Forza lavoro, futura umanità

L'intuizione folgorante di Karl Marx

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Claire Fontaine, MECW Karl Marx-Frederick Engels Collected Works brickbats, 2016.

Pubblichiamo un estratto della relazione che verrà presentata al convegno 200 Marx. Il futuro di Karl, al Museo Macro di Roma, dal 13 al 16 dicembre. Qui il sito dell’iniziativa

La base materiale di una nuova politica non è la coscienza, il popolo, lo Stato, o i mercati, ma quella materiale, storico-tecnica ed etica della forza lavoro. La forza lavoro è una facoltà comune a tutti gli esseri umani e consiste nella produzione di tutti i valori d’uso. Ecco l’intuizione folgorante di Karl Marx: prima viene la forza lavoro, poi il lavoro. Prima le classi, poi il capitale.

Mai come oggi il concetto del lavoro è stato usato in maniera così totalizzante. Mai il valore della forza lavoro è stato così trascurabile. Perso è un significato condiviso del lavoro, oscuro è il nome di ciò che siamo: forza lavoro. Questa situazione ricorda il barone di Münchhausen che riuscì a sottrarsi dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli. Allo stesso modo sembra che il lavoro si produca da solo, le merci appaiano misteriosamente nelle nostre case, il denaro sia l’incarnazione di un algoritmo.

Al lavoratore, che pure lavora, si dice che la sua attività non ha un significato oltre la mera esecuzione. Il significato lo trova il padrone, al servo è negato il senso del lavoro che nasce lavorando. È il datore di lavoro che decide cosa è, e cosa non è, la sua forza lavoro. Lui esercita il potere di dare o negare un nome, oltre a quello di decidere sulle mansioni o sullo stipendio. È lo spartito solfeggiato ovunque: il lavoro è privato dalla sua forza, non ha un soggetto in carne ed ossa. L’unico soggetto è l’astrazione del lavoro. Questo ribaltamento, sottile come tutte le metafisiche, ha imposto un ordine del discorso: oggi parliamo di lavoro senza parlare della condizione che lo rende possibile, la forza lavoro.

In Forza lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale ho raccontato come nel capitalismo delle piattaforme oggi la forza lavoro sia intesa come un fantasma materialmente operativo. Per descrivere questa condizione è stata proposta l’immagine della scatola nera (black box labour). L’associazione è suggestiva, ma limitata a una metafora. La scatola nera registra i dati o le conversazioni tra i piloti, resiste agli urti, al fuoco e all’alta pressione. Il suo «lavoro» permette di ricostruire le ragioni di una catastrofe e ristabilire retrospettivamente le responsabilità grazie a una memoria oggettiva. Così farà il lavoro quando sarà scomparso: conserverà il ricordo di ciò che è stato. La forza lavoro è invece la facoltà che alimenta circuiti e automatismi in tempo reale, è la capacità che permette di produrre una merce e il suo valore.

L’associazione tra scatola nera e forza lavoro resta tuttavia valida in un’epoca in cui le condizioni materiali della produzione e della riproduzione della forza lavoro sono rimosse ed è consolante immaginare che le automobili potranno un giorno, forse, guidarsi da sole senza il decisivo apporto di un essere umano. Allora non resta altro che registrare il fatto che la forza lavoro è il risultato dell’interazione tra le macchine, mentre in realtà è la condizione affinché tale interazione esista.

Forza lavoro sempre in attività

La forza lavoro non è evidentemente scomparsa nei flussi automatizzati e silenziosi governati dagli algoritmi. Le donne e gli uomini continuano a lavorare, lo fanno sempre di più e sempre peggio. Anche nel caso di una sua eccedenza strutturale rispetto alla domanda di lavoro, la forza lavoro non resta mai inoperosa. Che sia inclusa o scartata, bandita, non valorizzata e perseguitata, è una facoltà sempre in attività. Questo spinge le moltitudini che vivono nella zona grigia tra il lavoro e il non lavoro a muoversi, a varcare confini e a restare ostaggio di una trappola cognitiva: pur ambendo a un’occupazione remunerata e tutelata questa forza lavoro è percepita come una massa al lavoro, mere braccia da fatica da impiegare, non come un individuo sociale e collettivo. Il riaffiorare di condizioni impensabili, almeno nei paesi capitalistici, di deprivazioni materiali e marginalità assolute rafforza questa percezione e, in più, sottopone la riproduzione della forza lavoro a percorsi vincolanti che ne penalizzano gravemente l’esistenza materiale e quella etica.

