Un archivio dell’iconoclastia

Intervista a Pedro G. Romero

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Pedro G. Romero, Collage per il Daybook Documenta 14, (2017)

Pedro G. Romero (Aracena, Huelva, 1964), vive e lavora a Siviglia. Artista, svolge un’attività interdisciplinare tra pittura, scultura e curatela. Il progetto FX Archive è stato esposto in diversi musei, con il progetto La Farsa Monea (2017), insieme a Niño de Elche e Israel Galván, è stato invitato a dOCUMENTA14.

1) L’ Archivio F.X. è un archivio dell’iconoclastia anti-clericale esistita in Spagna tra il 1845 e il 1945. Ogni immagine è registrata con il nome di un artista, di un movimento o di un avvenimento storico. Inoltre molte immagini vengono associate ad un apparato linguistico che ne aiuta la contestualizzazione e accresce le informazioni. Perché strutturare questo macchinario associativo e generativo attorno all’iconoclastia e che significato ha parlare oggi di iconoclastia? Possiamo considerare l’iconoclastia come potere e capacità di dare la morte oppure paradossalmente diventa, con il passare del tempo, un atto di creazione di immagini?

Chiariamo alcune cose. Quando fu creato l’Archivio F.X. nacque come una parodia. Si chiama F.X. proprio perché è l’Archivio, il Museo, l’Arché che ha trionfato come apparato culturale. La questione allora era di costituire un database che non avrebbe fornito alla polizia le informazioni per il loro lavoro. Non si tratta di ricolonizzare degli spazi persi, i resti della memoria, quelli dimenticati. L’arte spesso compie la sua funzione avanguardistica in questo senso: l’arte esplora il subconscio in modo che gli psicoanalisti possano successivamente metterlo a tacere o ammaestrarlo; l’arte è entrata nelle periferie più pericolose per fornire ai tour operator nuove rotte da vendere; l’arte riabilita ciò che vive in centri urbani decadenti e offre al capitale la maniera più semplice per mettere in opera la gentrificazione. In questo senso il metodo, diciamo rousseliano, a cui stavo lavorando e che stavo adottando in quel momento in workshop e laboratori mi è sembrato il diversivo più adatto ad indurre in errore e a sviare le indagini della sbirraglia.

Naturalmente, l’operazione mi ha permesso non solo di parlare di ciò che si perde, ma piuttosto di stabilire altre operazioni in cui l’immagine, il suo aspetto, la scomparsa e ricomparsa erano l’albero dal quale le ramificazioni di significati ulteriori si diramavano. Chiaramente, da un lato ho dovuto mostrare la storia sconosciuta dell’iconoclastia in Spagna, soprattutto dal versante libertario, ma anche quella iconoclastia derivante da altre circostanze e soprattutto l’enorme portata dell’iconoclasta in un paese cattolico, tanto enorme che è stato quasi impossibile non cercare di capire come vi sia qualcosa che funzioni bene nell’iconoclastia, sia nella logica della Controriforma che della Riforma.

Studi sull’iconoclastia come per esempio Iconoclash nel caso di ZKM hanno mancato il bersaglio proprio perché non si sapeva bene cosa e come fare. In un regime culturale cattolico tanta violenza contro le immagini sacre, anche considerando sullo sfondo la forte presenza del comunismo libertario, non era spiegabile e hanno scelto la fottuta narrazione della Scienza, dell’incompatibilità del mondo dell’immagine e del mondo spiegato dalla Scienza, come se la Scienza non colonizzasse anche essa il mondo proprio per mezzo delle immagini! In ogni caso, in effetti, quello che mi ha permesso, credo, questa esplorazione è stato il fatto di trovare, di elaborare degli strumenti in cui la gestione delle immagini, la loro costruzione e distruzione, siano fatte da un regime di conoscenze della struttura delle immagini stesse. Questo regime di conoscenza delle iconoclastie non deriva quindi dall’anicoismo ebraico o islamico, né dal puritanesimo protestante, né deriva dallo spiritualismo shintoista, ecc., deriva invece dalla potenza stessa che le immagini riescono a trovare al loro interno, dove risiede il loro proprio modo di essere al mondo. Chi portò e celebrò le immagini sacre in processione durante la Settimana Santa, furono poi gli stessi che le bruciarono nei giorni frenetici della rivoluzione, le stesse persone! Naturalmente, è interessante comprendere questi processi e avere questi strumenti in un mondo in cui le immagini ci governano e ci gestiscono.

