Avventure nel commercio di vino

Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio

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Antonio Della Guardia, La luce dell'inchiostro ottenebra - Installazione (2018).

Arriva in libreria in questi giorni una raccolta di scritti di David Harvey, Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio (ombre corte, 2019). Una sintetica introduzione al pensiero di uno dei maggiori interpreti del mondo contemporaneo, dalla quale anticipiamo un breve estratto del capitolo intitolato L’arte della rendita. Globalizzazione e mercificazione della cultura (relazione preparata per la conferenza su globale e locale, svoltasi alla Tate Modern di Londra nel febbraio 2001).

Negli ultimi trent’anni il commercio di vino, come quello della birra, è diventato sempre più internazionale e le tensioni della competizione hanno prodotto effetti curiosi. Sotto la pressione dell’Unione Europea, per esempio, i produttori di vino internazionali hanno concordato (dopo lunghe battaglie legali e intensi negoziati) l’eliminazione delle «espressioni tradizionali» sulle etichette dei vini, che potrebbero includere termini come «chateau» e «domaine», così come termini generici quali «champagne», «chablis» o «sauternes». In questo modo l’industria vinicola europea, guidata dai francesi, cerca di preservare le rendite di monopolio insistendo sulle virtù uniche dei terreni, del clima e della tradizione (riunite sotto il termine francese «terroir») e sulla distintività del suo prodotto certificato con un nome.

Rafforzato da controlli istituzionali come l’«appellation contrôlée», il commercio di vino francese insiste sull’autenticità e sull’originalità del suo prodotto, che fonda l’unicità su cui è basata la rendita di monopolio. L’Australia è uno dei paesi che hanno accettato questo accordo. Il Chateau Tahbilk di Victoria è stato costretto a eliminare «Chateau» dalla sua etichetta, dichiarando a denti stretti «siamo orgogliosamente australiani e non abbiamo bisogno di usare termini ereditati da altri paesi, culture e tempi»1.

Per compensare, identificano due fattori che, combinati, «ci danno una posizione unica nel mondo del vino». La loro è una delle sole sei regioni vinicole del mondo in cui il mesoclima è notevolmente influenzato dalla massa d’acqua interna (i numerosi laghi e le lagune locali moderano e raffreddano il clima). Il loro suolo è di un tipo unico (trovato solo in un altro posto a Victoria), descritto come terriccio rosso/sabbioso colorato da parecchio ossido ferrico, che «ha un effetto positivo sulla qualità dell’uva e aggiunge un certo carattere distintivo regionale ai nostri vini». Questi due fattori sono messi insieme per definire «Nagambie Lakes» come una regione vitivinicola unica (che deve essere autenticata, presumibilmente, dall’Australian Wine and Brandy Corportaion’s Geographical Indications Committe, istituita per identificare le regioni viticulturali in Australia). Tahbilk stabilisce quindi una controrivendicazione per le rendite di monopolio sulla base della combinazione unica di condizioni ambientali nella regione in cui è situata. Lo fa in un modo che si pone in parallelo e compete con le affermazioni di unicità di «terroir» e di «domaine» avanzate dai produttori di vino francesi. Ma qui incontriamo la prima contraddizione. Tutto il vino è commerciabile e quindi, in un certo senso, comparabile indipendentemente dal luogo di provenienza. Si consideri ora Robert Parker e il Wine Advocate che pubblica regolarmente.

Parker valuta i vini per il loro gusto e non presta particolare attenzione al «terroir» o alle rivendicazioni storico-culturali. È notoriamente indipendente (la maggior parte delle altre guide sono supportate da settori influenti dell’industria vinicola), classifica i vini su una scala in base al proprio gusto distintivo, ha un ampio seguito negli Stati Uniti, un mercato importante. Se dà a un Bordeaux 65 punti e ne dà 95 a un vino australiano, ciò influisce sui loro prezzi. I produttori di Bordeaux sono terrorizzati da Parker: lo hanno citato in giudizio, denigrato, maltrattato e perfino aggredito fisicamente, perché sfida le basi delle loro rendite di monopolio. Possiamo concludere che le rivendicazioni di monopolio sono tanto «effetti del discorso» e risultati di lotta, quanto rispecchiamenti delle qualità del prodotto. Ma se il linguaggio del «terroir» e della tradizione dev’essere abbandonato, che tipo di discorso lo può sostituire?

