Intimità, Incompletezza, Interpretazione. Rituali del sé connettivo dopo la tragedia
La Cura ai tempi del Coronavirus #3
La necessità di riposizionare la malattia nella nostra società torna ad essere un fatto di primaria importanza come mai in questi giorni in cui il pianeta è colpito da un’epidemia di portata globale. Ce ne dà l’occasione di nuovo, dopo 7 anni, Salvatore Iaconesi. La performance de La Cura continua con una tragica e peculiare sincronia, nel momento in cui tutti quanti possiamo trarne più beneficio e coglierne l’opportunità, insieme:
In questa serie di articoli l’autore pone le basi per una nuova Cultura Ecosistemica che trova il luogo materiale e immateriale per sperimentare le forme di un «abitare iperconnesso» in HER she Loves Data: il centro di ricerca di nuova generazione dedicato alla cultura dei dati fondato da Iaconesi e dalla sua compagna, Oriana Persico. Leggi gli articoli precedenti.
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«I 15 minuti stanno per finire.
Tanto dura il rituale.
Davanti a me, la visualizzazione.
Oggi è il giorno del cambiamento climatico. Ogni giorno è un tema differente dell’agenda del pianeta (il cambiamento climatico, la salute, l’energia, le migrazioni, l’accesso all’istruzione, la povertà, e tanti altri), e ogni giorno il tema occupa un tempo specifico e rituale di persone a casa come me, di classi nelle scuole, di gente negli uffici, arrivando persino in strada, sui mezzi di trasporto, e in diversi spazio-tempi interstiziali in cui le persone si trovano ad avere qualche minuto di pausa che vogliono dedicare alla vita sul proprio pianeta.
I dati planetari (sui consumi, le emissioni, le emozioni) si incontrano con i miei.
Inizialmente non capivo, ma poi progressivamente ne ho capito la grammatica e la semantica. È stato un po’ come intraprendere un’arte marziale. Ci vuole un po’. Per un po’ ti sembra solo di ripetere sempre gli stessi stupidi movimenti. Ma dopo no: c’è un momento in cui capisci qualcosa. Il tuo corpo capisce qualcosa, e tutto diventa più fluido, e con più significato. E allora passi al livello di difficoltà superiore. Anche questo è stato un po’ così. Io ho iniziato per curiosità, come si inizierebbe un corso di Aikido. Chi mai potrebbe dire di avere capito l’Aikido dall’inizio?
Altri hanno iniziato con un workshop a scuola. Alcuni con quel progetto di ricerca in cui si sperimentava come la creazione di un rituale data-driven avrebbe potuto aiutare nella generazione di best-practice per il consumo dell’energia nell’ufficio. Altri ancora associando le droghe a delle esperienze psichedeliche data-driven. Altri in modi ancora diversi.
Inizialmente c’era la visualizzazione lì, con i miei dati, da guardare: fuori da me, come una mia strana GIF animata. Quello che sto guardando, da un certo punto di vista sono io: i miei dati, le mie abitudini, i miei consumi. Qualche prospettiva di me, nella visualizzazione, progettata oggi da un certo designer, l’altro giorno da un artista, l’altro ancora in una riunione di condominio in cui abbiamo deciso di fare un esperimento.
Se io e i miei dati eravamo lì, davanti ai miei occhi, il pianeta era sulla mia pelle: i suoi dati, qui, che vibrano, suonano, scaldano. Dipendentemente da quello di cui si parlava, potevano essere i dati di una sola altra persona sul pianeta, o di un condominio a Hong Kong, oppure i dati provenienti dall’intero Iran, o da un campo profughi in un’isola dell’Egeo, o di un intero continente, o dell’intero pianeta. Si trattava, in ogni caso, di un Altro, che si manifestava sotto forma di una nuova tattilità sulla mia pelle.
Un Altro-da-me, individuale, collettivo o planetario che fosse, sotto forma di onde, suoni, calore, su di me, con me davanti agli occhi, fuori. Inizialmente non capivo. E poi, proprio come nelle arti marziali, sì. Quelle sensazioni sulla pelle portavano un altro dentro me, con una sua grammatica e un suo senso, che mi permetteva di guardarmi dal di fuori, per differenza. Io, fatto della stessa materia del pianeta, mi potevo finalmente guardare dal di fuori, e differenziarmi, confrontandomi con tutto il resto. La differenza che fa la differenza».
