Il jazzista-filosofo al call center

Per una fenomenologia del lavoro contemporaneo

Fiamma Montezemolo,Neon Afterwords, 2016, courtesy Kadist 3
Fiamma Montezemolo, Neon Afterwords, 2016 - Courtesy Kadist.

Obiettivo di questo contributo è fornire, alla luce del pensiero di Paolo Virno, una differente chiave di lettura della pratica dialogica a sfondo filosofico, nota come consulenza filosofica. Virno è chi, forse più di ogni altro all’interno dell’ampia costellazione degli studi sulla prospettiva immateriale del capitalismo contemporaneo, ci fa vedere che la biopolitica, come potere della e sulla natura umana, si conficca dentro la questione del linguaggio. Decifrando la copertura ontologica dell’attuale sistema economico-politico, mostra che l’odierno processo di produzione si basa sulla valorizzazione di tutto ciò precedentemente considerato marginale: le prestazioni comunicative, i processi mentali, l’immaginazione, le attitudini linguistiche e cognitive – in una parola la natura umana.

Diversamente da quanti la considerano un fenomeno passeggero, una moda, un espediente per trovare un impiego, la consulenza filosofica – che da oltre trent’anni tenta di riattualizzare il concetto di filosofia attraverso una sua riabilitazione in senso pratico – rappresenterebbe un’operazione strettamente connessa alla qualità dell’economia-politica contemporanea. Si assume nei suoi confronti, cosa che i consulenti non fanno a meno di rimarcare, una certa postura scettica, una totale approssimazione e infine un diffuso snobbismo. Capita di notare il modo superficiale con cui vengono sciolti alcuni nodi problematici che la questione fa emergere. Vi sarebbe perfino una certa faziosità – interna ed esterna – che vedrebbe, da un lato, chi parteggia entusiasta per un modo inedito di fare filosofia e dall’altro chi, ridicolizzando il fenomeno, lo liquida in maniera fin troppo sbrigativa.

Senza dubbio la consulenza filosofica intercetta un bisogno, coglie un’insofferenza nei confronti dell’attuale situazione accademica, rivendica la possibilità di fare della filosofia un’esperienza del pensiero, attraverso il programma generale di riportare la filosofia tra le pratiche quotidiane. Ad ogni modo intenzione di queste pagine non è entrare nel merito dell’ampio dibattito di cui la consulenza filosofica è protagonista, quanto evidenziare, grazie alla lente d’ingrandimento offerta da Virno, la sua iscrizione inconsapevole, misconosciuta e non dichiarata, al paradigma immateriale/linguistico del lavoro contemporaneo. In questo modo emergerebbe un’inedita saldatura tra questa nuova forma di filosofia del linguaggio e il destino immateriale dell’economia contemporanea.

Secondo un’intuizione di Virno, il capitalismo contemporaneo post-fordista trasforma il fondo biologico della nostra specie (la natura umana) nel fattore principale di produzione della ricchezza. Definita come un invariante biologico – ossia quell’elemento specie specifico che caratterizza l’uomo in quanto Homo sapiens e che non è sottoposto a variazione temporale – alla natura umana corrispondono tre caratteristiche filogenetiche della specie: non specializzazione, neotenia e disambientamento1. Questi elementi si concretizzano in tre forme sociali storicamente determinate e plasticamente messe in forma nel sistema economico odierno: linguaggio, formazione permanente, flessibilità.

Linguaggio e non specializzazione

Nella prospettiva virniana la mancanza di specializzazione degli istinti dell’uomo (non estrinsecabili in abilità ambientali univoche come negli animali) corrisponde al concetto aristotelico di dynamis, come di ciò che non si dissipa con l’atto ma che si rigenera in un’inesauribile creatività infinita2. Erede della tradizione aristotelica e di un certo filone dell’antropologia filosofica Virno identifica la carenza istintuale con la potenzialità congenita del linguaggio, definendo quest’ultimo la caratteristica principale della natura umana – ciò che fa di un uomo un uomo: «l’animale che ha linguaggio è un animale potenziale. Ma l’animale potenziale è un animale non specializzato»3. L’innatismo biologico mischiato alla tradizione ontologica interpreta il linguaggio da un lato come «capacità puramente in potenza di parlare», «il poter dire in quanto tale»; dall’altro lato la concezione, che Virno eredita da Saussure, comporta un’analisi non strumentale, trans-individuale, fisiologica e storica del linguaggio.

