singolare degli enti o, piuttosto, la accrescono. Ciascuna cosa dunque è il suo conatus, un insieme di infiniti corpi semplicissimi, un determinato rapporto di composizione ‒ corrispondente all’essenza della cosa stessa ‒ che li tiene assieme. Ancora: la materia di Spinoza è sempre sia estensiva (i corpi) che intensiva (il conatus e la sua produttività), e l’essenza si determina nell’esistenza, come una continua variazione affettiva. Nell’Etica non ci sono primariamente individui, ma individuazioni, composizioni, scontri, convenienze, modificazioni (finite) dell’infinita potenza di Dio. L’individuo è un composto, un intreccio, di corpi e di passioni; la singolarità, invece, il suo laboratorio preindividuale di formazione, l’insieme delle variazioni intensive che lo precedono, lo costituiscono, lo accompagnano. Di più, l’essenza singolare è connettiva: perseverare nella propria esistenza vuol dire favorire le relazioni che aumentano la potenza, ridurre al minimo quelle che la limitano. La mente umana, che è costituita dall’idea del corpo e delle sue affezioni (modificazioni, relazioni), è anche, per questo, consapevole del suo conatus, tanto che quest’ultimo si fa cupiditas. La dinamica del desiderio, il suo gioco e le sue traiettorie, è il piano di intersezione e di co-articolazione tra ontologia, etica e politica: propriamente saggio, in Spinoza, è chi riesce a conquistare col pensiero e la forma di vita la pienezza espressiva della propria singolarità. Diventare singolari, ovvero sentire e sperimentare – nella finitezza della propria esistenza individuale – l’eternità – della propria essenza o fonte di esistenza.
4. Virtuali sono le venature del marmo che semplicemente precedono e dispongono i contorni della figura
Il mondo, secondo Leibniz e la sua Monadologia, pullula di sostanze semplici e composte. Le prime, prive di estensione, sono le monadi; le seconde, aggregati di elementi semplici, sono i corpi. Indivisibili, le monadi sono gli «atomi della natura»; non hanno finestre, ma, nello stesso tempo, sono differenti l’una dall’altra e sono in continuo movimento. Se il mutamento non viene dall’esterno, non può che esserci un principio interno a determinarlo. Ma non basta. Pur essendo sostanza semplice, senza parti, la monade contrae una «pluralità di affezioni e di rapporti», ovvero differenze di grado, intensive. La percezione è lo «stato passeggero» che complica e rappresenta la molteplicità nell’unità; il mutamento da una percezione all’altra, invece, è determinato dal principio dinamico interno, che Leibniz definisce appetitus. Quest’ultimo è una tendenza a esistere, un’attitudine o una disposizione, una virtualità. Parlando delle idee innate, Leibniz utilizza una metafora estremamente perspicua, quella del marmo e della figura scolpita. Virtuali sono le venature del marmo che semplicemente precedono e dispongono i contorni della figura. Nello stesso tempo, non c’è marmo che non sia già sempre attraversato da venature, le differenze intrinseche che qualificano le sostanze semplici. Anche in questo caso, come in Spinoza, Dio è potenza e «fonte» (Quelle) delle attitudini singolari, delle percezioni situate. Seguendo la traiettoria di Cusano, le monadi sono complicazioni dei rapporti che esprimono tutte le altre e, di conseguenza, «specchio vivente dell’universo». Ancora: ogni monade è un punto di vista, una prospettiva dell’universo. Tanto più le sue percezioni sono distinte, tanto più è attiva; è passiva, invece, quando le percezioni sono confuse. La connessione e l’adattamento tra tutte le monadi – e questo è il vero punto debole di Leibniz – sono opera di Dio, del suo intervento diretto. Anche quando si chiarisce che ciascuna monade rappresenta più distintamente il proprio corpo, o, nelle pagine più belle dei Nuovi saggi sull’intelletto umano, si esibisce il rapporto tra gli infiniti modi della sensazione e le «piccole percezioni», l’armonia prestabilita mette al riparo le variazioni intensive dalla causalità efficiente del corpo e della sua esistenza. Nonostante questo, che è molto intendiamoci, in Leibniz l’individuo è esito e non premessa del processo di individuazione, contrazione di rapporti, gradus della potenza di Dio.
