La Spirale della Conoscenza

La Cura ai tempi del Coronavirus #5

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Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, Spirals (2020) - Courtesy of the authors.

La necessità di riposizionare la malattia nella nostra società torna ad essere un fatto di primaria importanza come mai in questi giorni in cui il pianeta è colpito da un’epidemia di portata globale. Ce ne dà l’occasione di nuovo, dopo 7 anni, Salvatore Iaconesi. La performance de La Cura continua con una tragica e peculiare sincronia, nel momento in cui tutti quanti possiamo trarne più beneficio e coglierne l’opportunità, insieme.

In questa serie di articoli l’autore pone le basi per una nuova Cultura Ecosistemica che trova il luogo materiale e immateriale per sperimentare le forme di un «abitare iperconnesso» in HER she Loves Data: il centro di ricerca di nuova generazione dedicato alla cultura dei dati fondato da Iaconesi e dalla sua compagna, Oriana Persico. Leggi gli articoli precedenti.

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Cosa vuol dire «aprire un centro di ricerca»? Come si fa? Non ci vogliamo qui, ora, immergere nelle pratiche del trovare i soldi per aprire un centro di ricerca in Italia. Ci arriveremo tra un po’. Ci vogliamo prima immergere in che cosa sia e in che cosa possa essere, oggi, un centro di ricerca.

Centro. Di. Ricerca. Le parole hanno un loro peso. Un «centro». E perché non un «distribuito»? O un «ubiquo»? O qualcos’altro ancora? Ricerca. Che viene da circum, andare intorno, quasi in tondo cercando qualcosa. Ancora un cerchio, una figura chiusa. E perché non una «spirale»? O una qualche altra forma?

Un Ubiquo di Spirale. Una Spirale di Evoluzione. Una entità che impara attivamente: ideando, organizzando, conducendo, archiviando, confrontando e comunicando processi di«ricerca», o, nel nostro caso, di ri-spirale.

Ma non andiamo troppo veloci. La conoscenza. Il modello della conoscenza. Le pratiche della conoscenza. La valutazione, trasformazione e critica della conoscenza. La conservazione, l’accesso e la comunicazione della conoscenza. La socialità della conoscenza.

Gli articoli di questa serie sono una sorta di«appunti aperti» che stiamo tenendo per aprire il progetto della nuova versione del nostro piccolo centro di ricerca: HER She Loves Data. Per questo motivo non tratteremo qui estensivamente tutti questi temi (non basterebbe un libro!). Piuttosto, lavoreremo come si fa negli appunti, in cui si segnano delle parole, delle brevi frasi, si mettono dei segni e dei riferimenti che aprono questa particolare forma di testo/diagramma, linkandolo a concetti, libri, persone, luoghi e contesti.

Ognuno ha i propri: per ricordare che «questo è importante», «questo lo devo approfondire», «chiedere a Mario», «non ho capito», «il prof/la prof era troppo sexy quando diceva questa cosa», «dobbiamo studiare questo insieme agli altri, e poi birra a fiumi» e i tanti altri che, su vari livelli denotano gli «appunti» come una utilissima entità incompleta, fatta proprio per suscitare dialoghi, chiarimenti, confronti con persone e con altri appunti, approfondimenti e studio solitario e in comunità.

Gli appunti di Walter Benjamin.

Sono molto famosi, ad esempio, gli appunti di Walter Benjamin, in cui usava il principio del montaggio per collegare testi, azioni, temi ed altro, ottenendo quello che noi, oggi, non faticheremmo a riconoscere come un ipertesto, o un testo a spirale, in cui ogni elemento si apre su altri.

Gli appunti stessi sono una spirale. Con una particolarità: la direzione in cui la spirale viene percorsa dipende dall’interazione – individuale e collettiva – con gli appunti stessi. Quanti di noi, presi degli appunti che sembravano perfetti, addirittura illuminanti, li hanno poi lasciati da qualche parte anche solo per pochi giorni, e poi nel riprenderli hanno esclamato «Ma cosa ho scritto! Non ci capisco niente!»

Lasciata a se stessa – ovvero se gli appunti non vengono performati –, nella solitudine di un momento individuale, la spirale degli appunti viene percorsa verso il suo centro, restringendosi ben presto in un punto: una dimensione senza spazio, dimensione e senza tempo. I nostri appunti non vogliono dire più nulla.