Si tratta di mostrare come l’attuale capitalismo assume la modalità fatica/performativa del linguaggio che si sofferma non sulla struttura delle singole lingue storicamente determinate e del contenuto semantico degli enunciati – «ciò che si dice» – ma sul «fatto che si parla» – «l’aver preso la parola rompendo il silenzio, l’atto di enunciare in quanto tale, l’esposizione del locutore agli occhi degli altri»4. Appartengono alla comunicazione fàtica tutte quelle frasi stereotipate – «si, pronto», «io ti battezzo», «scommetto che», «giuro che» – in cui il solo fatto di pronunciarle produce l’azione, in cui non si pronuncia qualcosa di semanticamente pregnante ma si manifesta la predisposizione a comunicare (a manifestarsi come parlante) e la disponibilità a farlo: non dico cosa faccio ma faccio qualcosa dicendola. Dal momento che l’esecuzione coincide con il risultato, dunque, nei performativi, che non possono semplicemente essere pensati ma devono essere pronunciati, è l’enunciazione che fa essere le cose. Come dice Virno: si «parlagisce». Il nostro sistema produttivo dà piena visibilità alla dynamis in quanto tale, mettendo cioè a lavoro la basilare dimostrazione della potenzialità biologica del linguaggio. In una forma del tutto inedita parlare (nel senso di inattitudine istintuale non specializzata) diventa il principale requisito del lavoratore odierno: «la comunicazione fàtica («pronto, pronto», «si, ci sono») è diventata un modello di comportamento lavorativo»5.

L’attuale sistema economico imbastisce l’organizzazione del lavoro secondo criteri meramente biologici identificando la figura del lavoratore con un individuo capace di condividere i propri originari dati linguistico-cognitivi: «Trent’anni fa in molte fabbriche c’erano cartelli che intimavano silenzio, si lavora. Chi lavorava taceva. […] Oggi in certe officine, potrebbero figurare degnamente cartelli speculari a quelli di un tempo: qui si lavora, parlate!»6. Laddove nel fordismo agli operai l’accesso al linguaggio o è preventivamente interdetto oppure serve a progettare verticalmente i modi e i tempi della coordinazione tra i vari livelli; nel postfordismo, invece, vi è una continua esortazione a utilizzare il linguaggio come mezzo e strategia indispensabile per aumentare la produttività, per mettere in circolo saperi, energie mentali, competenze. Il post-fordismo si presenta, quindi, come una produzione «chiacchierona» in cui «tutti i lavoratori entrano in produzione in quanto parlanti-pensanti»7 – e nella quale il linguaggio arriva a coincidere con il concetto di produzione stesso. Gli atti linguistici, la rete di immagini e di prestazioni simboliche – il «lavorare comunicando» di Marazzi – oltre ad accompagnare la generazione del prodotto, la sua produzione ed esecuzione si trasformano qui in strategia della cooperazione comunicativa consistente nell’appropriazione da parte del capitale (in termini di valorizzazione) del general intellect, ossia della forza produttiva sociale che la cooperazione sprigiona8.

Un’interazione linguistica è possibile proprio grazie all’indole pubblica del pensiero, che irrompendo nel processo produttivo, cessa di essere un’attività inappariscente e diventa comunicazione, linguaggio, dialogo, catturata e messa a lavoro dal capitale. Interpretato da Virno come risorsa comune alla specie, patrimonio collettivo di attitudini comunicative e cognitive, di astrazione, immaginazione, di meta-rappresentazione condivise originariamente e prima di qualsiasi socialità possibile, il general intellect rappresenta il fondo comune dal quale qualsiasi socialità prende forma. Biologia e ontologia: i lavoratori cognitivi condividono la loro natura comune che non interviene in un secondo momento ma appartiene alla natura transindividuale della mente.