2) L’archivio non ha un’essenza immutabile e una struttura fissa. Piuttosto vi è una movimento dei documenti d’archivio, attraverso un sorta di forma-atlante in continua mutazione, che cerca di volta in volta di generare nuove relazioni, conciliando elementi apparentemente distanti. Allora in che senso, partendo dall’archivio, si può montare una sorta di riformulazione degli elementi e delle storie esistenti?

L’Archivio F.X. è un fondo, una raccolta, è un catalizzatore di conoscenze. Lo sono le tessere del thesaurus, gli elementi concreti, le associazioni di parole e di immagini e naturalmente con questi si opera in vario modo. E da quasi 20 anni si lavora ad associazioni indicibili-inedite, quindi è molto più di quello che potrebbe essere fatto in un solo modo, seguendo o indicando una sola strada, invece molte e molto diverse sono le vie, a seconda del momento, delle condizioni del lavoro e da quello che ci attrae poeticamente e politicamente in ogni momento. Queste immagini, thesaurus e parole, funzionano come una cassetta degli attrezzi, sì, qualcosa, relazioni, legami, qualcosa che viene da ciò che ciascuno dà anche interpretando.

Si noti che, in questo momento, l’Archivio F.X. si è aperto a diversi artisti xhe lavorano sui suoi materiali. Ora, alla Biennale di Göteborg, troviamo il lavoro dell’egiziano Bassam El Baroni, della palestinese Doris Hakim, del marocchino Yassine Chouatti, dei saharawi di Equipe Media… ovviamente, ci sono delle domande specifiche, una ricerca sull’Islam e la sua cultura. Il processo in corso si sta dimostrando intenso, quello che appare, le cose che dice, quello che si attorciglia nel cuore dell’ Archivio F.X. e, in questo senso certamente, è una nuova formulazione di senso.

3) Nella tua intervista a Georges Didi-Huberman parlate del fatto che, per montare le immagini, è necessario comprenderne il funzionamento, scordandosi di quel che sono. Inoltre, Georges Didi-Huberman suggerisce di considerare ciò che accade in psicanalisi dove vengono attuati gli «assemblaggi interpretativi», ossia i tentativi di unire due cose molto distanti per generarne una terza che è il segno di ciò che stiamo cercando. Si tratta in qualche modo di una forma nuova del metodo paranoico-critico di Dalì?

È vero che ho studiato e ammirato il metodo paranoico-critico e penso che Dalì, formulando questo concetto, abbia realizzato il suo lavoro migliore. Un concetto che trova prossimità in Lacan quando formula una lettura «cattolica» del subconscio che Freud aveva scartato in virtù dalla legge mosaica. In questo senso i riferimenti psicoanalitici di Didi-Huberman sono più interessanti, ma la chiave, credo, per capire l’idea di montaggio, di sequenze, di associazioni, viene da Eisenstein, dal cinema sovietico, dal collettivo FEKS, da Kuleshov e così in questo modo si comprende quanto queste ispirazioni delle avanguardie furono importanti per i primi lavori dell’ Archivio FX. Infatti l’Archivio si trova nella zona culturale propria del formalismo russo, Viktor Slovsky, Batjin, Propp, dove l’indagine del subconscio risultò più fruttuosa, almeno nella comprensione delle immagini. Da qui deriva un certo produttivismo in cui, come diceva Slovsky, ciò che conta delle cose non è quello che sono, ma piuttosto come funzionano. In realtà è un recupero dell’uso, dell’utilizzo delle immagini. Quello che si fonda attraverso l’archivio, ovviamente, è una messa in comune, una collettivizzazione di immagini che non è la stessa dell’esproprio da parte dello Stato.

Questo recupero delle immagini, al di là della loro essenza, è ciò che consente la loro distruzione e, chiaramente, anche la loro riapparizione. Costruire, apparire, sparire, distruggere, decostruire, e ricostruire è il DNA biologico delle immagini in quanto le immagini diventano esseri viventi, hanno il proprio DNA. Warburg ne capisce bene il funzionamento, il Pathosformel diventa la comprensione liturgica del funzionamento delle immagini e non la sua essenza teologica. La seconda, ovviamente, affrontata, richiede la sua distruzione. Ma la sua liturgia riappare qui e là, allora è quel funzionamento che dobbiamo fare nostro. Il détournement situazionista aveva quella funzione, ma devo dire che nella cultura popolare andalusa questi strumenti sono stati e sono in uso da molto tempo.

