Contro la sovranità e la distopia populista

Children of Men di Alfonso Cuarón

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Claire Fontaine, They hate us for our Freedom, 2013

Alfonso Cuarón ha recentemente vinto un oscar come miglior regista con Roma. Ma invece delle furbizie del finale pacificato e agrodolce che stempera la durezza dell’oppressione di classa e razza, per comprendere il tempo che viene – e che già ci soffoca – bisognerebbe tornare al film dello stesso regista uscito nel 2006, Children of Men.

In Children of Men, Cuarón, partendo da un romanzo della scrittrice pop e conservatrice P.D. James, legge molti dei fenomeni all’opera dentro la globalizzazione neoliberale, o nel capitalismo assoluto, come lo chiama Balibar. Inoltre, Cuarón affronta il tema del potere costituito, statale, e di quello costituente, rivoluzionario, che prova ad abbatterlo, con tutte le implicazioni etiche che ne conseguono. Il pianeta è devastato dalla crisi ecologica e l’unico spazio abitabile è un’Inghilterra distopica e orwelliana. Una salda alleanza tra economia predatoria e stato autoritario è sancita dalla neo-verità diffusa da un’informazione asservita. Lo stato inglese garantisce l’ineguale ordine del dominio attraverso la repressione e la segregazione degli stranieri. Così la popolazione britannica è «difesa» dagli immigrati che provano a salvarsi in Inghilterra dall’inabitabilità delle proprie terre d’origine. La televisione pubblica invita a denunciare i lavoratori stranieri più prossimi, da chi fa i lavori domestici a chi fa le pulizie negli uffici, come desiderano i nazional-populisti europei e statunitensi dei giorni nostri. L’illegalizzazione crea categorie di soggetti considerati pericolosi socialmente così da legittimare la violenza sovrana esercitata su di essi. I riferimenti al presente sono evidenti. Nel 2006 c’erano già questi fenomeni ma la velocità con cui stiamo precipitando verso quella condizione è accelerata.

Nel film di Cuarón, contro l’oppressione razziale del «British first» e del binomio tra «deserving» e «undeserving poors» – di cui anche la Brexit è un’espressione – , opera un movimento rivoluzionario, i Fishes, guidati da Julianne Moore. Clive Owen, precedentemente attivo politicamente e poi disilluso e integrato nella burocrazia di regime, viene coinvolto dalla sua ex, Moore, per aiutare il movimento rivoluzionario in una questione di visti per una donna non inglese. La situazione precipita e Owen si troverà a svolgere un ruolo a metà tra Virgilio e Giuseppe di Nazareth nella discesa degli inferi della Gran Bretagna distopica e, sostanzialmente, nazista. Le scene dei campi di detenzione sono estremamente vivide e rimandano al «presente che non passa» dell’arbitrio del potere pubblico sulla nuda vita, notoriamente descritto da Agamben. La linea di continuità da cogliere e combattere tra colonie, Auschwitz, e centri di detenzione nell’opulento occidente è efficacemente mostrata nel film. Evidenziarlo non significa ricadere nella fobia dello stato, contro la quale ammoniva Foucault, ma guardare in profondità il cuore di tenebra della statualità senza farsene pietrificare e pensare e praticare forme politiche che la eccedano.

Al di là dei riferimenti religiosi, che possono anche essere interpretati laicamente e politicamente come suggerisce il documentario che accompagna il dvd del film con interviste a Zizek, Klein e Sassen, molti sono i temi di filosofia politica squadernati dal film. Anzitutto il dilemma sulla scelta dei mezzi per il conseguimento dei fini. Se infatti la prima parte del film riguarda l’oppressione del potere costituito sulla popolazione, la seconda riguarda la resistenza, l’insorgenza di un potere costituente. Owen, e la donna che accompagna, Claire-Hope Ashitey, dovranno infatti difendersi dagli obiettivi dei ribelli che vogliono strumentalizzare il bambino che Ashitey porta in grembo. La società descritta dal film è infatti afflitta da una cronica infertilità. La donna incinta, quindi, è portatrice di una speranza, di una salvezza, ma può anche essere il simbolo per mobilitare la massa di oppressi rinchiusi nei lager inglesi. Al di là della banalità di questo tipo di figure, ciò che interessa è la riflessione che Cuarón avanza intorno al ruolo politico di questa donna. Per impossessarsi del bambino, infatti, i ribelli uccidono la precedente leader, Moore, con la sua strategia non violenta di mobilitazione. Il rischio dell’oppressione – manifesto dalla serie di gratuite atrocità di cui i ribelli si rendono protagonisti – è immanente all’insurrezione. In tempi di «populismo», di semplificazioni e di estasi mistica per qualunque cosa si muova nella società, questo monito è estremamente importante.

Oltre ad una zuccherosa e patetica scena in cui il conflitto si interrompe e le parti belligeranti si fermano ad adorare il bambino – evidentemente novello Gesù -, il film consegna un ambiguo messaggio a metà tra speranza e disperazione. Infatti, il protagonista morirà e la donna e il bambino verranno salvati da una nave che li porterà lontano dall’Inghilterra. Questa fuga intesa come salvezza, l’esodo, rimanda ancora al tema di cui sopra, al rifiuto di fondare un nuovo ordine sovrano, per quanto legittimato da desideri di libertà e eguaglianza. Come creare forme di convivenza oltre la relazione di bando e abbandono che lega sovranità e popolazione ad essa sottoposta va al di là degli scopi del film. Ad ogni modo, la morte del protagonista puó essere vista come un sacrificio disinteressato oltre la violenza dei mezzi in vista dei fini emancipatori, come atto puro ispirato da giustizia. E l’attesa di una nave che porta verso un fuori, così come il rifiuto di piegarsi alla strumentalizzazione politica necessaria alla presa del potere, tocca i temi più difficili che la politica abbia davanti. Infatti, i contorni della comunità che si vuole costruire contro quella attuale sono, nel migliore dei casi, quanto mai indefiniti e, nel peggiore, opprimenti quanto quelli odierni. La non realizzazione della giustizia del finale di Children of Men rimanda inoltre all’idea avanzata da Derrida nella sua lezione su Benjamin. Lì infatti, la giustizia è figura irrealizzata e irrealizzabile, la cui verità consiste nello sforzo per avvicinarvisi. La giustizia è a-venire e sulla terra non può essere raggiunta se non nel processo con cui si cerca di raggiungerla. Ciò non significa rinunciare alla politica ma mantenere questo orizzonte mobile e instabile.

I più ortodossi, i «rivoluzionari di professione», potrebbero storcere il naso davanti all’anelito di giustizia e alla purezza dei mezzi e dei fini ricercati dal film. I mezzi sono sempre giustificati dai fini!, sembra udirsi da quelle parti. L’individualismo (e l’individuo) va soppresso (e oppresso), credono, difendendosi con complessi alambicchi teorici – quando non con la bruta e mera violenza eccezionalmente raccontata da Brecht nel racconto La Linea di Condotta. Ma un ordine giusto non può emergere con mezzi ingiusti. Le rivoluzioni socialiste e comuniste del Novecento parlano di questo fallimento. Non farci i conti vuol dire continuare a recitare una litania già insanguinata. Non si tratta di pensiero debole o postmoderno ma di abbracciare le critiche libertarie che si sono sempre opposte al socialismo di stato e alle forme più o meno palesi di nazionalismo di sinistra, vero architrave di queste esperienze oppressive. Una lezione, ancora, utile per i nostri giorni.

 

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