Neotenia e formazione permanente

Virno riprende questo plesso di elementi teorici dalla teoria paleoantropologica, la quale considera l’uomo un animale incompleto, lacunoso, immaturo, a causa di una serie di ragioni evolutive che non gli permettono di completare lo sviluppo prima della nascita. Di conseguenza l’uomo è condannato allo statuto di infante permanente – chi non ha ancora la parola (infans) – di locutore in potenza «potenza-di-dire che, come tale, è ancora un non-dire»9.

L’uomo, dunque, è definito come un essere che non sa fare nulla, instabile e destinato a un apprendimento ininterrotto, un cronico inadattamento a cui devono sopperire i dispositivi sociali e culturali. Questa caratteristica biologica tipica dell’animale umano, sarebbe resa produttiva dal capitalismo contemporaneo che sfruttandone la congenita incompletezza fa della facoltà di apprendimento, inteso come sperimentazione e ambientamento perenne, un modo di essere, una necessità sociale e un requisito professionale. Il lavoratore odierno, proprio come un’esponente dell’Homo sapiens (o sarebbe più giusto dire proprio perché) si sottopone ad una continua catena di apprendimenti lungo tutto l’arco della vita lavorativa (e non): «la formazione non ha fine. […] Lavorare significa, in certa misura, ri-formarsi»10. Questa disponibilità di apprendere che non si dissolve in ciò che si apprende ma nella mera esibizione di essere capaci di apprendere, questa capacità di saper imparare (imparare ad imparare) diventa lo statuto naturale del lavoratore contemporaneo.

Disambientamento e flessibilità

Dato che la nostra specie non possiede un ambiente circoscritto delimitato da istinti precostituiti ma si ritrova bombardata da una miriade di sollecitazioni ambientali, di fronte alle quali non ha un sistema operativo già prestabilito, non ha la possibilità di tradurre ciò che percepisce in «un da fare». Questa insicurezza, questa precarietà ambientale e biologica condanna l’uomo a una mobilità tale da renderlo estremamente disorientato, duttile, ergo flessibile. Il sistema socio-economico traduce il disambientamento nella regola sociale dell’universale e indiscriminata flessibilità. Prima ancora di essere un imperativo volto allo snellimento della produzione e all’allargamento dei mercati sulla base di specifiche congiunture economiche, la flessibilità indica una «forma di vita», una modalità di stare al mondo. Flessibilità è sinonimo di abitudine alla mobilità, duttilità tra possibilità alternative, intraprendenza, capacità di cambiare in maniera indifferente lo spazio e l’impiego lavorativo e di giostrarsi in varie e indeterminate mansioni all’interno dello stesso incarico lavorativo: «la dimestichezza con l’instabilità, l’addestramento alla precarietà, la prontezza nel fronteggiare l’imprevisto»11. Si può dire allora che il talento che conta nella produzione postfordista è quella di non avere talenti, nella misura in cui ciò che è richiesto appartiene già da sempre al nostro patrimonio filogenetico. Qualora si possedesse una competenza univoca, una specializzazione dettagliata, una qualità determinata e determinante si sarebbe destinati ad essere rigettati dal sistema in quanto, conviene dirlo, contro-natura.

Tutte e tre i requisiti costituiscono l’epifenomeno biologico dei capisaldi della società post-fordista e allo stesso tempo le forme di soggettività richieste e prodotte dall’organizzazione del lavoro: mente-lavoro, formazione permanente e flessibilità. Soggettività, si badi, che non derivano da generazioni di disciplinamento industriale quanto piuttosto da una socializzazione trans-individuale e «metropolitana» che ha forgiato una serie di comportamenti collettivi extra-lavorativi e che ha il suo epicentro fuori del tempo di lavoro, durante una prolungata permanenza in un tempo di precarietà. Tutte e tre si trasformano in competenze di tipo professionale, pur rappresentando, beninteso, la fine di qualsiasi professionalità appresa durante un percorso scolastico-universitario. Ne consegue un vero e proprio cortocircuito tra la sfera della professionalità e quella personale: l’incapacità di essere dei soggetti specializzati diventa la prerogativa fondamentale per essere ingaggiati nel sistema lavorativo, poiché di fatto una tale incapacità segnala la disponibilità completa a fare esperienza in tutti i campi. La non specializzazione diventa, quindi, una forma di specializzazione – specializzati nell’essere disposti a vivere – dato che la più importante competenza del lavoratore contemporaneo è l’essere il più aderente possibile alla propria forma biologica. Con il modo di produzione contemporaneo la classica distinzione aristotelica – riproposta poi da Arendt – delle tre dimensioni dell’agire umano in lavoro (poiesi), azione politica (prassi) e intelletto (vita della mente) salta in aria. Si consuma un totale appiattimento tra le competenze di natura politica e quelle richieste dal mercato del lavoro; il lavoro postfordista acquisisce nella fattispecie i connotati dell’azione politica: la facoltà di comunicare, l’indole pubblica, «l’esposizione agli occhi degli altri», la relazione con la presenza altrui, il virtuosismo, la mancanza di opera. Ciò non di meno acquisisce, come abbiamo visto, quelle del linguaggio verbale e dell’intelletto: «prestazione virtuosistica»12, improduttivo, «senza opera»13, pubblico.

