Contro l’arte estetica
La nascita del romanzo secondo Gianni Carchia

Il libro di Gianni Carchia Dall’apparenza al mistero. La nascita del romanzo, originariamente uscito nel 1983, è stato ripubblicato quest’anno presso la casa editrice Quodlibet all’interno della collana che accoglierà la sua intera opera, a cura di Monica Ferrando. Si tratta di un testo sull’età ellenistica sorprendente, per originalità ed erudizione, ma al tempo stesso convincente e solido, sostenuto da una argomentazione serrata. Il metodo di Carchia è quello che con Walter Benjamin, uno dei suoi autori di riferimento, potremmo definire una «vendetta sul passato»: lo studio della storia è un modo per liberarne le potenzialità inespresse contro le interpretazioni più accettate, per offrire a ciò che si è perso lungo la strada un’altra possibilità, una vendetta, appunto, contro l’esito che a suo tempo si è rivelato vincente.
Gli esempi nell’intero percorso filosofico di Carchia sono vari. Nell’Estetica antica (2001), per esempio, sottolineava come la famosa condanna platonica dell’arte come mimesis del X libro della Repubblica si sfumi nel Sofista nella contrapposizione tra mimesis fantastica, una imitazione che vuole sostituire la realtà, che si finge vera, e una mimesis icastica, paradossalmente più accettabile in quanto esplicitamente copia. Nel libro di cui sto scrivendo, Dall’apparenza al mistero, sono numerose le operazioni di questo tipo. Per esempio, la lettura dello stoicismo, che rifiuta l’idea consolidata per cui la filosofia stoica sarebbe in continuità con il pensiero aristotelico, contro la trascendenza platonica. Lo stoicismo, scrive Carchia, è in realtà una radicale alternativa alla filosofia della forma, che sia trascendente come in Platone o immanente come in Aristotele. Si tratta piuttosto di una filosofia dell’evento, per usare le categorie proposte da Carlo Diano, cioè di un pensiero che prolunga l’apertura di senso del dominio naturale, anche nella sua caoticità. E qui Carchia cita addirittura Il pensiero selvaggio di Lévy-Strauss. Sono allo stesso modo originali e convincenti le pagine su Lucrezio e il De rerum natura, che muovono dalla critica all’idea della poesia come semplice divulgazione della dottrina, insistendo sulla forma poetica come unico luogo da cui è possibile criticare le pretese del logos.
Dove si compie qui quel collasso di presente e passato, quel loro sovrapporsi, di cui parlava Benjamin? In altre parole: cosa della ricerca di Carchia è e rimane presente? La questione che continua a parlarci è quella del conflitto tra eteronomia e autonomia dell’arte, tra una concezione dell’arte che propugna un intreccio con le altre dimensioni della vita e una concezione dell’arte tipica della modernità che ne accentua invece l’autonomia da criteri esterni e il disinteresse. In Dall’apparenza al mistero Carchia rintraccia una prima forma di questa autonomia in età pre-moderna, al tramonto della classicità, ovvero nella tarda antichità: la dimensione dell’apparenza si autonomizza qui come abbandono del mito, criticato e consumato nella rinuncia a qualsiasi pretesa di verità dell’arte. Il romanzo nominato nel sottotitolo del libro nasce quindi sotto il segno dell’autonomia dal fondamento mitico, agli antipodi dell’ideale classico. Ma poiché questa apparenza non riesce a porsi come compiuta in sé stessa, l’arte ritorna parassita della vita questa volta in forma di evasione, dalla parte della retorica e non della persuasione (per usare le parole di un altro autore caro a Carchia, Carlo Michaelstaedter). Qui entra in scena il mistero, trattato nella seconda parte del testo, dato che nelle forme religiose misteriche si tenta di ridonare alla dimensione dell’apparenza la sostanzialità del mito ormai perduto.
La posta in gioco di questo discorso complesso e presentato in forma molta concisa, anche se basato su una enorme mole di letture e riferimenti, viene svelata più esplicitamente di nuovo in Estetica antica, libro che si colloca alla fine della vita di Carchia, raccogliendo i frutti di un percorso iniziato appunto molti anni prima. Nella Introduzione si legge infatti che la bellezza dell’arte classica, nella sua dipendenza costitutiva assegnatale dal concetto di mimesis, era guadagnata al prezzo di una lotta contro tutte le influenze esterne, etiche, politiche, persino ontologiche, che continuamente rischiavano di inficiarne la libertà. Né totalmente asserviti a un messaggio predeterminato, né completamente svincolati da ogni rapporto con il presente e le altre sfere della vita, gli esiti artistici dell’antichità si ponevano all’incrocio tra diverse correnti di potere e di desiderio. La bellezza e la evidente solidità erano raggiunte proprio grazie alla frizione, alla lotta contro la dipendenza da altre sfere di valori.
Carchia, insomma, non credendo certamente all’arte come comunicazione, come messaggio, criticava soprattutto quella che con Odo Marquard si può chiamare «arte estetica», un’arte talmente autonoma da essere separata dalle altre dimensioni dell’esistenza e dunque alleggerita, ridotta a lusso. E andava a cercare in altre epoche momenti della storia e del pensiero in cui la libertà della forma si coniugasse con la necessità e il senso. Un insegnamento che risuona e persiste in una contemporaneità artistica in cui si oscilla tra opere letterali e riduttivamente comunicative e opere evanescenti e totalmente assorbite dalla trascendenza del mercato.
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