A cosa serve la psicoanalisi?
Un libro di Alessandra Ginzburg su Matte Blanco
Si dice che Ignacio Matte Blanco, psicoanalista cileno della terza generazione, cioè «figlio» dei «figli» diretti di Freud, arrivato in Italia negli anni Settanta idealmente collocabile nel solco della tradizione bioniana, abbia importato e nobilitato il concetto di infinito nella teoresi psicoanalitica contemporanea. Questo è vero ma, a mio avviso, ha compiuto una seconda mossa: ha introdotto nel paradigma psicoanalitico l’istituto della somiglianza, il più effimero e opinabile dei dispositivi cognitivi e gnoseologici, cioè funzionali a sapere quello che è dato sapere.
Noi non sappiamo se Matte Blanco abbia letto il Focault de Le parole e le cose, ma è piuttosto suggestivo osservare come l’adozione della somiglianza da parte dello psicoanalista cileno non sia solo un gingillo preso in prestito per la formulazione del suo modello teorico ma il dispositivo stesso, come spiega il pensatore francese nella sua opera, che lega le cose alle parole e queste fra di loro. Ma a ben vedere, non è psicoanalisi questa? Certo che lo è! Insomma la somiglianza per quanto effimera e opinabile non è un divertissement dell’uomo parlante ma una testata d’angolo del suo parlare, sapere e sapersi, e gli stranianti e psichedelici effetti della somiglianza sono noti dalla notte dei tempi. Come sempre accade ai pensatori di ogni tempo, prima o poi ci si imbatte in un testo o anche solo in un aforisma che rammenta, ogni volta più inesorabile di un memento mori, che tutto il pensabile e il dicibile lo aveva già pensato e detto Aristotele o Platone o entrambi. Aristotele da «Il sonno e i sogni»: «da una piccola somiglianza sembra all’uno di vedere i nemici e all’altro la persona amata, e quanto più la passione lo prende, tanto minore è la somiglianza da cui queste cose dipendono». Platone da «La Repubblica»: «Sognare non vuol dire forse che uno, sia nel sonno sia da sveglio, considera due cose che si assomigliano non solo simili tra loro, ma addirittura la stessa cosa?»
Dunque possiamo sostenere, con un po’ di audacia e amore per la sintesi, che il pensiero di Matte Blanco ed il volume di Alessandra Ginzburg, La stoffa di cui sono fatti i sogni e le emozioni. Per un’applicazione clinica del pensiero di Matte Blanco (Alpes, 2021), al suo maestro dedicato, altro non sono che uno sviluppo di questi aforismi, la loro declinazione nella clinica psicoanalitica. Stavo per dire «clinica dell’inconscio» come se l’inconscio fosse una malattia da curare, convincimento, questo, che infetta clandestinamente la psicoanalisi dalla sua nascita e che smentiremo con la solennità che merita, nelle ultime righe di questo scritto. Avevamo lasciato Alessandra Ginzburg nel 2011 quando diede alle stampe per Pacini editore Il miracolo della analogia. Saggi su letteratura e psicoanalisi, un volume in cui rilanciava, lasciandosi permeare dall’atmosfera Matteblanchiana, la prospettiva del rapporto fra letteratura e psicoanalisi, secondo cui è soprattutto quest’ultima ad avere da imparare dall’incontro con i testi letterari.
La letteratura più funzionale al suo progetto era, ovviamente, quella più straniante: dal Castello di Kafka alla Ricerca di Proust, da L’uomo della sabbia di Hoffman a Il dottor Jekyll e mr. Hyde di Stevenson. D’altronde la parola «Ginzburg» è un significante che da solo descrive una classe (così la definirebbe Matte Blanco) di pratiche dove la parola scritta, al di là del genere letterario, non è esattamente un dettaglio ma cifra, cicatrice, cordone ombelicale; non può non lasciare una traccia. Non v’è dubbio che la psicoanalisi e la letteratura possano nutrirsi a vicenda facendo molta attenzione, tuttavia, a evitare con rigore di fare di questo incontro, una clinica psicoanalitica dei personaggi o ancor peggio, degli autori. Lo stesso impianto psicoanalitico delle origini, del padre fondatore, ha adottato un testo drammaturgico per dire quanto aveva da dire ma guardandosi bene dal fare una chiosa psicoanalitica di Sofocle o di Edipo, protagonista della sua opera; Freud aveva invece intuito come quel racconto di mitologia antica avesse la potenza di spiegare meglio di cento libri di psicoanalisi come vanno le complicate e ambivalenti cose umane del profondo.