Virtuoso in Virno assume il significato di performativo, un’attività che trova il proprio compimento in sé stessa, senza materializzarsi in un’opera durevole, in un prodotto che sopravviva all’esecuzione: rientrano in questa categoria i lavoratori «improduttivi e servili» di Marx (il pianista, la ballerina, l’insegnante). Sulla falsariga del problema marxiano della categorizzazione di queste figure «non operaiste» che si muovono fuori dallo schema del plusvalore Virno rintraccia nel lavoratore del call center il prototipo della produzione attuale della ricchezza. Per capire come funziona il lavoro oggi bisogna guardare all’impiegato del call center: semplice parlante che non ha bisogno di copione poiché si limita ad eseguire il non-spartito del general intellect; doppiamente virtuoso poiché non produce un’opera distinta dall’esecuzione e non possiede un’opera anteriore all’esecuzione. Coerentemente con la sua natura linguistica l’unico modello base del virtuosismo consiste nel non-modello dell’improvvisazione, quindi la pura flessibilità, non-specializzazione e potenzialità dell’atto del parlare. La cifra ultima del capitalismo post-fordista sta proprio nella trasformazione della produzione in un’operazione virtuosistica di messa in opera dell’esperienza linguistica in quanto tale, una performance in cui il lavoratore è un virtuoso della parola, un artista esecutore. Nel postfordismo parlare è un lavoro in cui ne va della politica.

Quando nel 1981 Gerd Achenbach apre il primo studio di consulenza filosofica ha in mente un’idea tutto sommato semplice, seppur senza dubbio innovativa: fornire consulenze a individui non filosofi – detti consultanti, clienti o ospiti – che la richiedono per motivi di varia natura: disagi esistenziali, familiari, personali, questioni di natura amorosa, lavorativa14. Il problema concreto delle persone rappresenta il pretesto della «relazione» e l’occasione che innesca la conversazione. Per questo motivo si parla anche di «filosofia occasionata». Alla domanda «Perché dovrebbe meritare l’appellativo filosofico?» la letteratura in merito risponde generalmente tramite una tautologia: la consulenza è filosofica perché durante la consulenza «si fa» filosofia e nient’altro che filosofia. Ancora meglio la consulenza filosofica è filosofia, coincide interamente con la filosofia tout court: «ciò che fanno il consulente filosofico e il consultante è filosofare»15.

Non a caso, infatti, la polemica contro il sistema e l’ambiente dell’università, considerato il luogo di sepoltura della filosofia, rappresenta la ragion sufficiente della consulenza filosofica. L’università appare come una «gabbia dorata», un ghetto accademico in cui la filosofia «ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli uomini»16. Mera «filastrocca di opinioni», sapere esclusivo della comunità dei filosofi che sono diventati «amministratori del concetto», la filosofia parlerebbe oggi un linguaggio autoreferenziale, astratto e anacronistico a dimostrazione del suo totale scollamento dalla realtà, dai vissuti quotidiani delle persone. Oltre il binomio normalizzante di malattia-sanità, che agisce dentro una cornice inevitabilmente terapeutica – «chi chiede una consulenza filosofica è spesso qualcuno che non si sente malato»17 – la consulenza filosofica, smarcandosi dalla dimensione psicologica ed evitando di impelagarsi nella dimensione inconscia dei vissuti, imprime un inedito atteggiamento riflessivo volto all’interpretazione e alla comprensione di questioni insolute.

