Sul concetto di valore
Analitica e genealogia
Prendiamo le mosse da una premessa autoevidente del linguaggio comune. «Valore» è un termine polisemico in duplice senso. La sua polisemia è manifesta in ragione del diverso significato che il concetto di valore assume nei due ambiti in cui indiscutibilmente regna: l’ambito dell’economia e quello della morale. Si tratta di due ambiti distinti, ma per altro verso interconnessi: Adam Smith, il fondatore dell’economia politica moderna – la nuova scienza fondata sulla saldatura di due dimensioni che la cultura classica aveva tenuto ben distinte (l’oikos e la polis, lo spazio della produzione-riproduzione di beni di sussistenza e quello della praxis intesa come attività di governo della Città) per porre come fine e fonte di legittimazione di uno Stato non più la «vita buona» ma il benessere e the wealth of nations – teneva insieme i due insegnamenti della Political Economy e della Moral Philosophy. Ma la polisemia, in secondo luogo, è presente anche all’interno dello stesso ambito economico propriamente inteso: dove il concetto di valore assume significati diversi nella macroeconomia (o politica economica), nella microeconomia (o economia aziendale) e nella finanza.
Una volta fissati questi presupposti di partenza, occorre però adesso porre la questione della genealogia. In che modo, attraverso quali passaggi complessi, si è giunti a definire tramite il ricorso al concetto di valore quello che nel mondo classico era invece rappresentato, in autori quali Platone e Aristotele, dall’idea di arché: di un principio inteso al contempo come criterio-guida e «principato», come principio ordinatore oggettivo, indiscutibilmente superiore e universalmente riconosciuto? La tesi che intendo prospettare in questa rapida sintesi è che il passaggio dalla logica del Principio a quella del Valore ha innescato, a partire dall’età moderna, un’irreversibile tendenza dissolutiva e deoggettivante, rappresentata da una dinamica di progressiva soggettivazione della logica del valore. Vediamo allora di procedere con ordine, prendendo avvio dall’etimologia del termine.
Valòre è un termine tardo latino derivato dal verbo valere. Un termine che, riferito a una persona, indica il possesso di alte doti, capacità intellettuali e temperamentali. In questo senso, il termine è associato al lemma «virtù» che, derivato a sua volta dal latino classico virtus, ha il significato di «valore». Con questa accezione non «moralistica» il termine è, com’è noto, adoperato da Niccolò Machiavelli come sinonimo di potenza intesa come dotazione di «capacità»: il Principe di Machiavelli, per fronteggiare le alterne vicende della Fortuna, deve possedere Virtù, ossia essere «virtuoso» non in senso morale ma – se mi è consentita la battuta – nel senso del virtuosismo di un Leo Messi nel gioco del calcio (preferibilmente quando gioca con il Barça, piuttosto che con la nazionale argentina….). Ma facciamo un passo indietro nella genealogia. Nella Commedia di Dante Alighieri valere ha un analogo significato di capacità, energia, potenza: tanto umana quanto teologica e astrologica (cfr. Commedia, Paradiso, XXI, 15). «Vuoto di ogni valore» è espressione, in Dante, di impotenza mentale e caratteriale.
Ora, alle origini dell’economia politica moderna, il termine «valore» mantiene in sé questa semantica originaria della capacità: Il «valore d’uso» altro non è che la capacità-potenzialità di un bene di soddisfare un bisogno. E il «valore di scambio» coincide con il potere di acquisto di altri beni. Lessico dell’energia che Marx eredita integralmente – sia pure trasvalutandolo – dall’economia politica classica: il valore di una merce – ciò che di una merce «vale» – coincide con il tempo di lavoro (rectius: con la tangenza delle curve di energia e tempo di lavoro) in essa incorporato. Ma, ancora più precisamente, esso è la risultante della somma di tre fattori costitutivi:
(a) mezzi di pruduzione impiegati (capitale costante)
(b) forza-lavoro (capitale variabile)
(c) plusvalore (creato nel processo produttivo).
