Viva l’errore!
Una mostra al SALT di Istanbul
Al SALT Beyoğlu (salt in turco vuol dire assoluto, puro, unico), uno spazio dedicato all’arte contemporanea situato sull’İstiklâl Caddesi, la bretella che collega piazza Taksim alla splendida Galata kulesi e che accoglie circa 2 milioni di persone al giorno, c’è sempre qualcosa di interessante da vedere: specialmente ora che la direzione è passata a Meriç Öner, una giovane e promettente curatrice – ad onor del vero già di base al SALT sin dalla sua costituzione, nel 2011 – subentrata a Vasıf Kortun. Nel programma delle mostre offerte da questo delizioso spazio è presente un appuntamento imperdibile, una doppia personale di Aydan Murtezaoğlu e Bülent Şangar, che immerge lo spettatore in un presente sempre più problematico, dove si è alla ricerca del lavoro mai avuto, dove il mare non bagna più i litorali e il passato è cosa da dimenticare perché non appartiene se non a chi è stato e che mai più sarà.
Con un titolo accattivante – Devamlılık Hatası | Continuity Error – che nell’ambito del gergo cinematografico sta ad indicare un mistake tra gli oggetti di una scena tra uno stacco e l’altro, dovuta a una disattenta produzione e postproduzione (un esempio per intenderci potrebbe essere il ladrone che impugna una Colt M1911 e che nell’inquadratura successiva, tra due tagli, ha invece una Ruger Mk IV Hunter), Murtezaoğlu e Şangar propongono un viaggio complesso, un percorso tra le disattenzioni del pubblico, tra le inosservanze di un mercato che divora l’arte e le sue funzioni, tra le incurie delle odierne società nei confronti delle persone, delle tradizioni, dell’ecosistema. Al piano zero, fronte strada, è presente il progetto a due mani intitolato İşsiz İşçiler-sana yeni bir iş buldum! (Unemployed Employees-I found you a new job!, 2006-2018) che gli artisti portano avanti da tempo per creare un progetto relazionale con il pubblico delle mostre e con chiunque abbia voglia di fermarsi – anche soltanto per un attimo – a riflettere sulla fine del lavoro, sui messaggi occulti e a senso unico, sulle tirannie, sull’importanza di un tempo – il nostro – in cui è importante decelerare per guardare, da un’altezza nuova, quello che (non) offre il mondo. Qui, ad accogliere lo spettatore sono alcuni ragazzi inoccupati – laureati in scienze umane, in sociologia eccetera – che offrono un loro contributo, spiegano il progetto, rispondono a domande d’ogni tipo sulla valenza di quello che è l’Arbeitsproblem. Uno di loro, la scorsa settimana, quando sono andato a visitare la mostra, mi diceva che, per quanto ci sia da parte sua e del team scelto dagli artisti una grande apertura verso il pubblico (del resto lui è lì per parlare con il pubblico), difficilmente le persone si soffermano a fare domande: e anzi cercano di evitare un incontro di sguardi, consapevoli che quell’incontro possa creare un primo, inevitabile contatto, o meglio muto rapporto dialogico.
Se İşsiz İşçiler-sana yeni bir iş buldum! mette in discussione i metodi di formazione, la furbizie delle politiche di turno e gli affari che si fanno intorno a tanti poveri ragazzi che aspirano semplicemente a un loro posto in società, Laboratuvar İşi (Lab Created, 2006-2018) è un ambiente altrettanto potente e immersivo che, progettato e realizzato sempre a due mani, richiama l’attenzione sulla politica in Turchia e sui suoi riguardi nei confronti dell’acqua e dell’ambiente. Laboratuvar İşi è una scenanografia che riproduce un laboratorio per le analisi delle acque (e su una parete sfilano analisi reali, realizzate dagli artisti in varie occasioni espositive), ma anche un’analisi sui cambiamenti politici e sulle sue contraddizioni in merito a problematiche quali l’inquinamento, l’intossicazione, la distruzione dell’habitat.
Tra i piani del museo seguono, poi, lavori eccezionali, realizzati dai due artisti negli anni. Di Aydan Murtezaoğlu (Istanbul, 1961), c’è un ambiente – İsimsiz (Untitled, 1999) – sull’emergenza, dove una figura alata è sospesa (sulla maglia che indossa si legge GREV, ovvero sciopero – quasi uno sciopero divino, verrebbe da dire uno sciopero degli angeli) e alcuni segnali, Emergency o Rakım istiap Haddi, sono indicazioni che si dissolvono in un gioco poetico, fatto di luci e di ombre. Suo anche l’ironico e pungente Manzara (Landscape, 1996), un triangolo di soffice mare realizzato in materiale sintetico su cui sono collocate (e mimano il galleggiamento) ventuno bottiglie di plastica bianca che a primo acchito sembrano innocue papere (sul vertice del triangolo, ad altezza occhi, e poco leggibile, c’è una fotografia, un documento che attesta il grado di inquinamento a cui siamo ridotti). Anche di Bülent Şangar (Eskişehir, 1965) ci sono lavori effervescenti che invitano a riflettere su un’atmosfera più intima, più strettamente legata alla privatezza e ai ricordi non solo personali, ma anche familiari. Con un gioco accattivante Şangar, inscena, ad esempio, la sua morte, presentando, dietro una sala, alcuni manifesti funebri – l’opera si chiama İsimsiz (Ölüm İlanı) / Untitled (Death Notice), 1994 – dove il gioco sagace delle parole lascia intendere che tutto scorre, che le notizie vengono spazzate quotidianamente dal vento di nuove e fresche notizie, che il temporaneo, come questa mostra, ha vita breve.
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