4) Sempre all’interno della medesima intervista, mi ha incuriosito molto il passaggio in cui sottolinei l’importanza delle mancanze e dei vuoti all’interno di un archivio, giungendo paradossalmente a considerare più utili gli archivi che non sono archivi, bensì «anarchivi». Vorrei riproporti questa tua considerazione e parlare di anarchivi, riconsiderando anche l’Archivio F.X. alla luce di questa tua visione…

Per la verità, il fatto più controverso in assoluto è l’usura che la parola Anarchivio ha sofferto nella retorica artistica contemporanea. Si tratta semplicemente di alcuni archivi dell’anomia, del rifiuto dell’archivio con quella «A» come prefisso che lo nega. Ma in realtà io mi sono riferito alla radice comune di archivio e anarchia, un archivio che, cosciente di essere luogo di potere, scarta a lato e schiva quel principio ordinante delle nostre società, quindi un diverso archivio si realizza tra la visione dello Stato e la visione dell’anarchia; lo scarto si realizza proprio con la negazione del principio di governance. Il minimo, ovviamente, quando si opera con un archivio è capire che c’è un principio di governo, un principio di potere nel lavorare con l’archiviazione, l’organizzare porta necessariamente in sé una pulsione di comando ordinatrice. Solo mantenendo coscienza di questo dato avremo conoscenza dell’apparecchio, del dispositivo e solo conoscendo lo strumento potremo tentare di smontarlo. Un archivio, anche se eliminato, continua a funzionare come un sistema di organizzazione delle cose perché la sua essenza non è in ciò che conserva, cose segrete o perse rispetto a cose conservate, ma la sua tassonomia, la sua modalità di funzionamento e il suo modello organizzativo della realtà. La Biblioteca di Alessandria, per esempio, vive ben oltre il suo incendio e questo vivere oltre è ciò che poi veramente ha impregnato l’opera di Borges che ne ha capito perfettamente il funzionamento come mitopoiési e lo ha parodiato, assimilato, trasformato, anche oserei dire, lo ha liberato e aperto a nuove funzioni.

5) Allontanandoci dal tema dell’archivio, Giorgio Agamben ha chiarito ultimamente come il termine greco oikonomia sia entrato all’interno del discorso teologico a partire dal II secolo d.C. Questa intrusione portò i teologici a introdurre una distinzione tra un logos della teologia e un logos dell’economia. Dio fu così suddiviso in: «essere e azione, ontologia e prassi. L’azione (l’economia, ma anche la politica) non ha alcun fondamento nell’essere: questa è la schizofrenia che la dottrina teologica dell’oikonomia lascia in eredità alla cultura occidentale». Ancora più importante è la traduzione del termine greco nell’equivalente latino: Dispositio, da cui deriva il termine «dispositivo». Così il dispositivo è una forma di governo senza essere. Nella tua ricerca artistica si incontrano spesso i termini religione ed economia, quest’ultima a volte vista come una nuova forma di religiosità. Qual è il tuo pensiero a riguardo?

Devo dire che il mio rapporto con l’opera di Giorgio Agamben è intenso, almeno costante. Il mio incontro col suo lavoro è stato casuale. Improvvisamente e finalmente qualcuno parlava di Benjamín e Debord senza apparente contraddizione in termini mentre a me la critica muoveva accuse di bizzarria perché li tenevo insieme. Questo era già alla fine degli anni Ottanta, cioè, anche prima delle sue opere più importanti, prima del ciclo di Homo Sacer. Poi c’è una mia storia dell’inizio degli anni Novanta, un corso che ho fatto con Agamben a Siviglia. Poi ancora l’ho invitato a un seminario e, infine, per me è sempre stato un modello di archeologia e ho seguito da vicino il suo lavoro in quanto, a mio avviso, il parallelismo e l’interesse delle sue ricerche coincideva con le mie. Ovviamente Agamben ha preso sul serio, come ho fatto anch’io, la formulazione di Walter Benjamin, ossia che il capitalismo funziona come religione. Considera che, in Spagna, Benjamin lo introduce Jesús Aguirre che è stato prima sacerdote e poi duca d’Alba e quelle genealogie pesano non poco quando ci accostiamo alla lettura. Ad esempio, è stata una gioia vedere come Agamben trattava, qualche anno più tardi, il lavoro di Hugo Ball colui che fin dall’inizio ha reso evidente questa profonda relazione tra teologia ed economia, l’estensione e l’organizzazione della liturgia. Per me la sua Critica dell’intelligenza tedesca è un libro di importanza capitale. La mia incredulità di fronte alla modernità dell’avanguardia proviene proprio da lì. Vedere come spesso l’avanguardia artistica, come diceva Ball, mentre annega nelle confutazioni teologiche, attua la peggiore liturgia collaborazionista con il capitalismo stesso e ne costituisce in tal senso l’avanguardia più radicale.