Ciò non di meno la figura del consulente non può essere equiparata a quella di un insegnante di filosofia. Lo dimostra il fatto che per essere dei buoni consulenti di professione, ergo filosofi, conoscere tutto il patrimonio di idee accumulato in secoli di storia della filosofia non appare minimamente sufficiente. Quasi tutti i teorici della consulenza concordano sul fatto che è una volgare semplificazione la critica che le viene mossa, quella secondo cui nella consulenza si veicolano nozioni erudite sotto forma di suggerimenti per vivere bene: come se a chi richiede una consulenza il consulente prescrivesse di leggere 5 pagine di Platone, di Marco Aurelio o di Heidegger18. Una seduta di consulenza non consiste in una biblioteca di dottrine alle quali attingere nel momento del bisogno, quanto piuttosto in una esperienza di pensiero. Il consulente, che possiamo considerare un filosofo solamente perché possiede l’attitudine alla filosofia, non deve impartire lezioni ma «estrarre» maieuticamente dal suo cliente la capacità di mettere in moto il pensiero attraverso l’instaurazione di un rapporto dialogico che ha come fine: «aiutare i consultanti a esporre e a chiarificare la rete di concetti e di idee che soggiace agli aspetti rilevanti delle loro vite, analizzare i concetti base che caratterizzano i loro diversi atteggiamenti, scoprire ed esaminare i presupposti celati nei loro modi di vivere, esplorare le interconnessioni concettuali o in breve analizzare la filosofia di vita che la persona sta vivendo»19. Attraverso questo processo di «illuminazione», e di apertura verso nuovi orizzonti di significati il cliente verrà aiutato a trascendere il suo modo di essere attuale raggiungendo così una comprensione più profonda di sé stesso e del mondo.

Nella consulenza filosofica, infatti, si imbastisce una relazione, che è immediatamente una relazione di lavoro, paritetica quanto a dignità, responsabilità, valutazione delle idee. Il consulente non si trova in un rapporto di superiorità rispetto al suo ospite, né in quanto a conoscenze (non è importante che lui ne sappia di filosofia mentre l’ospite no), né possiede un sistema di valori e credenze più saldo o più giusto rispetto alla persona in crisi. Allo stesso modo non si fa carico del suo ospite lasciandolo libero in merito alle proprie decisioni20. Questa de-responsabilizzazione ha direttamente a che fare con l’assenza di una vera e propria finalità volta alla risoluzione del problema posto in consulenza. Proprio perché si distingue da una relazione di aiuto e da una terapia psicologica la consulenza fornisce un’altra angolazione del problema e non la soluzione dello stesso; non è problem solving bensì problem adding. Coerentemente con lo spirito della filosofia che non concilia, ma deve servire a problematizzare, il filosofo consulente non ha uno scopo, non serve a fornire o soddisfare bisogni (fosse anche quello di stare bene o vivere meglio)21. Di questa sbandierata inutilità della filosofia si fa sfoggio nella relazione consulenziale che costruisce una forma di lavoro completamente e interamente comunicativa la cui unica ragione d’essere sta nell’esperienza linguistica stessa. In questo senso chiunque sceglie di mettere in moto il pensiero è ritenuto, a buon diritto, un filosofo, e quindi un consulente.

Ma in cosa si traduce, precisamente, questa attitudine filosofica? In un elenco infinito di comportamenti verbali (addurre ragioni, saper costruire inferenze, saper valutare gli argomenti, saper mettere in discussione le giustificazioni, riconoscere le contraddizioni e la coerenza, «il fare previsioni, il formulare e mettere alla prova le ipotesi, l’offrire esempi e controesempi, la correzione del proprio pensiero, la formulazione e l’uso dei criteri, la scoperta della vaghezza e dell’ambiguità, la richiesta di prove»22) e non verbali (la prossemica dell’ascoltare con rispetto le posizioni altrui).

