Logiche dello sfruttamento

Oltre la dissoluzione del rapporto salariale

Claire Fontaine, Untitled (Sell your debt) 2012
Claire Fontaine, Untitled (Sell your debt), 2012.

Pubblichiamo un estratto da Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, il saggio di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, in libreria in questi giorni per le edizioni ombre corte (pp. 126, euro 12,00).

Lo sfruttamento è ancora oggi la chiave imprescindibile per comprendere il capitalismo e le sue intrinseche contraddizioni. Tuttavia, con la crisi del modello di sviluppo industriale e fordista, il rapporto salariale perde progressivamente la sua centralità sociale, esplodendo, fino quasi a dissolversi. Conseguentemente, i modi del comando capitalistico mutano drasticamente. Seguendo un approccio interdisciplinare, gli autori cercano di spiegare come le logiche dello sfruttamento si organizzano e funzionano in questo nuovo scenario, a partire dalla convinzione che sia necessario rivisitare l’armamentario concettuale della tradizione marxiana.

1. Il nostro tentativo è quello di ridare centralità a una categoria che resta fondamentale sia per una scienza critica, che per un agire critico: lo sfruttamento. Una categoria che ad oggi è ridotta a parola generica, a pretesto morale, a stato di fatto dinanzi al quale si resta muti, innanzitutto perché si moltiplicano le circostanze in cui il riconoscersi come sfruttato conduce a riconsiderare criticamente la propria soggettività, a rileggere la propria esistenza, a riconoscersi diverso. Dinanzi e dentro queste difficoltà dell’esistere, emerge l’esigenza di comprendere non già la logica dello sfruttamento, ma le logiche dello sfruttamento. È questa pluralità che ci consente di riconoscere innanzitutto una prima dimensione comune, quella appunto di essere all’interno di una situazione in cui le nostre differenze corrispondono a forme diverse di sfruttamento, rompendo in questo modo l’isolamento forzoso al quale ci condanna la consapevolezza della nostra diversità dall’altro: lui sì che è sfruttato, ma io no, per me è diverso!

Seguendo questo percorso diviene necessario ridefinire alcuni concetti cardine su cui l’analisi del capitale in quanto rapporto sociale conflittuale è stata sinora costruita. Se è innegabile che il saggio di sfruttamento inteso marxianamente come rapporto fra plusvalore e capitale variabile è un’invarianza logica, tuttavia innanzitutto il capitale variabile va analizzato alla luce dei profondi cambiamenti qualitativi che ne hanno segnato l’evoluzione.

Per Marx il capitale variabile rinvia all’impiego della forza-lavoro nella produzione. Esso sarebbe in tal modo approssimabile attraverso il valore monetario della forza-lavoro. Oggi come ieri, il capitale variabile conferisce alla merce, oltre al valore proprio, anche un valore aggiuntivo che è appunto il plusvalore. Tuttavia assistiamo a una riduzione incredibile del valore monetario della forza-lavoro e al proliferare di forme di produzione capitalistica che si danno fuori dall’istituzione salario, o per dirla diversamente attraverso l’esplosione del rapporto salariale, e che comportano la diffusione di relazioni di dipendenza finanziaria strutturalmente fragili.

Ecco che, a partire dall’analisi dei cambiamenti qualitativi cui è soggetto il capitale variabile, emerge una delle domande principali che ci ha condotto a intravedere la logica dell’imprinting: cosa significa accettare la prospettiva di una relazione salariale che si traduce materialmente nella impossibilità di ottenere una remunerazione pari al salario di sussistenza? D’altro canto è questo uno dei risultati più impressionanti cui perviene l’impulso illimitato e smisurato ad oltrepassare i suoi ostacoli da parte del capitale. Un processo, quest’ultimo, che sembra realizzasi attraverso un’integrazione crescente tra la fase della produzione e la fase della circolazione.

2. Il capitale variabile, la massa che crea il plusvalore, non è più soltanto la forza-lavoro in senso classico. Semplicemente analizzando le modalità in cui si organizza e funziona la produzione capitalistica non riconosciamo più la forza-lavoro come esito dominante di un processo di produzione di soggettività. Le lotte operaie nel corso del tempo hanno costretto il capitale a riorganizzarsi e, in particolare, a riorganizzare la forma del processo di estrazione del plusvalore, assoluto e relativo. Negli esiti di questo scontro, in questo enorme processo di trasformazione sociale all’interno del quale sono coinvolte anche le nostre esistenze, si subisce, senza probabilmente percepirla sino in fondo, una riqualificazione del comando capitalistico all’interno del processo di valorizzazione. È a questo livello del problema che restiamo senza parole, fermi dinanzi ad alcune certezze: se esiste un luogo dove viene costantemente realizzata la separazione della forza-lavoro dal capitale, questa è la sfera della circolazione e della riproduzione della forza-lavoro stessa. Sono i momenti dell’esistenza che apparentemente restano al di fuori dell’attività produttiva, i momenti in cui il tempo è impiegato a consumare, a costruire delle relazioni umane, a coltivare i propri interessi, a realizzare la propria soggettività; momenti che tuttavia portano i soggetti a sperimentare il proprio stato di necessità, una necessità che li conduce a vendersi come forza-lavoro. Tuttavia è proprio qui, sulla soglia del modo più classico di concepire lo sfruttamento, che si pone il problema della produzione della soggettività.