5. La torsione materialista che Spinoza imprime alle nozioni di Duns Scoto e Cusano è la nostra chiave d’accesso alla nozione deleuziana di singolarità
Ci sono precedenti importanti, cari a Deleuze, noti direttamente o indirettamente a Spinoza e Leibniz, utili per cogliere la distinzione tra singolarità e individuo: Duns Scoto e il già citato Cusano. Il primo dei due, francescano, viene fortemente ispirato dall’arabo Avicenna, del quale riprende la nozione di essenza o natura comune – che precede ogni determinazione, minore dell’unità numerica dell’individuo, a essa indifferente. La natura comune, oggetto primo dell’intelletto, è del tutto reale, seppure la sua non sia una realtà fisica, ma metafisica. Fatta propria la nozione avicenniana, Duns Scoto si concentra sul problema del principio di individuazione, ciò che definisce «fattore contraente». L’individuo, infatti, non è altro che una «contrazione» della natura comune. Ma cosa rende possibile la differenza individuale? Si tratta semplicemente degli accidenti propri dell’esistenza di ciascun ente? Attraverso un esempio spesso ripreso, Duns Scoto mostra la singolarità dell’essenza, il fattore contraente che precede e costituisce l’individuo: il colore bianco (la qualità, la forma) e la «bianchezza intensa». L’intensità del bianco, infatti, non è altro che un gradus del bianco stesso, un certo modo di essere bianco. L’haecceitas o singolarità scotiana, in questo senso, non è un mero accidente che si aggiunge all’essenza, ma modus instrinsecus della stessa, «ultima realtà della forma». Da Duns Scoto non si allontana troppo Cusano, che in pagine poco note definisce l’Uno, la causa eterna di tutto, la «singolarità di tutti i singolari»; di più, ciò che «singolarizza» ciascun singolare. In pagine più note, quelle della Dotta ignoranza, torna la nozione di contrazione: l’unità dell’universo, ci dice Cusano, si contrae mediante la molteplicità. E ancora dopo: ciascuna creatura «si sforza di conservare il suo essere particolare come un dono divino». L’Uno contratto, ovvero la singolarità del singolo, coincide con lo sforzo di esistere. Ecco, nel pieno del Rinascimento, un precedente del conatus spinoziano, seppur ancora segnato dalla traiettoria emanatista. È fuori dubbio, infatti, che Spinoza si differenzi tanto da Duns Scoto quanto da Cusano: non c’è, in lui, alcuna trascendenza divina, ancora così decisiva nei due; il Dio di Spinoza è «causa immanente» di tutte le cose. L’essenza singolare, inoltre, e ciò definisce un punto di distanza fondamentale da Leibniz, è una res physicae e non un’entità metafisica, né una semplice possibilità logica. Le variazioni intensive o affettive del conatus riguardano, e non possono non farlo, l’esteriorità degli incontri propri dei corpi, la determinatezza della loro esistenza. La torsione materialista che Spinoza imprime alle nozioni di Duns Scoto e Cusano è la nostra chiave d’accesso alla nozione deleuziana di singolarità.