Il consulente filosofico non offre contenuti, «teorie preconfezionate», ma, in primo luogo, abilità filosofiche come l’analisi concettuale, la deduzione, la descrizione fenomenologica, la «flessibilità intellettuale ad adattarsi a informazioni che si accumulano velocemente e cambiano»23; «il puro pensiero»24. Affinché possa dirsi tale, deve coltivare un infinito materiale «vitale», che proviene dal vissuto quotidiano tanto suo quanto del consultante, attingendo (non solo è permesso ma esplicitamente richiesto) al proprio percorso formativo, alle proprie qualità caratteriali, a tutte le capacità comportamentali che provengono dall’esperienza extra-lavorativa e che collaborano a renderlo un oratore affabile, «un abile partner in un dialogo»25. Deve, insomma, dimostrare di saper vivere e di utilizzare bene la sua capacità di farlo.

A tutto questo si aggiungano poi le capacità interpersonali grazie alle quali la relazione basica Io-Tu si trasforma in una micro-rapporto di lavoro26. Non a caso, infatti, la letteratura in merito consiglia di «imparare» simpatia – come tensione e partecipazione – verso la vita dell’altro al fine di entrare «filosoficamente in dialogo con essa»27. In alcuni casi, ma si tratta di un tema dibattuto, sarebbe necessario sguainare quella riserva di «competenze emotive» quali l’empatia, l’immedesimazione, la sensibilità, l’amore (philos), mantenendo, tuttavia possibilmente una deontologica distanza. Difficile non riconoscere in questo elenco di competenze – «idealmente così tante che non è possibile né elencarle in modo esaustivo, né pretendere di possederle realmente tutte»28 – le caratteristiche logico-linguistiche-emotive specie-specifiche di Virno.

Questa descrizione del lavoro come di una conversazione in cui si condividono idee, pensieri e esperienze, una messa a lavoro di ciò che avviene tra le persone in cui tutte le conoscenze e le abilità personali/private sprigionano la loro potenza nella relazione inter-individuale fanno risuonare l’imperativo del lavoro immateriale il cui segreto, come abbiamo visto, sta nella valorizzazione dell’imprevedibilità e dell’estemporaneità del general intellect. Con la consulenza filosofica, come pratica di natura essenzialmente dialogica, si assiste alla messa al lavoro del linguaggio, e ancora meglio del dialogo come forma più creativa e autenticamente filosofica29. Un dialogo che si costruisce in comune tra due soggetti ugualmente razionali, ugualmente autonomi, ugualmente liberi: due homini sapiens che condividono le caratteristiche filogenetiche di Virno. Nessuna competenza particolare allora: solo linguaggio (saper parlare), formazione permanente (saper imparare-fare), flessibilità (saper vivere). La sola competenza per essere un buon consulente (ma pure consultante) è l’universale capacità intellettiva e la disposizione all’ascolto e al dialogo: deve ascoltare e parlare.

Del resto Achenbach sembra descrivere magistralmente la flessibilità della specie umana quando definisce il filosofo «lo specialista del non-speciale»30. Siamo tutti filosofi – perché ognuno di noi possiede una propria visione del mondo – dicevamo prima; eppure nessuno lo è, se filosofare si identifica con con il mero vivere. Un vero filosofo infatti, non sa fare niente perché potenzialmente sa fare tutto: possiede una capacità adattativa a tutto tondo in relazione a qualsiasi contesto, circostanza e imprevisto. Lavorando con il logos, nella consulenza filosofica il linguaggio si fa veramente performativo; seppur non è secondario il significato di ciò che si dice, ancora più importanza assume il fatto che due persone dialogano e che parlando stanno agendo, stanno realizzando un esercizio verbale il cui fine è tutto interno alla circolarità dell’esercizio stesso. La consulenza filosofica appare una pratica fàtica in cui il linguaggio produce per il solo fatto di essere pronunciato.