Modello sistemico complesso, si dirà. Indubbiamente. E tuttavia… E tuttavia non si tratta affatto, come pensava l’Althusser degli anni sessanta, di un «processo senza soggetto». In ogni passaggio dell’analisi strutturale di Marx si annida l’ «X-factor» della soggettività. Ogni valore implica il valutatore: sia come singolo soggetto sia come soggettività sociale. Sia come potenzialità individuale sia come soggettività sociale: contesto culturale-comunitario o agente strategico in grado di produrre criteri o parametri di valutazione-apprezzamento. Solo la relazione interfacciale tra soggetto e oggetto, produttori (forze produttive) e struttura (rapporti di produzione, intesi come rapporti sociali) è in grado di dischiudere i passaggi complessi attraverso cui il concetto di valore diviene chiave di volta dell’economia politica: ossia risultante delle operazioni di «stima» di una merce, nel suo duplice significato di oggetto o attività, «bene» o «servizio». Gli effetti indotti dalla logica del capitale assumono certo l’aspetto del «carattere di feticcio della merce». Determinano certo la parvenza di una relazione tra cose là dove abbiamo a che fare di una relazione sociale. Ma solo in quanto tutto ciò corrisponde a una logica di indifferenziazione che diviene costitutiva del sociale stesso: «Nel valore di scambio il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generale del lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest’ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è il tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall’altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce. È il tempo di lavoro del singolo, il suo tempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di lavoro»1.
Non è qui la sede per riaprire la questione del «corpo a corpo» ingaggiato da Marx con David Ricardo sulla teoria del valore-lavoro: querelle di lunga durata che ancora oggi ossessiona la scienza economica nel passaggio dalla «Political Economy» alla «Economics». Da questa disputa secolare vediamo tuttavia emergere due temi che hanno assillato il marginalismo, accentuando un processo di soggettivizzazione del valore. La posta in gioco di questo processo è rappresentata da due aspetti cruciali: il rapporto valore-prezzo e il rapporto merce-denaro. Relativamente al primo aspetto, va sottolineato che il valore non coincide con il prezzo, ma è la risultante della composizione delle due curve rappresentate dalla domanda e dall’offerta. Senonché tale composizione può restare su un piano puramente virtuale o meramente teorico, senza dar luogo a una relazione di scambio effettiva. La difficoltà di stabilire una corrispondenza tra valore e prezzo dipende, infatti, non tanto dalla presenza o assenza in quanto tale di un «mercato libero-concorrenziale» ma piuttosto dall’incidenza sulle logiche di mercato di asimmetrie informative. Per cui il prezzo perde di oggettività per riflettere – anche sulle dinamiche di mercato – elementi di «soggettività.
Riguardo all’aspetto del rapporto merce-denaro, un passaggio importante è stato rappresentato dalla Filosofia del denaro di Georg Simmel: un’opera che apre il XX secolo insieme all’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, facendo emergere una faglia sotterranea della dinamica del valore. Al pari di Freud, Simmel si presenta non tanto come uno «specialista» ma come un Kulturkritiker, un «critico della civiltà» al contempo «vicino e distante»2 . Ma andiamo al punto. Se Marx aveva individuato la crepa del sistema capitalistico nella insofferenza operaia verso la indifferenziazione, Simmel pone a tema la tendenza alla crescita esponenziale della differenziazione come nuovo terreno del conflitto nelle metropoli moderne. Ampliando la dialettica soggetto-oggetto di Marx nella sua idea della Wechselwirkung, dell’azione reciproca o come diremmo oggi «interazione» tra ambiti diversi della società, Simmel afferma – anticipando una tesi che Oswald Spengler avrebbe più tardi sviluppato nel Tramonto dell’Occidente – che la Zivilisation tecnica prevale sulla Kultur, dando luogo al dominio della esteriorità, al fenomeno della esteriorizzazione della vita. Nella vita metropolitana intelletto e denaro costituiscono un sistema dell’indifferenza che riduce ogni singolarità a numero, a quantità o tasso di rendimento oggettivamente valutabile. La metropoli è la sede dell’economia monetaria in cui si genera il fenomeno della oggettivazione della vita. Ma è anche lo spazio in cui ha luogo l’insorgenza di una differenziazione sociale che innesca un conflitto incomponibile. Dentro questa nuova dimensione del conflitto il valore viene a perdere ogni residua parvenza di validità universale, finendo per soggettivizzarsi.