6. Propriamente comunista, è colui che ri-attiva la sua infanzia, a partire da una cooperazione sociale ricca; tanto è povero, tante e articolate le combinazioni che riproducono e mettono in forma la vita, quella comune appunto
Tra gli esempi che Deleuze utilizza per mostrare la singolarità degli individui ce ne sono tre, in particolare, che meritano attenzione. I primi due compaiono nel suo ultimo testo, dal titolo L’immanenza: una vita… In riferimento a un episodio del Nostro comune amico, di Dickens, Deleuze indica nel moribondo, in colui che sta tra la vita e la morte, il momento in cui la vita individuale lascia il posto a una vita impersonale e singolare nello stesso tempo; una vita affrancata dai suoi accidenti, il puro evento sorgivo della vita stessa. Il moribondo è diventato, semplicemente, Homo tantum (definizione mutuata dal testo avicenniano). A seguire, l’esempio utilizzato è quello del neonato. Pur essendo tutti simili, e privi di individualità, i neonati sono segnati dalla singolarità di «un sorriso, un gesto, una smorfia»; sono «attraversati da una vita immanente». Il terzo esempio, invece, si trova in Bartleby o la formula, luogo nel quale Homo tantum sta per «uomo senza proprietà, senza famiglia né nazione», senza altra determinazione se non quella di uomo. Per rafforzare l’indicazione, non casualmente, Deleuze chiama in causa l’«uomo comunista», quello che si organizza nell’«arcipelago» dei Soviet. Il moribondo, il neonato, il comunista; soffermiamoci sugli ultimi due, di certo più promettenti. Tanto il neonato quanto il comunista non smetteranno, o almeno non subito, di essere determinati dai propri accidenti (amori, congiunture storiche, dolori e sconfitte, momenti di gloria, malattie). L’infante poi, le sue espressioni facciali e i suoi gesti, non sono decifrabili se non in un campo relazionale e affettivo che precede l’individuazione. Lo psicoanalista italiano, Elvio Fachinelli, definisce questo campo «area perinatale», luogo sempre «attivo o attivabile» in cui il «Sé emergente» è in costruzione. L’ambito di espressione della potenza di esistere e di agire, in questo senso, si colloca tra le cose, è un puro rapporto. Perché, allora, il neonato e il comunista esibiscono la singolarità di una vita? Propriamente comunista, ovvero singolare, è colui che ri-attiva la sua infanzia, la sua zona di indeterminazione, a partire da una cooperazione sociale ricca; tanto è povero, senza proprietà, tante e articolate le combinazioni che riproducono e mettono in forma la vita, quella comune appunto.
7. Si tratta di un «divenire rivoluzionario» che, nel costruire comunità, combatte, fonda istituzioni senza Stato, afferra il significato della parola amicizia, definisce nuove trame amorose
Conquistare la propria singolarità è ciò che rende una vita degna di essere vissuta. E ciò, come abbiamo visto, non ha nulla a che fare con l’individuo, il suo perimetro, il suo isolamento. Divenire singolari, vuol dire divenire attivi, e farlo dentro un processo di composizione delle forze. Non stupisce che la nostra epoca, quella dell’individualismo neoliberale, sia, tra le altre cose, l’epoca della malinconia. Il depresso ha esaurito la potenza di esistere, prevalgono la solitudine e la spossatezza, il limite diventa una gabbia d’acciaio. L’individuo che compete non ha amici; come diceva un noto film degli anni Ottanta, «ne resterà soltanto uno». Senza amici, quando è sconfitto nel mercato l’individuo è malinconico; altrimenti, ma è la stessa cosa, un grumo di risentimento. Non stupiscono neanche i farmaci e le droghe del nostro tempo: modi vari, controllati o privi di misura, di rilasciare serotonina. L’«estasi originaria», di cui scriveva Merleau-Ponty nei tardi anni Cinquanta, si fa esperienza di tutti i giorni o quasi. Ma è un lampo che sbiadisce presto, poi si torna al mercato, al lavoro (quando c’è), e la giostra della solitudine ricomincia. Cosa vuol dire, invece, dare consistenza alla propria singolarità? Come smobilitare i propri confini individuali e, nella relazione, sperimentare la propria eternità? Siamo ancora, con Spinoza, collocati su un piano dove ontologia, etica e politica si concatenano, fino a confondersi. Si tratta di un «divenire rivoluzionario» che, nel costruire comunità, combatte, fonda istituzioni senza Stato, afferra il significato della parola amicizia, definisce nuove trame amorose, ibrida il proprio corpo con le macchine intelligenti, inventa facendo a meno dei brevetti, ecc. Marx, anche lui fugacemente, immagina questa individuo mai visto prima, lo definisce «sociale» e lo pensa privo di specializzazione. Libero dalla iattura del lavoro sotto padrone, dipinge, pesca, scrive, progetta, costruisce: l’«individuo sociale», o l’individuo che ha conquistato la sua singolarità, è uno scienziato sperimentale, e imprevedibile.
condividi