Inutile dire che nonostante la proliferazione di masters, workshops, corsi online, convegni e seminari, per conseguire l’infinità di skills di cui sopra non esiste nulla che possa somigliare a un corso di formazione. Al contrario: la formazione stessa diventa anch’essa un lavoro filosofico personale. Se infatti la consulenza si presenta come un percorso di ricerca, il consulente che vive la sua vita filosoficamente, vivendo, costruisce il suo cammino formativo per essere consulente: si deve essere capaci di vivere filosoficamente la propria vita per potere imparare a vivere filosoficamente la propria vita. In questo circolo vizioso anche il consulente condivide la sorte del lavoratore immateriale: un infante cronico dedito a una formazione che coincide con l’intero arco della vita. Il saper fare della consulenza corrisponde appunto all’abilità a non avere (di fatto) abilità.

Trattandosi di un percorso che si costruisce facendosi – «una meta-teoria praticante» – non esiste un metodo univoco e valido per tutti attraverso il quale orientare aprioristicamente il processo operativo del lavoro di consulenza. È nota, ed assai utilizzata, l’affermazione di Achenbach secondo cui la consulenza non ha un metodo ma lavora sui metodi31. Si definisce (l’assenza di) metodo un abito personale; un’operazione in fieri, uno stile di vita «libero e naturale» che non si impara ma si acquisisce vivendo.

Ciò fa dire a Pollastri che il lavoro del filosofo consulente è un lavoro di improvvisazione. Improvvisare vuol dire non legarsi a un procedimento fisso, schematico, scientifico, infallibile; al contrario, né tanto meno mancanza di preparazione, di superficialità e di pressapochismo; significa essere flessibili32. A tal proposito Pollastri ricorre alla figura del jazzista, colui che «sa saper suonare suonando», componendo cioè sul momento, just in time, senza spartito: «la consulenza filosofica è composizione istantanea»33. Sebbene suoni improvvisando il bravo jazzista conosce il suo strumento, sa connettersi coi suoi compagni, sa ascoltare le circostanze e accontentare il pubblico, sa combinare la conoscenza teorica degli stili musicali al proprio talento. Allo stesso modo il consulente ideale calibra in maniera creativa la sua preparazione libresca – che dà «al suo lavoro identità, riconoscibilità e dignità «scientifica»34 con la sua (im)preparazione «naturale», cognitiva-emotiva. Deve restare in uno stato intermedio tra la preparazione e l’impreparazione; ancora meglio, dovrebbe essere preparato per la sua impreparazione, consapevole, cioè, del fatto che la vita è sempre una materia sulla quale non si può essere preparati.

L’abitudine a non avere abitudine dell’animale umano diventa il non-metodo dell’improvvisazione di Pollastri. Al pari del lavoratore postfordista il consulente si presenta come un artista esecutore la cui specificità è quella di essere un locutore senza spartito votato all’improvvisazione. Il consulente possiede tutte le caratteristiche del lavoratore immateriale: un lavoro virtuoso il cui prodotto coincide con la performance, che ha carattere pubblico e che non ha bisogno di uno spartito. Anche i filosofi, quindi, come gli impiegati del call center sono dei lavoratori virtuosi che producono e consumano linguaggio. La consulenza filosofica si configura come un libero esercizio del pensiero, anti-strategico e non finalizzato, un gesto inoperoso, gratuito, quasi artistico, che si realizza attraverso il dialogo35. Pratica di discorso svuotata dall’interno del proprio contenuto, questione linguistica nella quale il procedimento dello svolgimento del pensiero e della sua verbalizzazione ottiene il ruolo manifestamente centrale, la consulenza filosofica condivide lo stesso paradigma immateriale del lavoro contemporaneo.

Ignorando completamente la natura linguistica del capitalismo che respiriamo, Pollastri e Cervari, sintetizzano l’emarginazione del ruolo sociale della filosofia con il monito utilitaristico dell’efficienza: «Qui si lavora, non si fa filosofia!»36. Questa prossimità particolare tra la natura linguistica della produzione capitalistica contemporanea e la natura linguistica della consulenza filosofica, ci porta, allora, a rovesciare l’esclamazione: «Qui si lavora, si fa filosofia!». Il filosofo consulente è un virtuoso della parola che lavora parlando.