Dobbiamo tentare una maggiore comprensione del dispositivo arte per operare più correttamente al suo interno. Purtroppo la confusione tra il display e il dispositivo non smette di essere ancora oggi il più grande malinteso nel campo dell’arte. Ovviamente il display consente di vedere il dispositivo, lo rende trasparente, questo deve dunque diventare un’operazione critica. Eppure, tutto non è altro che un’operazione cosmetica. Tutta questa arte politica di tipo pop altro non è che ricombinazione di immagini e propaganda. Il détournement dei situazionisti non era solo la ricombinazione e la sottrazione di immagini, si trattava anche di alterare la sua presentazione e convertire la sua alterazione delle cose in qualcosa di sospettoso e pericoloso.

6) Nel tuo scritto per l’esposizione Don Dinero dos, presso la galleria Casa sin Fin, si parla della tensione libidinale del denaro. Paul B. Preciado considera la pornografia come paradigma di ogni altra industria culturale poiché si basa su una sequenza ricorrente di eccitazione-capitale-frustrazione-eccitazione-capitale. L’economia vive sempre più grazie a questa produzione erotica e psichica dei bisogni. In questo contesto il mercato dell’arte è sicuramente uno dei produttori più abili, creando denaro imperante ed eccitazioni consumistiche crescenti…

Infatti, in questo senso, come ho detto prima, spesso l’arte è l’avanguardia del capitalismo, il suo primo alfiere, abbiamo bisogno di conoscere i pericoli degli strumenti con cui lavoriamo, almeno questo, perdere quella innocenza che unisce attività artistica con l’immaginazione, la liberazione, le anomie, in breve, sapere, essere consapevoli che lavorando in arte scherziamo con il fuoco.

Ma bisogna anche considerare che nelle origini della cultura moderna in una certa data, nel Trecento, in verità anche prima e da quel momento anche dopo, nella stessa area del mondo, tra la Provenza e l’Italia settentrionale, appare allo stesso tempo il denaro come forma di finanza, con un nuovo modello di valore sotto forma di cambiale, cartamoneta, documenti, ma anche l’amor cortese, i trovatori, Petrarca, Dante, la secolarizzazione dell’amore divino da parte dei mistici musulmani e, allo stesso tempo, l’arte, l’attività artistica come l’intendiamo oggi in fondo, non solo come punto di vista, prospettiva, diciamo come la finestra per l’autonomia, il far apparire le immagini e governarle. Dobbiamo capire che l’arte, l’amore e il denaro sono profondamente intrecciati con legami sociali e culturali che li rendono operativi in un modo unico allo stesso tempo e in condizioni storiche simili. Quando si critica il funzionamento del denaro, il denaro viene spesso opposto all’amore e qualche innocente, ancora molto innocente, oppone anche il denaro all’arte. Ebbene, i tre sono strettamente legati dalla loro genealogia comune. L’amore, molto spesso presentato come la soluzione a tutto, come soluzione universale, l’amore come noi lo intendiamo ancora nei primi anni del XXI secolo, è profondamente legato con il denaro e con l’arte.

7) L’ultimo lavoro La farsa monea ti vede coinvolto insieme al danzatore Israel Galván e al cantante Niño de Elche, oltre ad altri numerosi artisti, in un intervento performativo che ha come fulcro la tradizione del Flamenco. È una riflessione su che cosa voglia dire essere eredi di una tradizione. In questo caso di un’arte dei poveri e dei rom che, come altre pratiche artistiche, è nata lontana dai centri dell’egemonia culturale. In che modo La farsa monea parla del corpo, del capitale e soprattutto di un’arte della sopravvivenza?

Beh, siamo stati tutti invitati a lavorare insieme, anche se lo abbiamo già fatto in passato. Con Galvan ho lavorato per quasi 20 anni e con Niño de Elche ci sono state molte collaborazioni. Il lavoro di Documenta è stato molto istruttivo per tutti e tre e per molte ragioni. Infatti, al di fuori dell’egemonia culturale abbiamo continuato a sentire che il nostro lavoro ha operato intensamente, insomma, la macchina della produzione culturale ci ha mantenuti sul bordo dei nostri margini. E da lì, sì, è stato un piacere lavorare.