Negli ultimi anni Parker e molti altri impegnati nel commercio di vino hanno inventato una lingua in cui i vini sono descritti con termini come «sapore di pesca e prugna, con un tocco di timo e uva spina». Il linguaggio suona bizzarro ma questo spostamento discorsivo, che corrisponde all’aumento della concorrenza internazionale e del commercio del vino, assume un ruolo distintivo che riflette la mercificazione del consumo di vino lungo linee standardizzate. Ma il consumo di vino ha molte dimensioni che aprono strade per un profittevole sfruttamento. Per molti è un’esperienza estetica. Oltre al puro piacere (per alcuni) di un buon vino con il cibo giusto, vi sono innumerevoli altri riferimenti all’interno della tradizione occidentale che risalgono alla mitologia (Dioniso e Bacco), alla religione (il sangue di Cristo e i rituali della comunione) e alle celebrazioni offerte da festival, poesie, canzoni e letteratura. La conoscenza dei vini e dell’apprezzamento «corretto» è spesso un segno di classe ed è analizzabile come una forma di capitale «culturale», come direbbe Bourdieu. Ottenere il vino giusto può contribuire a sigillare importanti operazioni commerciali (ti fideresti di qualcuno che non sa come scegliere un vino?).

Lo stile del vino è legato alle cucine regionali e dunque incorporato in quelle pratiche che trasformano la regionalità in uno stile di vita caratterizzato da strutture distintive del sentimento (è arduo immaginare Zorba il Greco che beve dalla brocca un Mondavi californiano, anche se è venduto all’aeroporto di Atene). Il commercio del vino riguarda il denaro e il profitto, ma anche la cultura in tutti i sensi (dalla cultura del prodotto alle pratiche culturali che circondano il suo consumo, fino al capitale culturale che si sviluppa tra produttori e consumatori). La ricerca perpetua di rendite di monopolio comporta la ricerca di criteri di specialità, unicità, originalità e autenticità in ciascuno di questi regni. Se l’unicità non può essere stabilita con l’appello al «terroir» e alla tradizione, o con una significativa descrizione del gusto, allora devono essere invocate altre forme di distinzione per fissare rivendicazioni e discorsi di monopolio concepiti per garantire la verità di tali affermazioni (il vino che garantisce la seduzione o quello che accompagna la nostalgia e la legna che arde sono immagini pubblicitarie ricorrenti negli Stati Uniti). In pratica, nel commercio di vino troviamo una moltitudine di discorsi in competizione, ognuno dei quali afferma una differente verità rispetto all’unicità del prodotto.

Tuttavia, e qui torno al mio punto iniziale, tutti questi cambiamenti e ondate discorsive, così come molti dei mutamenti e giravolte nelle strategie per comandare il mercato internazionale del vino, hanno alla radice non solo la ricerca del profitto, ma anche la ricerca di rendite di monopolio. In ciò si delinea il linguaggio dell’autenticità, dell’originalità, dell’unicità e delle qualità speciali e irripetibili. La generalità di un mercato globalizzato produce, in modo coerente con la seconda contraddizione precedentemente identificata, una forza potente che cerca di garantire non solo i continui privilegi di monopolio della proprietà privata, ma più complessivamente le rendite di monopolio che derivano dal dipingere le merci come incomparabili.

Note

Note
1Tahblik Wine Club, Wine Club Circular, numero 15, giugno 2000, Tahblik Winery and Vineyard, Tahblik, Victoria, Australia.

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