Il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione – sono l’esito di un’egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili. Pur essendo forza lavoro, agiscono come se fossero assenti davanti ai propri occhi. Il rovesciamento della percezione, e l’incapacità di dare un nome e un volto a questa condizione fantasmatica, è l’effetto di un violento contraccolpo provocato dal cambiamento, e dal ridimensionamento, delle due principali culture del lavoro nel Novecento. Quella marxista che ha considerato la forza lavoro come il terreno primordiale sia dell’antagonismo che della cooperazione tra individui, del conflitto e della solidarietà. E la cultura liberale del contratto di lavoro, sostituita da una continua rimodulazione della prestazione salariata in base alle esigenze commerciali delle imprese.

Sul campo sono rimasti i profeti che annunciano un futuro nuovo di zecca e chi rimpiange l’età dell’oro dove il lavoro sarebbe servito a soddisfare i bisogni e a realizzare la dignità della persona. Sono due idealismi contrapposti: i primi predicano la scorciatoia del divenire tutti imprenditori, auspicando una nuova forma di incarnazione del capitale nell’individuo; i secondi delimitano le lotte dell’operaio-massa avvenute in una frazione del XX secolo (1945-1973) e le eleggono a verità della Storia. Su questa base predicano il ritorno a un lavoro angelicato, dove la persona ritrova la propria dignità, uno stato ideale lontano dallo sfruttamento, come se il lavoro non fosse già in sé uno sfruttamento. Da un lato, si vincola la soggettività all’Impresa, idea regolatrice dell’esistenza; dall’altro lato, si antepone il Lavoro astratto alle donne e agli uomini che concretamente lavorano. In nessun caso la forza lavoro è considerata come una facoltà, parte di una vita libera di esprimersi oltre la razionalità capitalista.

Capitale disumano

Oggi la forza lavoro è prigioniera di un paradosso. La si vuole liberare evocando un rapporto soggettivo con il lavoro «creativo» o sacralizzando l’attività professionale come se fosse un’opera d’arte. E tuttavia il suo lavoro è considerato un residuo archeologico in cui è impossibile identificarsi. La condizione del lavoratore contemporaneo si muove tra un’ingiunzione morale alla soggettività e la gestione strumentale della sua forza lavoro. La sua vita è scandita da due polarità simmetriche: l’iper-lavoro e il sotto-impiego. Al netto della disoccupazione e della povertà assoluta, sono queste le forze centripete e centrifughe di un unico processo di subordinazione. Istruzione, mercato del lavoro e dell’arte, la scuola e il mercato del lavoro, i diritti e la politica, tutta la vita sono immersi nel capitale umano, il caposaldo della società dell’iper-mercato.

La forza lavoro non è riconosciuta come una facoltà che produce una ricchezza per chi la possiede, la vende o l’affitta: il lavoratore. Tale facoltà è identificata con il capitale a cui è attribuita un’istanza superiore dell’essere: l’umanità. In Capitale disumano, la vita in alternanza scuola lavoro, la seconda parte della filosofia della forza lavoro a cui sto lavorando, ho delineato i termini della nuova filosofia morale. L’umanizzazione del capitale è la premessa per amare il mondo. Aspirare al profitto significa agire per il Bene. Questo discorso comporta una naturalizzazione dell’idea di impresa e la sua trasformazione in una favola a sfondo filosofico. Da organizzazione gerarchica, l’impresa è diventata un imperativo morale che guida l’operosità di un individuo considerato imprenditore di se stesso. L’esternalizzazione prima, il divenire-impresa delle attività umane poi, hanno vincolato il soggetto a un’identificazione impossibile. L’ingiunzione a diventare soggetto-impresa ha bloccato tutte le possibili individuazioni, fissando il soggetto nel lutto di chi può realizzarsi solo in ciò che lo nega.