Certo con quel delizioso volume la Ginzburg non rese un buon servizio alla causa di Matte Blanco. La schiera piuttosto nutrita dei detrattori pregiudiziosi del pensiero dello psicoanalista cileno, da questi spesso ridotto ad una manciata di slogan, altro non aspettava per aggiungere al fuoco di fila delle critiche, questa: «Il pensiero di Matte Blanco? Un gadget intellettuale buono per letterati e filosofi; forse per matematici. Ma noi siamo psicoanalisti, curiamo malati, ci abbeveriamo alle neuroscienze. La letteratura va bene la sera, per riposarsi dopo una giornata di lavoro». Ogni psicoanalista, si sa, ha avuto i suoi maestri e la sua traiettoria intellettuale con cui se l’è cavata alla meno peggio in quel brutto affare, come la definiva Bion, che è la seduta analitica. Con l’arrivo della senescenza si osserva spesso una radicalizzazione delle proprie convinzioni e dei modelli adottati, e una tendenziale indisponibilità a fare spazio, anche solo per il tempo della lettura di un articolo, a un modello alternativo. E il modello di Matte Blanco, apparentemente, solo apparentemente, si presenta concettuoso, matematizzato e particolarmente gergato tanto da meritare un glossario che la Ginzburg nel suo ultimo volume ha curato con la stessa premura con cui una rondine mastica e pre-digerisce il cibo che darà ai suoi pulli; per questa ragione, quindi, ha sempre esposto il fianco alle critiche dei detrattori.
Ma non è così. E allora deve essere per questo, e forse per redimersi dal peccato della letteratura, peccato che la Ginzburg, ne sono certo, non riconoscerà e di cui non si pentirà mai, che questo nuovo volume si presenta molto didattico e traboccante di clinica. Forse anche troppo. Non lo capite con «Il dottor Jekyll e mr. Hyde»? Allora ve lo spiego con Amanda, Silvia, Roberto, Luigina, persone in carne, ossa, sangue, lacrime. Storie che chiedono aiuto vero e umano sul suo divano analitico. Principio di simmetria, isomorfismo, infinitizzazione, insiemi infiniti, strutture bilogiche. Il lessico matteblanchiano suona così. Certo Alessandra Ginzburg si è presa la grande briga di prendere un sistema teorico che sembra un rompicapo per nerd e spiegare come renderlo leva operativa analitica. Le devozioni ai maestri non conoscono limiti.
Questo le riesce solo perché se hai una teoria e tutti i santi giorni nel tuo studio la devi «mettere a terra», come si usa dire oggi con un’espressione greve ma efficace, la teoria finisce per appartenerti, anzi, abitarti e allora riesce anche facile spiegarla e soprattutto usarla senza perdere calore. E d’altronde l’aneddotica di quanti abbiano effettuato una analisi con lo stesso Matte Blanco descrive un’esperienza profonda di una umanità calda, affettiva e senza fronzoli. Provo ora qui una seconda, personale e forse imperdonabile affabulazione del modello di Matte Blanco aiutato dalla lettura del volume della Ginzburg…
Anche all’uomo della strada più ingenuo sarà capitato di raccontare un sogno: «Era mio padre ma anche mio fratello». «Ero morto ma parlavo e gli altri non lo sapevano», «incontro un leone che mi chiede scusa parlando in inglese…». Anche all’uomo della strada più ingenuo sarà capitato di vedere un’amica o un collega o un familiare o addirittura se stesso dire o fare, in un momento particolarmente incandescente – o per gioia o per rabbia o per paura. – cose che mai si sarebbe aspettato di dire, vedere o udire. Per esempio, in un momento di ira, fare di tutta l’erba un fascio. Si sa, quando uno è travolto dall’emozione… Anche l’uomo della strada più ingenuo, incontrando la figlia anoressica di un amico si sarà stupito nel sentirla affermare «sono troppo grassa» essendo appena scesa dalla bilancia che dice: kg 35.