3. La formazione della forza-lavoro così come viene definita da Marx, è pertanto oggetto di un radicale cambiamento qualitativo. Il mondo delle merci continua ad includere lo stesso lavoro, cioè la condizione soggettiva dell’esistenza di ogni merce. Tuttavia il momento in cui la forza-lavoro dovrebbe essere messa in vendita sul mercato da parte dei lavoratori liberi, non rappresenta più, dal punto di vista empirico, una condizione generale. Ciò tuttavia non significa che non si dia capacità lavorativa. Ne consegue che la distinzione tra lavoro comandato e lavoro contenuto marxianamente intesi, diviene problematica. In particolare, la quantità di lavoro contenuta nei beni salario non è generalmente la misura di ciò che il lavoratore riceve a fronte delle ore di lavoro prestate.

C’è quindi, già a questo livello del ragionamento, una nuova separazione che si riscontra: da una parte ci sono le ore di lavoro che senza neanche passare per l’istituzione mercato del lavoro vengono erogate dal soggetto, dall’altra ci sono forme simboliche di remunerazione, o, in altri casi, aspettative di guadagni finanziari. Difficile a questo punto parlare, sia di forza-lavoro, dal momento che il lavoratore non ha giuridicamente venduto come merce la sua prestazione, sia di beni salario.

Non si può più sostenere, in senso stretto, che la compravendita della forzalavoro, alla quale il lavoratore è costretto se vuole vivere, trasforma, in modo esclusivo, le condizioni oggettive della produzione in capitale. Ciò che è scomparsa, come condizione generale, è la fictio iuris del mercato del lavoro come forma esclusiva della separazione. Il concetto di imprinting serve proprio a far luce su quei casi in cui lo sfruttamento viene a determinarsi senza passare per l’istituzione salario, quindi per il mercato del lavoro. Ed è in questi casi che le condizioni oggettive della produzione espresse dalla cooperazione sociale, fuori dai luoghi tradizionali della produzione, sono potenzialmente sfruttabili dal capitale.

L’individuazione dello sfruttamento presuppone di svelare che ciò che continuiamo a chiamare mercato del lavoro è divenuto un contenitore di strutture istituzionali molto eterogenee tra loro. Abbiamo d’altro canto cercato di mostrare che le diverse articolazioni fra sussunzione e imprinting vanno a definire finzioni differenti, talora legittimate dal diritto, talaltra ancora prive di un riconoscimento formale. La separazione riceve pertanto una serie di determinazioni diverse a seconda che prevalga la logica della sussunzione (formale e reale), o la logica dell’imprinting (reale e formale): in ciascuno di questi casi la qualificazione, prima che la quantificazione, della differenza fra lavoro comandato e lavoro contenuto risponde dunque a logiche distinte.

Resta sempre vero che la capacità lavorativa che si comanda mediante l’insieme di simboli, merci e aspettative che motivano la prestazione lavorativa – anche quando avviene a salario zero – è maggiore della quantità di lavoro richiesto per produrre l’insieme di simboli, merci e aspettative in cui consiste ciò che eravamo abituati a riconoscere come beni salario.

4. In questo volume nel dare forma alla logica dell’imprinting, abbiamo cercato di sostenere una posizione estima rispetto al marxismo. In altre parole abbiamo ritenuto indispensabile leggere lo sfruttamento a partire dalle istanze e dalle categorie che il pensiero marxista ha posto in essere nel mostrare l’inganno che la società di mercato organizza nei confronti della soggettività non proprietaria, senza, però, rinunciare a toccare i limiti metodologici, che questa prospettiva porta inevitabilmente con sé, nel momento in cui il paradigma del capitalismo neoliberale segna una discontinuità qualitativa (e non di grado) rispetto ai precedenti paradigmi dell’accumulazione.

In tal senso la prospettiva marxista non può essere a nostro avviso mai abbandonata perché questa stessa è lo strumento indispensabile per svelare come il rapporto capitalistico sia costitutivamente fondato sull’iscrizione sociale dello sfruttamento. Tuttavia, questa stessa prospettiva, oggi più che mai, non è più sufficiente e non può più funzionare in senso teorico e politico (girerebbe a vuoto presa in una sorta di sacca melanconica), da un lato, se non assunta in tutta la sua potenzialità, e dall’altro se non contaminata con le riflessioni, che a partire dall’inizio del Novecento hanno caratterizzato la ricchissima e feconda storia del pensiero critico anticapitalistico.

Per dirlo in altre parole, quello che intendiamo qui sostenere è che il modo in cui l’ambito produttivo e quello riproduttivo, e/o quello tecnologico e ideologico, interagiscono tra loro disegna oggi un diagramma e un insieme di norme di esercizio del potere che non possono ridursi affatto a un movimento lineare e unidirezionale, e soprattutto questo diagramma è attraversato da una dinamica strutturale che non è mai chiusa una volta per tutte. Senza tener conto di questa complessità insaturabile, non si dà alcuna possibilità di interpretare il presente storico e sociale dello sfruttamento e soprattutto si rischia di cadere in una visione totalizzante del capitalismo che non ci appartiene e che non abbiamo, in alcun modo, voluto in questo testo evocare. Il metodo del comunismo se a questo vogliamo continuare a guardare, deve tenere in primis presente i termini di complessità di questi rapporti.