Se, invece, gli appunti sono oggetto di relazioni, allora la spirale si percorre verso l’esterno, e gli appunti diventano conoscenza che si espande, sempre nuova. Relazione e performance, quindi, come parte essenziale del conoscere: verso sé stessi, per come ci si trasforma nello spazio, nel tempo e nei contesti, tanto da non poter propriamente affermare di essere «la stessa persona che li ha scritti quegli appunti», anche solo poco tempo dopo, o in un altro contesto; e con gli altri, che siano o meno invocati negli appunti stessi (nota: di questa cosa ne devo parlare con Oriana!), o che l’interazione e la relazione stessa sugli appunti e la conoscenza avvengano o meno per nostra iniziativa.

Una spirale della conoscenza.

Da questo punto di vista, la conoscenza si può descrivere come un organismo vivente: quando nasce, nasce sempre per riproduzione di due o più concetti, attori, informazioni, dati, oggetti o cos’altro. E mentre vive, vive delle e nelle interpretazioni degli attori che ci interagiscono: che siano le persone che usano questa conoscenza per la loro vita o per farne altra, o che siano le entità computazionali che raccolgono questa conoscenza per qualche motivo, che sia il renderla accessibile in qualche modo da un motore di ricerca, o che sia per tentare di elaborarla con i processi dell’intelligenza artificiale (Nota: nell’epoca della mediazione digitale, può la conoscenza entrare in relazione con un albero? o con il mare? o con altri attori attori non umani? certamente).

Da notare: ognuna di queste interazioni, interpreta e, quindi, modifica la conoscenza. Leggendo un libro, lo modifico. Non importa cosa ci sia scritto dentro. Non appena, leggendolo, ne traggo il mio modello mentale, diventa un’altra cosa: avrà le «mie» sfumature, assomiglierà un po’ a me, sarà un po’ più mio. È la «performance della conoscenza»: non si può essere neutri, e performare la conoscenza significa anche appropriarsene, che si sia esseri umani, intelligenze artificiali o cos’altro.

Questo comporta che, al netto della necessaria pratica del menzionare da dove vengono le conoscenze che usiamo (sia per la bellezza del ringraziare chi ha «lavorato per noi», sia per permettere di tracciare le traiettorie secondo cui la conoscenza si evolve), non è propriamente esatto dire «questa cosa io l’ho già detta XX anni fa», o «questa definizione è mia», o «questo concetto io lo usavo già nel 19XX», o cose del genere. Perché quando lo performo, quando lo uso, lo interpreto e, quindi, diventa anche un po’ mio, mi assomiglia di più. E, in ogni caso, è diverso: quando entra nella mia conoscenza, quando lo interpreto io, non è più quello che hai pensato, detto, o scritto tu.

La conoscenza come organismo che vive di relazioni e interazioni. Proprio come noi: se non siamo almeno in due non possiamo propriamente nemmeno essere certi della nostra esistenza. Il che ci porta anche all’ultima caratteristica della conoscenza che ci interessa: la sua performatività, nell’individualità, nelle comunità e nella società. Se la conoscenza non può essere e non viene performata si può ancora chiamare conoscenza? Questa domanda è simile, ovviamente, a quella del rumore dell’albero nella foresta quando nessuno è lì a sentirlo.

Ma noi andremo ancora più in là, cercando di costruire gli«appunti per la creazione significativa del centro di ricerca (o ubiquo di spirale)» in modo che siano performati continuamente: questo atto è, di fatto, la prima ricerca (spirale) del centro (ubiquo).

E allora iniziamo. Definendo che cosa ricerca (spirala? hmm non suona bene… Da fare: iniziare a fondare un vocabolario di termini, e iniziare a usarli in maniera consistente e comprensibile/comunicabile)… dicevamo: definendo su che cosa fonda le proprie spirali di costruzione performativa della conoscenza HER She Loves Data: il tema.