Un’organizzazione composta da più individui, proprietà e commerci come l’impresa non può essere contenuta in un unico individuo. Possedere un capitale significa gestire fondi, organizzazioni, infrastrutture e coordinare persone, non inghiottire un’astrazione impersonificando le sue fattezze ideali. Al mondo sono in pochi a possedere capitali, qualcuno in più crede nella fortuna che un giorno arriderà al popolo degli imprenditori. Tutti devono scendere a patti con un fatto: solo la forza lavoro delle donne e degli uomini permette a un’impresa di esistere, non il contrario. La forza lavoro è l’unica facoltà che un imprenditore non può possedere. La può acquistare, licenziare, disciplinare, ma mai possederne la facoltà e le sue potenzialità. E invece il lavoratore si trova costretto a desiderare il possesso di quello che non avrà mai. Egli non possiede ciò che ha – la forza lavoro – ma si identifica nella proprietà altrui – il capitale – pensando invece che sia il proprio e per di più umano.

Questo strabismo è l’effetto del rovesciamento delle caratteristiche della forza lavoro contemporanea nel loro opposto. Si afferma formalmente la libertà, l’autonomia, la cooperazione, l’auto-determinazione, il desiderio. Questi elementi coincidono materialmente con l’auto-sfruttamento e l’auto-assoggettamento. Il desiderio di essere liberi e autonomi nel praticare la propria vita si traduce nella volontaria subordinazione a un imperativo che ne nega la potenza. L’ottimizzazione del capitale umano dovrebbe produrre la felicità del soggetto e la liberazione dal lavoro nell’epoca dell’automazione mentre, invece, porta alla miseria politica, economica e affettiva.

L’intuizione folgorante di Marx

Per provare a uscire dal circolo vizioso che alimenta la rivoluzione passiva in corso è necessario ribadire una duplice distinzione. Forza lavoro e lavoro non sono la stessa cosa, così come non lo sono forza lavoro e capitale umano. Oggi sono parole usate in maniera intercambiabile. Forza lavoro è la facoltà, o capacità lavorativa, che appartiene al singolo al di là del lavoro svolto. Essa conserva, crea, aumenta un valore ed è prodotta dalle donne e dagli uomini, in carne ed ossa. Il lavoro è l’estrinsecazione di questa facoltà e la sua oggettivazione in una merce che appartiene a chi l’ha acquistata. In una società capitalistica l’attività della forza lavoro è finalizzata alla produzione del lavoro-merce. Tuttavia questa non è l’unica possibile finalizzazione di una facoltà che può essere usata per affermare la vita in quanto mezzo di se stessa e non solo come oggetto del contratto, strumento del lavoro e del capitale umano.

La distinzione tra lavoro e forza lavoro è decisiva per affrontare il paradosso in cui ci troviamo. Partiamo dalla lingua che usiamo. In italiano abbiamo una sola parola per indicare cose diverse: il lavoro come impiego o prestazione, oggetto o merce di una produzione «alienata» o «sfruttata», e il lavoro come espressione della parte più «autentica», «dignitosa», in cui la persona trova la propria realizzazione. Il tedesco permette di sciogliere questo nodo. Marx parla di Arbeitskraft: forza lavoro. Questa parola indica il processo o l’operazione che porta alla produzione di un oggetto, non il risultato di un lavoro (cioè Werk, in tedesco, o Work in inglese). La forza lavoro è l’attività di una produzione effettiva in corso, considerata nell’atto di dirigersi verso uno scopo che non ha ancora raggiunto.

Si rovescia così la logica che considera il prodotto finale più importante del processo necessario per produrlo. L’atto della produzione è un momento del divenire, non la sua principale finalità. Arbeitskraft si riferisce a ciò che è invisibile, il processo, ma non lo riduce a un oggetto: il lavoro-merce. Non si tratta di preferire l’uno all’altro, ma di comprendere la dialettica che lega termini diversi nello stesso concetto: da un lato c’è la potenza [Kraft], dall’altro lato c’è il processo del lavoro [Arbeit]; davanti, e contro, c’è il lavoro [Werk]. La forza lavoro si vende ed è ridotta a merce. Ma non per questo si esaurisce. Si riproduce come potenza, si sviluppa come processo, crea il plusvalore. Se non lo facesse, saremmo tutti morti.