È importante quindi in tal senso ribadirlo ancora una volta: il rapporto, mai fissato una volta per tutte, tra sussunzione ed imprinting nel capitalismo, che è il nostro tentativo teorico e politico di intendere questa complessità e quindi di questo metodo, non chiude affatto il capitale in una fortezza inespugnabile, anzi ne mette in mostra contemporaneamente astuzie e fragilità. La logica della sussunzione, infatti, articolandosi necessariamente a una seconda logica (imprinting) aumenta da un lato la sua capacità di interessare la soggettività al piano di governo neoliberale ma al contempo espone il suo diagramma a un’ulteriore incrinatura da presidiare e ricucire continuamente, e che apre al contempo lo spazio per l’azione politica e la produzione del comune.

5. La logica dell’imprinting si costruisce, come abbiamo visto, a partire e per mezzo dalla produzione di forme di fascinazione delle soggettività, forme che si istruiscono a partire da una azione di riorganizzazione e frantumazione dell’immaginario collettivo dentro la fantasmagoria della merce. Tale fascinazione è però anche e soprattutto il frutto dell’operare del cosiddetto potere biopolitico e governamentale. In tal senso il nuovo discorso capitalista produce un soggetto che si crede indiviso e libero di agire come imprenditore di sé, mentre invece il suo campo di immaginazione, il suo desiderio, è fin da subito inserito, attraverso la generalizzazione di differenziati dispositivi di sollecitazione, nell’orizzonte di quella che si può definire, nel senso prima accennato, una soggettività spettrale.

In altri termini saremmo di fronte a una società che sfrutta, orienta e produce consenso (e valore) attraverso l’iscrizione del soggetto in un immaginario aperto ma predefinito che prodotto come possibilità e promessa, può poi essere illusoriamente ritagliato e declinato a seconda della propria particolare aspirazione libidica. L’imprinting sarebbe quindi possibile a partire dal formarsi per via mediatica del cosiddetto regno della merce. Questo spiega, inoltre, le ragioni profonde della necessità sia economica che ideologica, della produzione di libertà nel modello neoliberale e al contempo svela il meccanismo osceno di formazione (non senza resistenze) della soggettività iperegoica come prodotto ideologico del contemporaneo.

Ma allora che fare? Come è possibile, sovvertire un sistema che tra l’altro si pone anch’esso come costitutivamente sovversivo? Nel senso che sa incessantemente metabolizzare e fare proprie le mosse che l’azione critica continuamente gli rivolge? Come ha sostenuto Deleuze nel suo Foucault, ogni volta che si produce un mutamento nel capitalismo «si verifica forse anche un movimento di riconversione soggettiva con le sue ambiguità ma anche con le sue potenzialità». Occorre partire da qui, nel circoscrivere e coalizzare tutte quelle forme di agire che oggi si fanno smisurate rispetto ai criteri di commensurabilità vigenti.

Žižek ha inoltre sottolineato che il valore di una merce non si definisce attraverso la ponderazione di un ipotetico e sostanziale rapporto tra bisogno e uso (che è in continua ridefinizione e non oggettivamente determinabile) ma attraverso le relazioni che una merce intrattiene socialmente con le altre merci 1 Ne consegue che non è possibile predeterminare un’invariabilità dei valori d’uso e che al contempo ogni tentativo di costruire dei nuovi rapporti di produzione comporta necessariamente un’istituzione nuova dei valori di scambio, insieme ad uno spazio di produzione collettiva – e in taluni casi di salvaguardia – dei valori d’uso. D’altra parte, l’uscita che lo stesso Marx aveva indicato, e cioè quella in avanti, che prevede il superamento del capitalismo attraverso la crescente radicalizzazione delle contraddizioni e l’esasperazione dell’astrazione reale intrinseca allo sviluppo stesso del capitalismo, si è rivelata un’utopia pericolosa che non può che trovarci già tutti morti sulla sua ipotetica soglia. Quindi né ritorno deterministico e acritico al valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale – come in un certo senso gli accellerazionisti sembrano auspicare, ma costituzione di un essere in comune antagonistico rispetto a quello privato e deprivato del capitale.

Un essere in comune, capace di disincantare e smontare le scenografie fantasmatiche della merce, e quindi in questa tensione non solo sottrattiva ma anche moltiplicativa, da fecondare attraverso la progettazione di tempi e spazi capaci di sostenere la costituzione di una nuova dismisura soggettiva, fare un passo al di là, per indicare l’idea e la sintassi di un agire capace di assumere il plus-valore secondo inedite finalità sociali, al di fuori e oltre la logica dello sfruttamento. In fondo non si tratta che di creare un’opera d’arte collettiva. Una comune opera viva.

Note

Note
1Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, 2011.

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