L’archivio come koinè
L'ossessione dell'arte contemporanea
L’archivio come compresenza dell’ «aspetto politico e quello mnestico», giacché, come scrive Aleida Assmann, «controllare gli archivi è controllare la memoria». Lo stesso «Postmodernismo, a cui si deve il rilancio dell’archivio come Mecca delle nostre conoscenze e memorie, ha agito nella consapevolezza che al suo interno sopravvivono amnesie socioculturali e brame di potere». A complicare le cose è venuta poi la tecnologia, sia perché «Chi ci assicura che i supporti su cui oggi salviamo la nostra memoria saranno ancora validi domani»?, sia perché «Con la democratizzazione di Internet ci siamo davvero liberati del controllo e della censura, oppure esiste ancora lo spettro della tecnocrazia come nel film del 1965, Alphaville, con un cervellone elettronico sempre più super che ci sorveglia e regola, e senza il quale rischiamo di cadere nel caos?», sia, ancora, perché «le magnifiche opportunità create dal libero accesso, scambio e manipolazione di dati, quale effetto avranno sull’autenticità e veridicità di fonti, documenti e informazioni?»
Ma «Tutto ciò cosa c’entra con l’arte contemporanea?» A tale quesito mira a rispondere Cristina Baldacci con il suo libro d’esordio Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea (Johan&Levi editore, 2016), osservando che più che «insistere su che cosa sia l’archivio nell’arte» è preferibile esplorare le varie tipologie in cui esso si declina artisticamente. Quando l’artista si approccia al paradigma dell’archivio non lo assume nel senso più canonico, bensì concepisce sistemi «che sono metafore della memoria e della documentalità, displays archivistici che sovvertono i tradizionali criteri di classificazione delle nostre conoscenze e che si precisano come dispositivi processuali e partecipativi, come strumenti strategici di resistenza esistenziale e sociopolitica», tanto che, nel contesto dell’arte, sarebbe «più corretto parlare di anarchivi, antiarchivi, controarchivi». Tra i numerosi esempi citati nel libro, la storica dell’arte sceglie di soffermarsi più ampiamente su quattro in particolare: Marcel Broodthaers, Hanne Darboven, Hans Haacke e Gerard Richter, ovvero su quattro «protagonisti dell’arte concettuale in ambito mitteleuropeo», nonché su tre tedeschi più uno – il primo – che ha «soggiornato a lungo in Germania» – il legame con questo paese «è piuttosto sintomatico per artisti che hanno lavorato assiduamente sull’idea di memoria, identità, archivio in chiave personale e sociale, realizzando vere e proprie opere-manifesto».
Prima di arrivare ai quattro prescelti la Baldacci esegue però una sorta di viaggio in cui si alternano questioni teoriche ed esempi di opere o di mostre improntate a quello che Hal Foster ha notoriamente chiamato impulso archivistico. Viene delineata così una storia della classificazione dei saperi che va da Socrate fino a Google, passando per Dante, d’Alembert e Diderot, Foucault, Freud e tanti altri; viene discusso il passaggio dalla selezione all’accumulo, con tanto di feticizzazione dell’oggetto; viene affrontata la peculiarità di recuperare la memoria e quindi di (ri)scrivere la storia in paesi come quelli dell’ex blocco sovietico o come quelli ex coloniali; si riflette su un particolare tipo di catalogazione del sapere come la lista; ci si interroga sulla tematica post-human del corpo come archivio vivente; è messa a fuoco la questione del superamento dell’originalità attraverso l’appropriazione, il montaggio e il remix; si ragiona sul paradigma dell’atlante e della mappa; si approfondiscono le forme del diario e dell’album; si indagano gli spazi eterotopici del museo e della Wunderkammern… Contemporaneamente vengono descritte opere come quelle di Alighiero Boetti, testimonianti «il valore culturale e sociale delle tassonomie»; i fotomontaggi dadaisti che testimonierebbero «di quanto la mania del collezionare e la febbre archivistica avessero già contagiato gli artisti della prima parte del secolo; le ricerche online di William E. Jones, che tentano «di dare un ordine estetico all’apparente anarchia della rete»; il lavoro prettamente pittorico, ma dalla «natura archivistico-enciclopedica» di Gianfranco Baruchello; le ibridazioni di Kader Attia, «artista che racchiude in sé già una commistione culturale»; gli inventari di Dan Graham – sulle caratteristiche di una pagina dattiloscritta, sugli effetti collaterali delle medicine, una lista della spesa…; gli «elenchi di oggetti e nomi appartenenti a persone scomparse» di Christian Boltanski; le liste-calendario di On Kawara; il percorso di Joseph Beuys, dal curriculum vitae «tra mito e realtà» al suo «progetto di autoarchiviazione» intitolato Arena – dove sarei arrivato se fossi stato intelligente!; The Biografhy di Marina Abramović, che mette in scena «l’intero arco di una vita e di un’esperienza artistica […] unicamente tramite l’azione e la registrazione della sua voce»; la riproposizione delle opere storiche della Biennale di Venezia «usando unicamente i loro corpi» di cinque performer coordinati dal duo composto da Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş; i montaggi di spezzoni di B-movies di John Baldessari; le denunce della visione superficiale e stereotipata cui ci hanno assuefatto i mass media di Aernout Mik; i filmini di Ryan Trecartin, «risultato di una costruzione a più livelli, dove si intrecciano temporalità dilatate e anacronistiche, ambienti ridondanti e spazi claustrofobici, identità ibride, sessualità disinibite, attitudini clownesche»; «L’archivio come atlante o catalogo di fotografie ordinate a griglia» che trova nei coniugi Bernd e Hilla Becher «due maestri indiscussi»; le pratiche autoriflessive di Sophie Calle; l’interesse archeologico ed antropologico di MarK Dion… Né la Baldacci tralascia di considerare l’importanza che il prototipo dell’archivio riveste in mostre più e meno recenti: da When Attitudes Become form di Harald Szeemann, «primo grande tentativo europeo di creare un inventario di tutto ciò che è vivo nella mente degli artisti» alla sua «gemella o emula americana» Information di Kynaston McShine; da Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas?, ove Georges Didi-Huberman «ispirandosi ad Aby Warburg, ha cercato di disegnare una mappa delle peregrinazioni delle immagini lungo tutto il XX secolo», a Playlist, ove il proposito di Nicolas Bourriaud è quello «di comporre un archivio-lista, simile alle classifiche musicali, di artisti che lavorano con prodotti culturali […] invece di creare oggetti ex novo».
