Concretezza della scultura
Giuseppe Uncini alla Galleria Nazionale
Si sa, le mostre curate da Peppino Appella sono come dei cataloghi generali ragionati dove è possibile incontrare opere significative e altrettanti significativi materiali inerenti la storia dell’artista, i suoi ripensamenti, le sue evoluzioni stilistiche, come pure tutta una serie di documenti utili a costruire la vita di un intellettuale, le sue conquiste nel campo della creatività, i suoi rapporti con l’intelligencija del tempo.
Dopo le personali di Carlo Lorenzetti, Bruno Conte e Giulia Napoleone, l’attenzione filologica con cui Appella disegna alla Galleria Nazionale la quarta e ultima stanza del ciclo Realtà in equilibrio, un felice progetto che ha voluto mostrare, a venticinque anni dall’omonima esposizione presentata da Fausto Melotti alla Galleria Il Segno di Roma, gli sviluppi di alcuni artisti – «compagni nella ricerca, […] compagni in ciò che l’arte richiede, sacrificio e amore» – individuati proprio da Melotti sotto la stella dell’anacoretismo («anacoreti, lontani dalle tentazioni del mondo»), tocca una vetta e una eleganza davvero incomparabili: e non solo perché siamo invitati a assaporare e ripercorre l’opera di Giuseppe Uncini dai suoi primi lavori del 1957 alle ultime articolazioni del 2008, ma anche perché ci troviamo di fronte a un itinerario perfetto che indaga i mille volti di una ricerca grandiosa, dove il tempo, lo spazio e la luce sono materie plastiche, costitutive e costituenti la scultura.
Alla domanda su cosa possa esserci dopo l’informale – una domanda che si sono posti un po’ tutti, all’indomani della XXX Biennale di Venezia, con il premio ad Hartung e Fautrier – Giuseppe Uncini, e proprio da questo punto ha inizio il percorso espositivo, risponde con una serie di Terre superlative che lo portano a fare un salto in avanti rispetto alle mode del momento, a svincolarsi dalla forza attraente di Alberto Burri (con cui è in contatto, a Roma, grazie al conterraneo Edgardo Mannucci che lo ospita nel suo studio e gli presenta Capogrossi, Afro, Mirko, Colla, Gentilini, Franchina, Cagli, Emilio Villa), a recuperare tutta una serie di indicazioni e suggerimenti dal passato, dall’arte e dalla sua storia: ci sono «la scoperta di Mondrian e il Bauhaus su stimolo di Argan, ma soprattutto la riconsiderazione dell’architettura magno-greca e la sezione aurea del Rinascimento» (Appella) che portano via via a Piero Della Francesca, a Giotto o a Gentile da Fabriano col quale Uncini condivide un dato biografico, la nascita nello stesso paese di frontiera (non dimentichiamo che la sua prima personale è proprio qui, a Fabriano, nel Chiostro quattrocentesco dello Spedale del Buon Gesù, dall’8 al 15 giugno 1958).
Partendo appunto da una serie di prime indagini materiali e mentali, la mostra ricostruisce diligentemente le linee seguite da Uncini a partire dalle Terre e dai quasi coevi Cementarmati (Primo Cementarmato è datato 1958-1959), per giungere via via ai Ferrocementi, alle Strutture spazio, ai Mattoni e alle Ombre, alle Terrecemento e agli Interspazi, alle favolose Dimore delle cose e alle impareggiabili Dimore, come pure ai Muri d’ombra, agli Spazi di Ferro e agli Spaziocemento (tralicci), ai Muri di cemento, alle Architetture, agli Artifici. Se infatti troviamo, in apertura, alcuni lavori significativi (c’è Terre del 1957, c’è un Senza titolo del 1958 e Il passo del gatto dello stesso anno) in cui è possibile intuire una molla che porta l’artista a un taglio netto con il passato, e non dimentichiamo che nel 1962 è tra i fondatori del Gruppo Uno, subito dopo siamo letteralmente inghiottiti da una intenzionalità progettuale che coinvolge la questione del futuro, da identificare con il procedimento formativo e con la scelta dei materiali. «Mi preme puntualizzare», ha scritto lo stesso artista nel 1972, parlando con piena consapevolezza della sua opera, «che per me la scelta dei materiali costituisce già parte dell’idea: e i materiali (il ferro, il mattone, il cemento) m’impongono l’uso di certe tecniche rigorosamente proprie».
Dopo essere stati assorbiti al piano terra da una scultura che a un certo punto si fa monumentale e riconsidera l’architettura facendosi autosostantiva, nel grande salone il mastodontico Epistylium (2004) dovrebbe essere ricordato o quantomeno studiato da molti giovani e meno giovani artisti, al primo piano la lezione di Uncini lascia letteralmente senza respiro perché le relazioni tra i solidi e le loro ombre, tra le geometrie e le idee, tra materia e immaterialità, tra i pieni e i vuoti («ciò che mi interessa è caricare questi vuoti di umori, di momenti poetici, insomma di farne delle cavità dense di avventure esistenziali») si fanno sostanziali: e mostrano un atteggiamento la cui freddezza mira alla costruzione dell’opera e nello stesso tempo alla costruzione del nuovo.
Tra le 58 sculture che assieme a 30 disegni articolano l’impaginazione del catalogo visivo generosamente offerto allo spettatore, quella Sedia con ombra (1968), quei Mattoni con ombra n. 12 (1969), quell’Inizio di volta con ombra (1970), e sarebbe un delitto non ricordare anche Parete interrotta (1971), Ombra di un parallelepipedo M. 29 bianco (1975), Ombra di due parallelepipedi M. 25 bianco (1975), Ombra di piramide T. 16 (1976) e La dimora delle cose – Basorilievo n. 4 (1980), sono tutti elementi primari della costruzione e del costruire, giochi costanti tra l’arte e l’abitare, estroflessione di una riflessione, di un’idea che guida la materia a divenire forma, di un’intuizione che esplode per concepire un perimetro plastico personale, un nuovo modo di fare, di pensare la scultura.
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