Narrazione e amnesia
Al centro di una città antichissima di Rosa Mordenti
Il libro di Rosa Mordenti Al centro di una città antichissima (Alegre, 2017), sarà presentato giovedì 15 marzo alle 18.00 a Casetta Rossa (Via G.B. Magnaghi, 14). Interviene con l’autrice Massimo Palma.
C’è un libro per l’infanzia disegnato da Altan, della serie Piccolo Uovo, dove il minuto eroe ovale va in giro a chiedere a bestie varie cosa voglia dire esser ricchi. Non avere soldi, né essere vincenti, né potenti. La ricchezza, dice un cane saggio a Piccolo Uovo, è nelle storie che offri agli altri. Bellissimo, viene da pensare. Eppure l’entusiasmo del genitore engagé rischia di rimare molto coi tempi: i tempi in cui tutti stiamo sospesi di fronte a uno schermo in cerca di storie, di auto-narrazioni brevi ma intense, enunciamo stati d’amore, di cibo, d’umore, alla ricerca di condivisione, simpatia lontana, immedesimazioni sparse.
Molto ricca, nei canoni di Piccolo Uovo, è Rosa Mordenti. Si è trovata a offrire ai lettori una «storia potente e lontana», che ha tutto per destare emozioni, titoli, sensazioni. Un uxoricidio, atti di Resistenza, di bombe e vernici gettate ai nazisti, una memoria familiare da ricostruire. Solo che è la storia greve di sua nonna che le ha ucciso il nonno Renato, quando il padre era un bimbo.
Mordenti la racconta delineando brevi ritratti dei protagonisti e di una stagione, quella partigiana e della primissima repubblica, in cui l’eccezione finisce e quella generazione che sfidava la banda Koch nella Roma occupata si trova «normalizzata» suo malgrado. E le prime normalizzate sono le donne, nota con durezza: la nonna entusiasta del comunismo di lotta del ’45 rientra presto nei ranghi borghesi, «perché la resa è una cosa seria». Mordenti spiega, annota a partire dal presente, a sprazzi dà del tu al ricordo. A volte dipinge bozzetti d’epoca, come quando ritrae il nonno cronista sportivo dell’Unità con accenti quasi kafkiani: sdraiato su di un letto a intervistare un pugile che gli risponde da sotto le coperte abbracciato al figlioletto con la febbre. Eroismi partigiani, lavori d’altri tempi, passioni nelle città aperte.
Ma non tutto torna, anzi. L’empatia è impossibile e quando sboccia viene interrotta. Mordenti, che di mestiere fa la giornalista – farebbe, dice, alludendo con una pagina fulminante alle conseguenze della disoccupazione – inizia spesso elencando cronache. Lo fa col pudore di chi gira attorno a un fatto che tutti già conoscono dalla copertina del libro e che lei non vuol raccontare. Mira ad altro. È un libro di montaggio, Al centro di una città antichissima, cinefilo ed elegante, costruito da ricordi, frammenti e citazioni anche assai lunghe. Il punto attorno a cui gira, impilando cronache e testimonianze e citazioni, è un tema di diritto – «posso?», «è permesso?» – e un tema di letteratura: «come scrivo?».
Prima il secondo. Mordenti ha in mano qualcosa di estremamente personale, un rimosso familiare che ne ha certamente determinato infanzia e vita (spunta tardi l’ammissione: «questo pezzettino d’inferno che è parte delle nostre storie», e tardissimo il più acre «fine pena mai, per i grandi e per i bambini»). Ma non sa cosa farne: «io non so mai come raccontare questa storia», ammette quando il libro è già tutto scritto. Quando l’impossibilità è stata scritta, tutta.
Allora come ha fatto? Ha preso frammenti di interviste, ha fatto capire come scriveva il nonno, ha descritto il suo volto in Roma ore 11, il film di De Santis dove Renato M. fece la comparsa. Ha scelto un percorso dal basso: recuperi di video, sfoglio di libri, domande, ritagli di giornale, ricordi privati. È un esempio di storiografia intelligente. Ed è un lascito prezioso per capire che non tutte le storie vanno raccontate, ma ci sono storie che possono esser raccontate perché sono costruite in un certo modo e perché sono frutto di un lavoro collettivo: «è la qualità del collettivo che fa la differenza», dice. Collettività, quindi, nella selezione della storia. E sobrietà di costruzione: c’è un’umiltà felice, in questo libro, e un pudore accogliente nell’avvicinare il lettore a quell’enigma che ha scavato una cavità nella preistoria dell’autrice. L’umiltà di giustapporre cronache, stralci di articoli, sentiti dire, di riportare per intero un racconto del nonno ritrovato su un foglio di carta velina, e di montare la materia con stile netto, scabro, alternando esitazione e precisione, per restituire uno stile di memoria.