L’ultima parte del libro è infine dedicata ad approfondire ciascuna delle quattro figure accennate sopra. Gerhard Ricther è autore di quello che è «senza dubbio il massimo esempio di atlante fotografico realizzato da un artista contemporaneo». Svolto in parallelo con l’attività pittorica a partire dal 1962 si arresta apparentemente all’improvviso nel 2013, ma in Ricther «nulla avviene mai senza un disegno preciso» e pertanto «una simile decisione deve essere stata assai ben ponderata». Può darsi, ipotizza la Baldacci, che egli «come artista è arrivato a un momento in cui la sua attività riguarda soprattutto la ripresa e rielaborazione di stilemi e tecniche già sperimentati e la loro trasposizione in differenti formati e supporti». Molte le analogie con Warburg, a cominciare dal nome, Atlas, ed a continuare col fatto che «l’atlante ha avuto per entrambi una funzione pratica: è stato un inventario di archetipi con cui […] hanno portato avanti le loro ricerche. Detto questo naturalmente l’atlante è stato per Warburg «un mezzo per ricongiungere e salvaguardare la tradizione figurativa occidentale», mentre per Richter è stato un lavorare «sulle rovine di una determinata memoria artistico-culturale rivolgendo anamnesticamente lo sguardo alla tradizione visiva del passato».
«La scrittura, l’annotazione quotidiana di tutte quelle azioni, monotone ma indispensabili, su fogli di carta, pagine di diario, ritagli di giornale, scontrini, secondo un personale alfabeto numerico e segnico» risiede per Hanne Darboven alla base «di quell’ossessivo e disciplinato lavoro di archiviazione della realtà esteriore e interiore, con cui» da allora ella «avviò la costruzione di un suo mondo unico e straordinario». Il suo capolavoro è probabilmente Kulturgeschicte 1880-1983 (1980-1983), «tentativo di registrare e tramandare il proprio vissuto come parte di una storia più grande. Così «la statua del cancelliere Bismarck trova posto accanto a un fantoccio vestito da panettiere; le immagini che richiamano la Seconda guerra mondiale fanno da contraltare a una serie di fotografie di una delle inaugurazioni di Darbonev […]; riproduzioni di celebri opere d’avanguardia sono accostate a illustrazioni e cartoline folkloristiche».
Marcel Broodthaers è invece autore di un museo simulato come «ripensamento dei sistemi di organizzazione del sapere all’interno del contesto istituzionale». Il museo ove ogni tassonomia scopre il suo paradosso, ove ogni catalogo ideale si rivela sempre più soggetto alle leggi di mercato, ove irrompe «la natura obsoleta e barocca dell’apparato burocratico», ove parole e immagini, «montate in rudimentali proiezioni filmiche» sono intercambiabili. Tutto parte dall’abbandono della poesia, sua precedente attività, per l’arte con l’assemblaggio scultoreo Pense-Bête, ove le copie della sua ultima raccolta poetica sono inserite in un cumulo di gesso e dunque illeggibili. Quindi la mostra MTL-DTH, che segna «il suo decisivo spostamento dallo spazio della pagina a quello espositivo». E così via via fino ad arrivare a vette come il Département des Aigles (1968), ove attraverso l’aquila, «sigillo del potere politico-militare, ma anche l’emblema dell’arte come sistema egemonico», mette «in luce i presupposti istituzionali di inquadramento dell’opera d’arte».
Incarnazione «allo stesso modo dell’Ulisse dantesco e del Galileo Brechtiano, l’eroe e l’antieroe intellettuale moderno disposto a mettere in gioco se stesso e le convinzioni collettive per arrivare alla verità e alla conoscenza», rischiando costantemente di «essere scomunicato dall’establishment», Hans Haacke tiene insieme un rigore metodologico pari a quello di un sociologo – «Uno di loro, Pierre Bourdieu, ha avuto un intenso scambio intellettuale con l’artista nel 1991 (sic) da cui sono nate reciproca stima e amicizia» – e la figura dell’ «artista come attore del cambiamento sociale e culturale». Secondo la Baldacci l’attitudine archivistica dell’artista tedesco si manifesta in tre momenti: il primo è quello dei sondaggi, a partire dal 1969; quindi ci sono le installazioni fotografiche dell’inizio degli anni settanta e infine i lavori documentaristici del 1974-1975 dove il testo prevale sulle immagini.
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