Anche l’uomo della strada più ingenuo forse ha patito una o più fobie del lungo e bizzarro catalogo: aghi, altezze, ponti, treni che corrono vicino, topi, ascensori, gechi, luoghi aperti, il tubo della risonanza magnetica… Tutte cose che smettono di essere quello che sono per molti, quasi per tutti (che odio la dittatura della statistica!) per diventare altro, qualcosa di tremendo che però a quelle cose assomiglia e così la paura dell’ago diventa la paura di tutte le cose che invadono, penetrano, feriscono, inoculano, lacerano. L’ascensore o il tubo della risonanza magnetica nucleare generano la paura di tutti i luoghi stretti e potenzialmente bui che isolano, chiudono, sequestrano per sempre. Una bara, insomma.
Anche l’uomo della strada più ingenuo può prendere atto, dopo anni di psicoanalisi, ascoltando in auto Jovanotti sostenere in una canzone di qualche anno fa che «la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare», che a ben vedere quello che si teme, in fondo, magari molto in fondo, inconfessabilmente, allo stesso tempo lo si desidera. Anzi lo si teme proprio perché lo si desidera. Anzi è proprio il desiderare che si teme! Tutto questo per dire: l’uomo continuamente deve pacificare paradossi. Lo desidero e lo temo, lo voglio e lo disprezzo, voglio rimanere e voglio andare, voglio il futuro temo il futuro. L’uomo è abitato dall’inconscio e l’inconscio viola i principi della logica classica, quelli dettati da Aristotele e che sostengono il nostro argomentare di uomini parlanti che a tavola chiedono: «Mi passi l’olio per favore?».
Una sapienza psicoanalitica un po’ vintage era rimasta vincolata al modello di inconscio originario, pattumiera fumante mai svuotata in discarica, di pensieri indicibili e inconfessabili, per lo più maschili dell’ordine dell’eros e dell’odio, che il netturbino della rimozione ha portato opportunamente via ma non del tutto. Da questa pattumiera fumante continua a premere, infatti, un’energia che genera lapsus, sogni, sintomi. È l’inconscio rimosso. Questa idea di psicoanalisi e di inconscio attinge correttamente a un certo Freud delle origini ma lo stesso Freud (il padre fondatore sembra davvero aver distribuito la semenza per ognuno dei pensatori che gli sono succeduti e questa è la sua grandezza, che talvolta i più ingenui hanno chiamato contraddizione o incoerenza) in un secondo momento aveva preparato il terreno alla lettura bi-logica di Matte Blanco descrivendo le 5 caratteristiche dell’inconscio come luogo dell’illogico. Eccole: assenza di contraddizione e di negazione; spostamento; condensazione; assenza di tempo; sostituzione della realtà esterna con quella psichica.
L’apparire di un’altra logica e tutte le definizioni del lessico di Matte Blanco altro non sono che un tentativo di descrivere come sono fatte, che principi seguono queste catastrofi della logica aristotelica osservabili nei sogni, nei sintomi e quando si è molto emozionati. Una catastrofe di quella logica che tiene fortunatamente ben distinti il prima e il poi, il maggiore e il minore, la parte e il tutto, il temere e il desiderare, il finito e l’infinito. Il reale di Matte Blanco è continuamente sabotato da una gigantesca sineddoche dove fatalmente, se il tasso emotivo sale, tutto sta per tutto, tutto può significare tutto il resto. Insiemi infiniti, appunto, come già descritti dal matematico George Cantor. Se mettiamo in una stessa classe le cose che si somigliano l’inconscio tratterà tutte le cose che si somigliano appartenenti alla classe come se fossero identiche, la stessa cosa.