Negli stessi anni Max Weber, con la sua riduzione del valore a «giudizio di valore» e dunque a decisione soggettiva, registrava e trasferiva sul terreno economico e sociologico la crisi dei fondamenti sancita definitivamente dal pensiero di Nietzsche. Lo spirito del capitalismo non era più quello del protestantesimo ascetico delle origini. L’imprenditore capitalistico aveva abbandonato il mantello sottile dell’innovazione per affidarsi alla gabbia d’acciaio del disciplinamento burocratico e di una razionalizzazione fondata sul mero calcolo. Ma proprio così aveva generato una forma di conflitto endemica e incontrollabile: il conflitto di valori 3.
Nella temperie che ho rapidamente descritto si colloca il tema della «tirannia dei valori», introdotto da Carl Schmitt in un intervento a un seminario organizzato a Ebrach dal suo allievo Ernst Forsthoff e poi pubblicato otto anni più tardi4. In questo importante saggio, che risente fortemente dell’impostazione di Max Weber e della sua concezione del «politeismo dei valori», Schmitt sottopone il concetto di valore a una critica radicale, sottolineandone l’uso e l’abuso in un linguaggio politico ormai appiattito sulla logica dell’economia. Si tratta tuttavia di una logica ormai esplosa. Il carattere sempre più pervasivo di un lessico monopolizzato dal rimando al valore ha condotto a un «eterno conflitto dei valori e delle visioni del mondo», al cui confronto il vecchio bellum omnium contra omnes che contrassegna lo stato di natura della filosofia politica di Thomas Hobbes si presentano ormai come degli «autentici idilli»5. La radice del conflitto risiede in una inesorabile tendenza alla perdita di oggettività dei referenti valoriali: il valore non è più oggettivo ma sempre più soggettivo. Ossia «il valore non è, ma vale». E ciò che vale non esiste mai di fatto, ma deve piuttosto «essere posto in atto» attraverso una decisione. Ai contemporanei tentativi della «filosofia dei valori» di fornire al valore un fondamento oggettivo, Schmitt contrappone la radicalità del disincanto weberiano che, riallacciandosi a Nietzsche, lacera il velo dell’oggettività facendo emergere il carattere soggettivo degli assunti di valore.
Discende di qui una lettura drammatica – e in rotta di collisione con le interpretazioni armonizzanti – del Wertpolytheismus di Weber: lungi dal coincidere con una forma di pluralismo o relativismo, esso segnala un conflitto mortale, un terreno di scontro incomponibile in cui la logica del valore può «valere» e affermarsi solo svalutando gli altri valori. A dispetto di quanto sostengono gli approcci meramente epistemologici o metodologici alle tesi weberiane, le assunzioni di valore non rappresentano dei «punti di vista», ma piuttosto dei «punti di attacco»6. L’impostazione schmittiana, benché elaborata con la finalità di smascherare la natura polemogena del ricorso alla dimensione morale come principio-guida della politica, è in grado di gettar luce sulle attuali vicende dell’economia. La logica del valore – ossia del valutare e dello svalutare – nell’odierno scenario del neoliberalismo globale si presenta come una vera e propria logica di potenza: come una prosecuzione con altri mezzi (i mezzi dell’economia e della finanza) delle vecchie guerre coloniali.
Note
↩1 | K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1976, p. 14. |
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↩2 | L’espessione è di J. Habermas, Georg Simmel su filosofia e cultura, in Id., Testi filosofici e contesti storici, Laterza, 1993, p. 165. |
↩3 | Cfr. M. Weber, Il politeismo dei valori, Morcelliana, 2010. |
↩4 | C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte, Kohlhammer, 1967. Faremo qui riferimento all’edizione italiana: La tirannia dei valori, a cura di Giovanni Gurisatti, con un saggio di Franco Volpi, Adelphi, 2008. |
↩5 | C. Schmitt, La tirannia dei valori, cit., p. 50. |
↩6 | Ibidem, pp. 55-56. |
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