HER She Loves Data si occupa del ruolo dei dati e della computazione nelle dimensioni psicologica, relazionale, sociale e ambientale. HER She Loves Data se ne occupa non utilizzando modelli estrattivi, ma esistenziali: i dati e la computazione sono elementi dell’esistenza degli attori di cui sono parte, e dei modi in cui questi attori decidono di aggregarsi e rappresentarsi. Non vengono«estratti» dai comportamenti e dall’ambiente per poi essere elaborati, studiati e rappresentati nella separazione del laboratorio. Invece vengono generati dagli attori dell’ecosistema e dalle loro aggregazioni, e vivono di una nuova alleanza tra ricercatori, persone, agenti computazionali e ambiente, in cui tutti diventano partner del processo di ricerca.

HER She Loves Data usa l’Arte come modalità di conoscenza partecipativa in questo processo. HER She Loves Data sperimenta, studia e progetta le ritualità tramite cui dati e computazione si manifestano nelle vite delle persone, delle comunità, delle organizzazioni, delle istituzioni e degli attori non umani – ad esempio quelli del nostro ambiente, o gli attori computazionali –, per come queste abitano il nostro mondo, da sole e in relazione con gli altri attori.

Il modello di conoscenza che costituisce l’infrastruttura fondamentale di HER She Loves Data è l’Archivio dei Rituali del Nuovo Abitare.

I possibili elementi dell’Archivio dei Rituali del Nuovo Abitare.

L’archivio è basato su un’ontologia che è manutenuta dinamicamente da una Community of Practice (CoP). Sulla base dell’ontologia è possibile, ad esempio:

  • classificare la ricerca esistente, nell’arte, nel design, nelle pratiche abilitate dalle tecnologie e dalle scienze;
  • classificare nuova ricerca, sperimentazioni, creazioni, per come sono portate avanti in HER She Loves Data, usando il modello organizzativo delle CoP, o all’esterno
  • valutare, riposizionare o documentare i contenuti dell’archivio, curarne selezioni tematiche;
  • usare i contenuti dell’archivio, anche ricombinandoli, per trovare soluzioni a nuovi problemi, o modi di ottenere certi risultati per gli individui, le comunità, le organizzazioni.

Questo archivio è un commons, un bene comune. Come tale, non è possibile caratterizzarlo semplicemente come risorsa disponibile, altrimenti si ricadrebbe comunque in un modello estrattivo. Il commons si può, invece, inquadrare nella logica della cura, e quindi è composto almeno da:

  • una risorsa attorno a cui unirsi (in questo caso la conoscenza contenuta nell’archivio).
  • un ecosistema relazionale ad alta qualità che sia disposto a prendersi cura della risorsa e ad usarla (composto dalle CoP che vivono in HER She Loves Data).
  • il fatto che l’ecosistema relazionale decida di adottare un codice di utilizzo del bene comune (rappresentato dagli strumenti e dalle pratiche che si usano per accedere all’archivio: psicologici, tecnologici, sociali, legali… ).

Già in passato ci siamo occupati di questi modelli organizzazionali. Per esempio, in s1/s2 si è cercato un modello per portare avanti una «storia dell’arte peer-to-peer», in cui potessero esistere ed essere confrontabili le diverse storie del mondo che le persone e le comunità descrivono vivendole e adottando il proprio punto di vista e la propria interpretazione: una storia dell’arte «non riduzionista»; una storia che non sia solo una«storia dei vincitori».

O, come altro esempio, in Ubiquitous Commons si è realizzato un modello tecnologico e legale per cui identità individuali, collettive, anonime, transitive, temporanee (e le loro combinazioni) possono decidere di manifestarsi e rappresentarsi, e quindi esprimersi circa i dati e le informazioni da loro prodotte, i loro usi consentiti, e i loro rapporti relazionali e transazionali. Ambedue gli esempi ci indicano possibili modi di rappresentare e far vivere il bene comune immateriale rappresentato dalla conoscenza di HER She Loves Data.

Quindi, in questa puntata abbiamo esplorato il modello di conoscenza del nostro centro di ricerca (Ubiquo di Spirale), abbiamo iniziato a definire il tema, e abbiamo iniziato a gettare le basi e le direzioni di sviluppo in cui questo tema si può sviluppare per formare questo complesso organismo vivente che è la conoscenza. Nella prossima puntata studieremo insieme alcuni possibili modelli operativi, consci che le diverse scelte hanno implicazioni epistemologiche, politiche, sociali, psicologiche, relazionali, filosofiche e altre.

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