Comune è il modo di produzione
Nella letteratura ormai cospicua sui beni comuni questo libro di Vercellone, Brancaccio, Giuliano, Vattimo, Il Comune come modo di produzione (ombre corte, 2017), si distingue per porre al centro con chiarezza un elemento: «Il Comune come modo di produzione è più importante di una classificazione tipologica dei beni comuni (naturali, artificiali, materiali, immateriali, antichi e nuovissimi). «Parlare di Comune come modo di produzione significa anche affermare che lungi dal rappresentare una semplice enclave, esso è suscettibile di porre le basi di un nuovo ordine economico e sociale articolato su una gerarchia completamente differente tra Comune, pubblico e privato» (p. 17). Si tratta cioè di un intervento strategico nell’economia della conoscenza e nel capitalismo cognitivo, che colora (avrebbe detto Marx) anche le altre forme di uso dei beni materiali e immateriali su cui di recente è ripreso il dibattito, a partire da Hardin e Ostrom (cap. I).
La prospettiva del modo di produzione, che segna una rottura con l’economia politica dei commons, non è però univoca e, per esempio, viene condotta una critica serrata dell’approccio meramente politicistico di Dardot e Laval, un’utopie sans sujet che non si fa carico della soggettività del lavoro capace di incarnarla (cap. II). Il riferimento all’ultima stagione marxiana, che rinuncia all’evoluzionismo stadiale e si mostra attenta alla pluralità delle vie al socialismo, collega la tematica del comune (l’óbščina dei populisti russi e del carteggio con Vera Zásulič) all’economia post-fordista della conoscenza (cap. III), i cui risvolti giuridici sono esaminati nel cap. IV, mentre al relativo e più appariscente aspetto informatico è dedicato il cap. V.
Quando conoscenza e innovazione si presentano come un’attività socialmente diffusa che si concretizza in forme d’organizzazione orizzontale del lavoro nel modello free software e maker rivelandosi anche da un punto di vista economico più efficaci del modello proprietario, il capitale non esista a cooptare nella sua logica il modello dei commons: il capitalismo cognitivo trasforma il profitto in rendita inglobando tutte le dimensioni dell’economia cosiddetta immateriale e materiale, che si tratti della produzione manifatturiera, del settore terziario o ancora dei commons ecologici che stanno rivoluzionando il nostro rapporto con la natura. In tutte queste operazioni è fondamentale il trattamento informatico che celebra il suo trionfo assoluto nel cosiddetto «capitalismo delle piattaforme» (da Uber allo sfruttamento dei data base di Google).
Al contrario, proprio la diffusione «estrattiva» della razionalità neoliberale nei campi della sanità, educazione, abitazione e Welfare, ne dimostra l’inconciliabilità con le produzioni dell’uomo per l’uomo e innesta il conflitto fra Comune e capitalismo finanziarizzato. Un conflitto che resta tutt’altro che teorico, come dimostrano le lotte degli operatori di tali settori contro la privatizzazione dilagante o la resistenza creativa della ultima generazione dei centri sociali alla logica della rendita fondiaria e della mercificazione della cultura e dei servizi. Di grande interesse ci sembrano le pagine dedicato ai riflessi normativi di questo approccio. Coerentemente alla linea generale dell’argomentazione, i processi giuridici sono valutati non in astratto bensì in base al continuo intreccio e alla reciproca fecondazione fra l’azione dei commoners e la costituzione di regimi giuridici provvisori e revocabili, che risolvono produttivamente la loro ambivalenza costitutiva per cui essi allo stesso tempo codificano e dissimulano la sottostante realtà economica, ivi compresa quella in emersione del Comune. Istituzioni del Comune, dunque. «Il diritto del Comune può così qualificarsi in termini positivi, non più come semplice mediazione, ma composizione e integrazione delle forze in rapporti giuridici adeguati… L’«istituzione si situa così sul piano di immanenza che determina una continua corrispondenza di produzione e istituzione.
Ecco perciò che il tema da cui siamo partiti – il rapporto…[Suo] compito specifico non sarà quello di limitare o comprimere lo sviluppo delle forze sociali, ma al contrario quello della costruzione di dispositivi in grado di garantire che questo sviluppo non venga ostacolato, deviato o espropriato. L’istituzione si configura come la spontaneità che riflette su se stessa» (p. 112), costruendo una forma di vita sulla base di un’organizzazione della spontaneità delle forze più che di un’abdicatio iuris. Le pratiche di commoning sono autopoietiche e il Comune funziona da modo di produzione anche sul piano delle regole e delle norme. Decisivo è il fatto che la proprietà comune non si definisce più, sul modello di un vagheggiato comunitarismo neo-medioevale o nello spirito del bundle of rights, «come un concorso di diritti di proprietà, ma come il prodotto di un insieme molteplice di diritti e di pratiche d’uso», per confluenza di istituti codificati e di pratiche informali (p. 146).
Altrettanto suggestivo, nel Cap. V, il confronto fra l’etica dell’open science di Merton nel New Deal fordista e il Mertonianism Unbound post-fordista, che coinvolge ormai una moltitudine di autori non più limitata ai soli professionisti della ricerca. L’incontro fra la cultura mertoniana della scienza aperta e l’etica hacker riqualifica i famosi 4 principi della prima: l’universalismo condivisivo si estende su tutta la superficie sociale innervata dal general intellect, il comunismo della conoscenza è garantito da meccanismi quali il copyleft, il disinteresse e il dubbio sistematico vengono coltivati nella comunità degli utilizzatori informatici – la cui estensione fisica al mondo della produzione nel sempre più diffuso settore della stampa 3D è di assoluto rilievo.
Infine, il ruolo sociale dei commoners legittima un riconoscimento non assistenziale di reddito sociale garantito incondizionato: esso «si presenterebbe al tempo stesso come un’istituzione del Comune e un reddito primario per gli individui, cioè un reddito direttamente risultante dalla produzione e non dalla redistribuzione» (p. 209), messa in comune di quanto, in modo consapevole o no, è prodotto in comune.
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