È una affabulazione del principio di von Domarus, ripreso dallo psichiatra italiano Silvano Arieti, che spiega il primitivo pensiero psicotico, paleologico, lo definisce Arieti. Il pensiero psicotico paleologico fallisce perché deriva l’identità dei soggetti (ad es: una mela = sangue) per il semplice fatto di condividere un predicato (entrambi sono rossi). E poiché tutte le cose possono somigliarsi anche solo per un piccolo predicato o per un’assonanza del nome, l’inconscio può scambiare tutto con tutto. L’inconscio per Matte Blanco fa così. Ma l’inconscio ce l’abbiamo tutti e allora è fuorviante pensare che esso sia una difetto del pensiero. La struttura del pensiero, ci chiarisce Matte Blanco, sempre rispetta contemporaneamente due logiche: una, quella classica, aristotelica, dividente, che sostiene che se sono vivo non sono morto, se sono padre di Luigi non sono contemporaneamente figlio di Luigi o, se vogliamo un esempio storicamente più documentato, se sono figlio di Giocasta non sono contemporaneamente suo marito; l’altra, quella dell’inconscio che rende uguali le cose simili, che confonde il prima e il poi, il maggiore ed il minore: smonta le relazioni asimmetriche (ad es. padre-figlio) e le rende ribaltabili, simmetriche. Così si capiscono i sogni, i sintomi e le trappole che si acquattano anche nei pensieri più ingenui, anche quando chiediamo: «Mi passi l’olio per favore?». Allora a cosa serve la psicoanalisi?
Le intuizioni iniziali del padre fondatore, agli albori del suo memorabile cammino, facevano dell’analisi una pratica chirurgica, esorcistica, per cui, scoperto e conosciuto il rimosso che dall’inconscio dove si è installato combina guai, il problema è risolto. Al termine della sua parabola intellettuale ed esistenziale, Freud intuisce che l’analisi altro non è che una riscrittura continua a quattro mani del racconto di sé abitato dalle ripetizioni e dall’inconscio, un demone logico germogliato nel corpo mosso dall’emozione emozionato sin dal primo giorno di vita nella fragilità originaria e nella relazione con l’Altro e col quale fare i conti tutta la vita. Fare i conti significa affabulare un racconto permanente per provare a dirlo, l’inconscio. La cornucopia Freudiana ha prodotto, fra gli altri, due celeberrimi aforismi che depositiamo qui a sostegno di quanto appena detto e con i quali terminiamo la nostra riflessione.
Il primo: L’Io non è padrone in casa propria. E, aggiungo io, non lo diventerà nemmeno alla fine di 10 anni di analisi. Dopo 10 anni di analisi, se Dio vuole, avrà imparato come si vive esuli a casa propria. Appena Freud ha scoperto l’inconscio la psicoanalisi si è così spaventata che ha cominciato il suo arroccamento nell’Io chiamato a mettere le briglie al puledro dell’inconscio, quell’Io con le sue fragili certezze identitarie e l’adozione della logica classica aristotelica che distingue il mio dal tuo, il prima dal poi, l’odio dall’amore, il voglio dal non-voglio. Come dire che appena nato l’inconscio è diventato il nemico da combattere o la bestia da addomesticare ma l’aforisma del maestro suggerisce una rinuncia senza condizioni a un progetto siffatto. Meglio farsene una ragione: questo fa l’analisi, insegna a farsene una ragione.
Il secondo enigmatico aforisma lo riporto in lingua originale perché è stato oggetto, da parte delle fazioni psicoanalitiche in disputa fra loro, di (almeno) due traduzioni che dicono l’una l’esatto contrario dell’altra: Wo Es war, soll Ich werden. La traduzione agiografica originaria di Cesare Musatti, adottata dai nemici dell’inconscio, ha fatto di questo aforisma l’urlo di battaglia di una crociata di invasione e destituzione del despota: «Dove era l’Es deve subentrare l’Io». Uno sfratto, insomma.
Molta e importante psicoanalisi contemporanea, invece, ne ha totalmente rovesciato il senso: non si tratta di un subentro, di uno sfratto che l’Io impone all’Es con l’imposizione delle proprie leggi ma un invito all’Io a dismettere la sua arma più drogante e traditrice, l’onnipotenza, e a recarsi, straniero e mancante là dove l’Es è, nel luogo dove ricomporre la sua imperscrutabile e indecifrabile verità a cui concorrono, direbbe Matte Blanco, due logiche: quella portata in dote dall’Io e quella straniante e confusiva dell’inconscio. Come il sogno, via regia, ha insegnato.
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