La sfida di questo libro non è rifare l’inesistente ritratto dell’infranto da giovane – il nonno, o l’amore di una coppia che si amava davvero – di ritrovare grazie al miracolo della scrittura un’istantanea del prima che si ponga in discontinuità col dopo. È qualcosa di diverso. È dire il passato che non passa del Faulkner evocato da Portelli in prefazione: una formula usata per la Germania e il suo Novecento e che ha la sua eco qui, perché è l’eco della colpa tragica, è l’eco dei figli della vittima, che allo stesso tempo sono anche figli dell’assassino, e dei figli dei figli. La vita del tempo sospeso, senza giustizia possibile. Questo libro asciutto parla del senza: richiamando Annie Ernaux, Mordenti mette in scrittura quella forma vuota che è l’eredità di un’assenza. Ma questa forma, con grazia e nettezza, tracima da sé nell’altra domanda, quella di legittimità – la questione di diritto.
Perché c’è un indicibile in questa storia che non è il fatto di sangue, la colpa, l’inferno seguitone (l’orfanaggio, gli anni infiniti del carcere). «Indicibile è di questa donna, della nonna che incontravo per strada perché amava la sua città, non il dolore e la colpa, ma ogni pensiero felice. Tutte le volte che ha osato immaginare un futuro». Dire la storia della morte di Renato M. in questo libro antiretorico significa esporre l’indicibilità della vita successiva. La retorica eroizza il crimine, lo rende folle, assoluto. O eroizza il pentimento, santificando la pena. Indicibile, invece, è la brama di futuro quotidiano. Indicibile è il non inchiodare, da parte di chi è loro vicino, le persone a fatti unici, siano pure di sangue.
Vale per molti, per la coltivazione della memoria di parte, per le fotografie che ci restituiscono invariati i profili, i sorrisi, gli spari. Se l’amnistia è un atto politico, lo ha spiegato Nicole Loraux parlando di Atene e di noi, l’amnesia qui è il fatto di chi ha premuto il grilletto. E aggiungiamolo: riconoscere l’amnesia per andare avanti, costruire un futuro – magari per amore di qualcuno (qui i figli, i nipoti) – può produrre effetti antiretorici, e anche politici. Oltre le retoriche, resta il fatto bruto che non si può ricordare sempre. E quando poi, per un travaglio che è collettivo, si ricorda il proprio «pezzettino d’inferno», lo si deve fare così, costruendo una storia che rispetti l’effetto comune – personale e politico – di una necessaria amnesia.
«C’è il sacrosanto diritto all’oblio, mi hanno detto», anticipa il capo d’accusa Rosa Mordenti. «Di chi sono le storie?», si chiede ancora, davanti alla corte riunita. Quando alla fine, a mo’ di epilogo, parla del perché ha scritto un libro così, comincia esitante: «se io avessi davvero e fino in fondo il diritto di raccontare questa storia, ancora non lo so». E continua, più decisa, recidendo rami secchi: «Non so se fosse giusto, raccontare questa storia: ma non era la «giustizia» la mia necessità; non era la «verità» a mancarmi». Dopo aver ricusato l’onnipervasivo diritto allo storytelling, in un colpo solo rinuncia a verità e giustizia.
Questo libro non c’entra con quelle necessità. Eppure racconta. Racconta qualcosa e per sottrazione determina un diritto a «una seconda vita dopo l’inferno che è un lascito e una lezione». Ed è una questione delicata. In un paese che ha gettato nell’agone politico l’arma della riconciliazione per omologare la memoria in una pappa romanticheggiante di tutti giovani tutti eroi (L. Violante, a. D. 1996), questo libro, attraverso una microstoria di una vicenda personale, suggerisce una prospettiva più acuta, più sfumata sul tema dell’errore – grave, mortale – e del suo futuro. Non cioè l’equiparazione ai giusti di chi era dalla parte sbagliata, ma la dialettica continua tra memoria e amnesia, tra racconto ed elusione. Dice che quando si vive, perché si vive e per vivere, non è necessario ricordare tutto. E accanto alla necessità di narrare, proprio insieme, riconosce il fatto del dimenticare, perché la memoria del male è un processo complesso, a strati.
Non possiamo avere tutto, recita il brano di Hemingway in esergo. «È nostro», obiettano. «No, non lo è. E quando te l’hanno portato via, non riesci ad averlo mai più». Al centro di una città antichissima parla di un passato inappropriabile e di quanto questo passato incida sul futuro. Racconta con lucidità impeccabile la distanza da quel passato che pure era, è nostro. Dice che i ricordi non si possiedono – né si vogliono. Ci abitano, e non li neutralizziamo mai.
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