La forza lavoro – posseduta dal lavoratore e, in generale, da tutti gli esseri umani – è la facoltà del lavoro vivo. Per questa ragione è quella specialissima «merce» ricercata dal capitalismo. Senza la quale il capitalismo non può dirsi tale. Senza la quale non esiste nemmeno il conflitto di cui esso è il prodotto. La forza lavoro è uno scrigno che contiene una potenza ed è la facoltà più importante della vita attiva. Per il capitalismo è la «merce» più preziosa. La sua origine non è la mercificazione di una capacità, ma l’essere potenziale di una vita. La forza lavoro come espressione del corpo-mente individuale e collettivo è l’assunto iniziale per tornare a interrogare la folgorante intuizione di Karl Marx.

Una prospettiva politica

Il vuoto che una filosofia della forza lavoro affronta nel dibattito teorico e critico è ancora, se è possibile, maggiore in quello politico. Oggi si torna a parlare in maniera insistente di «lavoro». Questa riscoperta coincide con l’allargarsi pauroso delle diseguaglianze e con l’impoverimento provocato dalla messa al lavoro di una vita per di più precaria, indebitata e senza tutele. Il «lavoro» è considerato la leva per rilanciare la produttività, la domanda, i consumi in un ciclo capitalistico che lo ha dapprima precarizzato e poi occultato.

Sempre che sia possibile ristabilire la centralità che aveva raggiunto il lavoro salariato nel ciclo fordista, e non è affatto detto, in questo mantra sul lavoro si perde di vista la libertà dei soggetti. Conta di più il diritto al lavoro qualunque che il diritto alla scelta di un lavoro. Da punti di vista opposti, la prospettiva neo-socialista e quella neo-liberale convergono almeno su un punto: l’essere umano va messo al lavoro perché nell’attività produttiva la persona riscopre un senso della vita e un’utilità economica. Salvo poi scoprire che il lavoro a cui è attribuito un ruolo di redenzione da uno stato di bisogno è un’attività che moltiplica occupazioni occasionali sempre meno retribuite. Scavare buche e ricoprirle, oppure obbligare una persona a seguire i programmi delle politiche attive per ottenere in cambio un reddito, sono politiche del dominio, non della liberazione. Questo lavoro non porta a una redenzione, ma alla povertà, alla servitù volontaria e alla frustrazione.

L’idea stessa che la forza lavoro sia invece un esercizio di libertà e autodeterminazione continua a latitare. Questa rimozione deriva da un’antica credenza: il lavoro, e non la produzione capitalistica di plusvalore, è una «forza creatrice soprannaturale» capace di generare ogni forma della ricchezza. Oggi più che mai il lavoro è invece un’attività che nega la sorgente della forza lavoro. Non accorgersi della differenza politica e concettuale tra il lavoro-merce e la forza-lavoro porta a identificare la persona con il lavoro che la aliena.

Una filosofia della forza lavoro parte, invece, dalla «personalità vivente» delle donne e degli uomini che lavorano, e non lavorano, non dalla concezione del lavoro – sia esso «merce», «persona» o «capitale umano». Questa filosofia affronta la duplicità costitutiva della forza lavoro – potenza in un soggetto in carne e ossa e astrazione della merce in una produzione – e formula la tesi di un diritto di esistenza basato sull’inscindibilità della forza lavoro con la potenzialità dell’essere umano, sull’indivisibilità della libertà e dei diritti con il potere dei molti. Il diritto di esistenza è la lotta per affermare una vita sulle basi delle facoltà che la rendono viva – intellettuali, pratiche, linguistiche, corporee, psichiche e cooperative – e sono irriducibili a identità biologiche o politiche caritatevoli. Il diritto di esistenza «eccede la nuda vita», non rimanda a una sfera della mera sopravvivenza e non va ristretto nemmeno a una dimensione economica puramente redistributiva. La ricerca della dignità e dell’autonomia si afferma a partire dalla forza lavoro, considerata come la facoltà delle facoltà che esprime tanto la «personalità vivente» del singolo, quanto una possibilità universale e comune.

La forza lavoro è di tutti, di ogni individuo e di tutti i popoli, va protetta e liberata, reinventata, curata e inclusa. Il suo diritto all’esistenza va reso effettivo attraverso il reddito di base e di autodeterminazione, la libertà di parola e espressione, la libertà dal bisogno e dalla paura, l’amore verso di sé, degli altri e per la futura umanità.

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