Note

Note
1Cfr. P. Virno, Diagrammi storico-naturali. Movimento new global e invariante biologico, in «Forme di vita», n. 1/2004, p. 105.
2P. Virno, Scienze sociali e natura umana. Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubettino, 2003, p. 34. Virno si richiama a un filone di studi di biologi (Gould), paleontologi (Leroi-Gourham), antropologi (Herder, Gehlen).
3Ibidem.
4P. Virno, Scienze sociali e natura umana, cit, p. 62. Oltre a Saussure, Virno eredita le teorie di Simondon. Cfr. P. Virno, Neuroni mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento in «Forme di vita», 2-3/2004, pp. 198-206.
5P. Virno, Scienze sociali e natura umana, cit., p. 66. Cfr. Id., Convenzione e materialismo, L’unicità senza aura, DeriveApprodi, Roma 2011.
6Ibidem. Cfr. P. Virno, Mondanità. L’idea di mondo tra esperienza sensibile e sfera pubblica, manifestolibri, 1994
7P. Virno, Grammatica della moltitudine, Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Rubettino, 2001, p. 33.
8Cfr. C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, 1994.
9Ivi, p. 36.
10P. Virno, Grammatica della moltitudine, cit., p. 52.
11Ivi, p. 51.
12Ibidem.
13P. Virno, Mondanità, cit., p. 111.
14Sulla storia e sui vari nodi della consulenza filosofica si rimanda ad alcune numerose guide: R. Màdera – L. Vero Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, 2003; AA.VV., Filosofia Praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo editore, 2008; AA.VV., Il counseling filosofico. La saggezza in pratica, Sovera, 2012.
15R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, 2004, p. 57. Cfr. N. Pollastri, Consulente Filosofico cercasi, Apogeo, 2007; G. Achenbach, Una breve risposta alla domanda: «Che cos’è la pratica filosofica?», in «Phronesis», n. 0/2003, pp. 13-18.
16G. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, 2004, p. 24.
17S. Contesini – E. Zamarchi, Sensibilità filosofica. L’esercizio della comanda per gli individui e per le organizzazioni, Apogeo, 2009, p. 25. Cfr. T. Possamai, Consulenza filosofica e postmodernità. Una lettura critica, Carocci, Roma 2011.
18Cfr. Lou Marinof, Platone è meglio del prozac, Piemme, 2001 e M. Sautet, Socrate al caffé, Ponte delle Grazie, 1998
19R. Lahav, Comprendere la vita, cit., p. 59.
20Cfr. G. Randazzo, La svolta filosofica. Consulenza filosofica e relazioni d’aiuto, Erga, 2008.
21R. Lahav, Comprendere la vita, cit.,p. 58. Cfr. G. Giacometti, La consulenza filosofica come professione. Aporetica di un’attività complessa, in «Phronesis», n. 7/2006, pp. 37-98.
22P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, 2006, cit., pp. 173-174.
23R. Lahav, Comprendere la vita, p. 175.
24Ivi, p. 21.
25Ivi, p. 127.
26Cfr. A. Dal Lago, Il business del pensiero, manifestolibri, 2007; M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, 2015.
27G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 83. Cfr. L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Cortina, 2006; M. Cavallé, La consulenza filosofica e le emozioni: un’applicazione degli insegnamenti di Epitteto, in «Phronesis» n. 8/2007, pp. 41-66.
28N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, cit., p. 66.
29Cfr G. Giacometti, Platone 2.0, La rinascita della filosofia come palestra di vita, Mimesis, 2016, p. 478.
30G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 22.
31N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, 2004, p. 215.
32Cfr. N. Pollastri, La filosofia è una pratica filosofica? Per una più precisa classificazione delle attività filosofiche extra muros, in F. Coniglione, Interpretare, vivere, con-filosofare. Studi in memoria di Rosaria Longo, Bonanno, 2011.
33N. Pollastri, La consulenza filosofica come «pura» filosofia, in AA. VV., Pratiche filosofiche e cura di sé, Mondadori, 2006, p. 183. Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo, Einaudi, 2004.
34Ivi, p. 184.
35N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, cit., p. 72. Cfr. D. Miccione, Achenbach come educatore. Considerazioni inattuali sulla pratica filosofica, in D. Miccione – N. Pollastri, L’uomo è ciò che pensa, cit.
36P. Cervari – N. Pollastri, Il filosofo in azienda. Pratiche filosofiche per le organizzazioni, Apogeo, 2010, p. 17.

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