Molti dei flamencos che ci hanno accompagnato hanno sentito disprezzo per questa operazione interna al sistema dell’arte. Anche se ho spiegato loro l’importanza del funzionamento di questo intervento, il lavoro di Atene e come questo sforzo abbia indebolito la presenza dell’arte cioè che il gesto politico è importante, beh, mi hanno fatto vedere che in un certo senso, ciò che abbiamo rappresentato, rendendo visibile l’essere zingari, il lumpen, la creazione poetica ai margini, alla fine continua a operare nell’abuso gerarchico anche quando siamo a bacchettare coscienze, è un fatto evidente. Vero è che noi non eravamo i sofisticati performer dell’ underground newyorkese o figli di qualche elite latino-americano, no, eravamo veri artisti dei quartieri periferici di Siviglia che neppure usano la parola decolonial!

8) All’entrata della Gottschalk-Halle di Documenta a Kassel c’erano tre cumuli di tre differenti monete. Sono delle riproduzioni di monete storiche. In una delle monete, datata 1941, è impresso «El jinete ibèrico». È una moneta coniata durante il regime di Francisco Franco. Il cavaliere è un’allegoria del popolo spagnolo che denota quelle storie di orgoglio nazionale tipiche delle ideologie razziste. Una seconda moneta è legata alla carità, mentre l’ultima è un’emissione locale della città di Barcellona legata ad una casa di prostituzione, infatti nell’altra faccia ha impresso il nome di Priapo. Qual’è la considerazione e il ruolo di queste monete nell’opera La farsa monea e più in generale del denaro nella vostra pratica artistica?

Si trattava per noi di porre in circolazione, sia pure simbolicamente, delle monete, ossia i soldi, il denaro, monete che hanno un forte legame con il flamenco, con la cultura dei Rom e non-Rom, il contesto lumpen dove è di casa il flamenco. Infatti, sia il Jinete di conio Franchista come il León dell’era repubblicana, i Lumpen li chiamavano cagne, la cagna grassa e la cagnolina, monete infra-valore la cui fusione, come quella dell’ottone, è venuta a costare di più del prezzo monetario che rappresentavano, questo per dire che hanno svalutato il loro valore ben al di sotto della loro materialità. Allo stesso modo la moneta detta madre-padre che è stata messa in circolazione nelle mense della carità, confondendo il santo barbuto con la vergine Maria! O ancora, sì, la valuta detta La Sevillana, con i suoi simboli postribolari, la mezzaluna e la stella del priapismo venusiano che alla fine si è convertito da tatuaggio di prigione, nei simboli culturali della nostra storia musulmana ed ebraica. Insomma, con Israel e con El Niño abbiamo condiviso il nostro lavoro con i soldi e con i suoi valori e abbiamo cominciato ad applicarli a situazioni concrete ad Atene, nelle genealogie del denaro. È un lavoro che viene fatto soprattutto attraverso delle perdite. C’è un centro, molto colorato e denso, un nucleo atomico che ribolle e da lì partono elettroni e molecole che assumono la forma di spettacoli, tracce audio, immagini, monete… allora sviluppare elaborazioni di tutto quello che accade, inseguire traiettorie è il cuore di questo lavoro, non solo nelle presentazioni di Documenta, ma anche ne La Fiesta, l’ultimo spettacolo di Israel Galván o nella antologia eterodossa preparata da El Niño de Elche.

Tieni presente che per me il mondo del flamenco è parallelo all’Archivio F.X., con quello che chiamo Maquina PH; il lavoro con gli artisti del flamenco è l’esperienza che mi aiuta maggiormente a capire la mia condizione operaia, il modo e il modo in cui lavoro. Ti faccio un esempio che mi piace molto. Quello che ho visto fare una volta a Juan el Camas, cantante libertario e iconoclas. Negli ultimi anni della sua vita, durante un incontro con i suoi ammiratori stranieri, ha preso dalla tasca una foto della Virgen del Rocio e, con aria di sfida e una certa ostentazione, la strappò in più pezzi, dimostrando una estrema ostentazione nel rompere l’icona. Poi divise i pezzi tra i suoi amici e disse loro di conservarli come qualcosa di importante, come un segno del legame tra di loro e del legame con lui, un ricordo di quei giorni di esperienza e di vita. Cioè, da una parte si rompe l’immagine, si distrugge, ma i frammenti feticizzati permettono di re-immaginare; se la parola esiste in questo senso va a segnalare un materiale che diventa un collegamento, un vero simbolo. Certo, è da queste cose che imparo tanto.

Traduzione di Massimo Mazzone

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