Come promesso nel secondo articolo della serie, iniziamo ad esplorare i modi in cui i «nuovi rituali dell’abitare il pianeta attraverso i dati e la computazione» possono entrare a far parte del nostro sentire. Quando mi «accorgo del mio corpo», spesso mi mancano tante informazioni. Spesso non so esattamente perché mi fa male la testa, o la pancia. Spesso non so nemmeno dove esattamente mi fa male, o perché mi sento proprio in quel modo: se è perché ho fame, o sono arrabbiato, o perché effettivamente sto provando dolore. Spesso devo concentrarmi e ascoltare attentamente il mio corpo per capirlo. Spesso, anche concentrandomi, non lo capisco.
Posso anche immaginare e costruire delle ipotesi: mi fa male perché ho dormito storto; ho mangiato pesante; o potrei essere particolarmente suggestionabile, e sentire male e avere paura di avere un male terribile. Quando ho il mal di testa ho dei dati più o meno oggettivi: per esempio circa dov’è localizzato, e quanto è forte. Ma c’è anche un’altra condizione compresente: ci sono sacco di cose che non so circa il mio mal di testa. Mi è venuto perché ho mangiato i peperoni? Perché sono stressato? Perché è il segnale di qualche altro fenomeno?
Questa caratteristica di variabilità e di indeterminazione non cade nel vuoto, e si inquadra nel contesto del mio sentire, del mio immaginare, del mio dialogare con me stesso o con gli altri, e con il mio percepire, relazionarmi e interagire col mondo. Questa incompletezza è fondamentale, perché è dove inizia il dialogo, il rito, il confronto con gli altri, l’interpretazione. Ora, per differenza, prendiamo una app: per esempio quelle che afferiscono alla famiglia del quantified self, il fenomeno culturale in cui le tecnologie di self-tracking puntano nella direzione di una possibile migliore conoscenza del sé attraverso i numeri. Queste app sono molto diverse dalle modalità di auto-conoscenza del nostro corpo e del nostro spirito di cui abbiamo appena parlato.
Nel quantified self, che si parli di misurare le abitudini del sonno, il consumo di caffè o di calorie, o il movimento fisico, un’azione estrattiva e di auto-consumo del nostro corpo e delle sue abitudini mira a ottenere le determinazioni più certe e complete possibili: l’obiettivo è di consumare ogni dato per spiegare tutto. Nel quantified self non ci sono incertezze e lacune: so esattamente da dove vengono i dati, perché stanno lì, e dove stanno andando.
Questa è una differenza sostanziale perché, mentre nella prima modalità, il dato è un «inizio» (dell’ipotesi, dell’osservazione, del dialogo), in questa seconda modalità il dato è una «fine»: il dato viene utilizzato per costruire una rappresentazione, e tutto il discorso finisce lì. Il dato, nel quantified self, esiste su un solo livello: quello dell’estrazione, da cui fabbricare un dispositivo con cui auto-consumarsi. Nei nuovi rituali vogliamo, invece, orientarci su una maggior capacità, su una banda comunicativa e metacomunicativa più ampia, sulla possibilità di abilitare l’interazione su più livelli, con più tipologie di contributi.
Per farlo, perciò, ci dovremo prendere cura dell’elemento di incompletezza, variabilità e indeterminazione della comunicazione, così che si possa aprire all’Altro, al transito di e in altre dimensioni, che solo trovando un varco si possono inserire. In questa altra modalità la disponibilità del dato segna l’inizio, non la fine, del percorso/discorso: intimo (perché trovo lo spazio in cui mi posso osservare o confrontare col mondo), o con gli altri (perché è solo in questo spazio che ci si può osservare/guardare, confrontare, interpretare; proprio come è in questo spazio che l’Altro trova la possibilità di entrare per accorgersi di me e riconoscermi, e per prendersi cura di me).
Nel prossimo articolo inizieremo a capire come la conoscenza e la comprensione dei nuovi rituali si potrà iniziare a manifestare nel mondo intorno a noi.
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