Storia naturale dello zombie
George Romero e l'ambivalenza del lavoro contemporaneo
George Romero (1940-2017) è stato il più acuto osservatore del mondo zombie. Sì, ne è stato un «osservatore» poiché Romero non ha inventato nulla: nel mezzo secolo della sua produzione cinematografica si è limitato a constatare il carattere inquietante e ambivalente di alcuni processi storici. Nella prefazione a una raccolta di racconti, il regista afferma con candore di aver visto (è questo il verbo che usa) gli zombie per la prima volta nell’estate del 1967, aggiungendo di aver pensato ingenuamente a quanto fosse meravigliosa la possibilità che hanno di recarsi «in ogni dannatissimo luogo in cui gli piaccia andare».1
La finezza dell’analisi di Romero è risultato, dunque, di una caparbia capacità descrittiva. La sua quadrilogia insegue il fenomeno con il piglio ossessivo e affezionato del primatologo: La notte (1968), L’alba (1978), Il giorno (1986) e La terra dei morti viventi (2005) non costruiscono una progressione ascendente ed esponenziale. Il regista non illustra il propagarsi di un fenomeno che rimane costante per cifra costitutiva, il dilagare del male cannibalico. Al contrario, il senso della sua ricerca è la costruzione di quel che potremmo chiamare una storia naturale dello zombie. Nel primo episodio, l’eruzione dei morti viventi è momentanea e apre la porta a una inversione di ruoli. Un nero (o una donna, nel remake del 1990 dell’amico Tom Savini) prende finalmente la scena poiché l’emergenza zombie dà finalmente spazio a figure di solito costrette in un angolo. In questo caso, i morti viventi non danno inizio a un’era ma durano il tempo di una Sliding Door: è un’occasione sovversiva che si conclude con il protagonista impilato nel rogo di chi deve esser spazzato via. Nei film successivi, questo elemento strutturale si modifica: il morto vivente non dischiude più per l’Homo sapiens una chance di rinnovamento. Al massimo, come avviene nell’ultimo capitolo, saranno gli zombie a organizzarsi in una nuova forma di vita sociale. Anche ne La Terra dei morti viventi è un nero a prendere la scena, ma un nero zombie che impara a maneggiare armi, comunicare con gli altri non morti e proteggerli dagli assalti degli umani. La storia naturale degli zombie è, dunque, una storia evolutiva. Romero non vede in questa figura un’icona immobile, da difendere grazie alla fissità di un copyright. Il regista cerca costantemente di mettere a fuoco un soggetto in rapida trasformazione. Ed ecco il problema al quale Romero dedica una intera esistenza. Di quale soggetto si tratta? Di cosa il morto vivente è sintomo?
La questione rimane aperta. Alcuni, ad esempio, fanno riferimento ai problemi legati al contratto sociale negli Stati Uniti2, altri al rapporto tra civiltà e istinto3 oppure alla «volontà di sopraffazione e dominio dell’uomo sull’uomo»4. Offro una lettura diversa. Lo zombie è legato a filo doppio alla dimensione produttiva. Storicamente lo zombie è una figura della magia voodoo legata, ricorda Rocco Ronchi5, alla schiavitù agricola. È dal lavoro nei campi che lo zombie trae origine. Propongo di aggiungere: lo zombie cinematografico continua a elaborare questo mitologema poiché continua a essere il sintomo della trasformazione delle forme assunte dal lavoro. Sia nell’opera di Romero che nella rinascita contemporanea di questa figura, il morto vivente tende a diventare sempre più vivace: ne Il Giorno dei morti viventi uno di loro impara a parlare, nel sequel Il ritorno dei morti viventi (D. O’Bannon, 1985) tutti sono in grado di farlo; in 28 giorni dopo di Danny Boyle (2002) gli infetti sono abili nella corsa, mentre in Io sono leggenda (F. Lawrence, 2007) costruiscono trappole e tendono imboscate. Lo zombie si trasforma: da schiavo si fa operaio cognitivo, diventa effige del lavoro contemporaneo in grado di assorbire l’interezza della motilità umana, la pienezza della sua capacità di usare strumenti fino al paradosso di un morto che, oltre a vivere, addirittura parla. Se la creatura cimiteriale de La notte dei morti viventi è un manichino a scatti che ricorda l’agire meccanico di chi opera in fabbrica, gli zombie di nuova generazione sono degne controfigure di chi è costretto a un processo di formazione permanente.
Lo zombie di Romero è inquietante, dunque, non perché sia orrendo, ma poiché incarna un’ambivalenza. Da un lato sembra indicare una feroce via di fuga alla necessità per la specie umana di produrre i mezzi della propria sussistenza: «sono cannibali?» ci si interroga all’inizio de L’alba dei morti viventi. No, non lo sono. Mangiando il primo che passa, gli zombie non si cibano ritualmente dei propri simili, bensì eludono il problema umano della produzione dei mezzi per la sopravvivenza. Quel che li rende alieni dai sapiens non è la loro crudeltà (prerogativa, come è noto, ben sviluppata nella nostra specie) o la trasgressione di un tabù, ma il fatto che siano riusciti a svicolare una volta per tutte al problema umano dell’autoproduzione della vita. Mangiandoci, i morti viventi si autoproducono due volte: fanno nascere altri vaganti, tengono in buona forma quelli esistenti. Mangiandoci, gli zombie cessano di essere umani poiché fanno fuori la necessità antropologica di produrre i modi con i quali salvare la pelle. Dall’altro lato, però, lo zombie continua a essere immagine fedele dei cambiamenti dell’assetto produttivo vigente: la sua epidemia è sintomo dell’irruzione violenta del lavoro in ogni anfratto della vita, di un moto infestante in grado di contaminare estati e giorni di festa, infanzia e quella che un tempo era l’età della pensione.
È proprio questo paradosso, illustrato nel dettaglio dalla quadrilogia di Romero, a costituire una miniatura preziosa del tempo odierno. Quando lo zombie illustra la fantasia oggi molto diffusa di una umanità autosufficiente, che vive in una nicchia ambientale o si gode una passeggiata eterna sul pianeta, diventa il volto sbarazzino e feroce di un mondo nel quale lo sfruttamento pervade ogni angolo della nostra esistenza. Se invece, come racconta il primo e (in modo diverso) l’ultimo film della quadrilogia, il morto vivente è simbolo di una svolta sospensiva in grado di aprire le porte a una inversione di status, allora questa figura assume un senso del tutto diverso. Ogni crisi degli assetti produttivi offre possibilità prima impensabili per costruire un mondo umano nuovo, un tassello finalmente diverso della nostra storia naturale.
Note
↩1 | George Romero, Prefazione, in J. Skipp, C. Spector (a cura di), Il libro dei morti viventi, Bompiani, 1995, pp. 5-6. |
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↩2 | Leah Murray, Quando non ci mangiano non ci uniscono. Gli zombie e il contratto sociale americano, in R. Greene e K.S. Mohammad, La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti, Mimesis, 2014, pp. 217-226. |
↩3 | Simon Clark, Il martirio dei morti viventi. Sesso, morte e rivoluzione negli zombie movie di G. Romero, in R. Greene e K.S. Mohammad, La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti, Mimesis, 2014, pp. 205-216. |
↩4 | Dario Buzzolan, George A. Romero. La notte dei morti viventi, Lindau, 1998, p. 23. |
↩5 | Rocco Ronchi, Zombie outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus, 2015. Del libro abbiamo parlato in un altro articolo presente su «OperaViva Magazine», M. Mazzeo, Zombie al lavoro, 9 maggio 2016. |
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