Corpi in città
L'arte di MP5
Una delle cose che ricordo con più piacere di quand’ero bambina è la felice concessione che ci fece mia madre, permettendo a me e mio fratello di poter disegnare sui muri. Lo stimolare quel desiderio atavico di imbrattare una parete non era a mio avviso solamente l’anticonformismo di una simpatizzante montessoriana, ma un ribaltamento dell’orizzontalità del di-segno e della percezione visiva trasposta su un piano verticale: il muro. Tralasciando l’attitudine a pratiche di micropolitica domestica in cui si rivendica l’intimità dello spazio privato divenuto pubblico, autorizzato e visibile, una volta usciti fuori, in quel fuori comune che costituisce l’abitare le nostre città, e se disposti ad alzare lo sguardo, possiamo incontrare l’opera di MP5, una delle più interessanti artiste in Italia e conosciuta in Europa, che si staglia simbolicamente come il proiettile del nome che la rappresenta (in realtà acronimo biografico) nel panorama sovraeccitato e tendente all’omologazione delle nostre città mercato, in cui si rincorrono writers, diritto all’espressione, governance e senso del decoro.
In sovversione all’attitudine conformista del nostro tempo a confondere l’arte contemporanea quasi esclusivamente con la tecnologia, l’opera titanica dei ragazzi e delle ragazze sui trabattelli, «sporcatori di muri» che ridisegnano, sempre meno clandestinamente i confini urbanistici delle nostre città, e performano loro stessi può forse essere letta come un gesto teso all’autenticità molto simile a quella qualità, divenuta territorio ormai poco praticato, della pittura e della performance del corpo all’opera.
E se n’è accorta molto bene Agnès Varda che da anni continua a interrogare «i muri» (Mur-Murs, 1980) nel suo commovente documentario Visages-villages realizzato giustappunto insieme all’artista Jr con cui condivide cause ed esperienze, proponendo un perfetto cinema in divenire che si lascia contaminare dalla realtà e sembra si inventi continuamente in corso d’opera, con una genuinità (ah la nouvelle vague!) che lo rende vivo, avventuroso, corpo cinematografico.
MP5 propone un’arte viva, esposta alle intemperie, alla luce che ne modifica l’intensità a seconda delle ore del giorno, che rimane al buio di notte quando non è prevista illuminazione, un’arte composta, gentile, appena sanguinante a volte, disposta a dialogare col tempo, con lo spazio, con le pratiche e il loro potenziale simbolico. Se ammettiamo che il potenziale simbolico non sia morto con Atene.
E come Varda anche MP5 propone un’arte viva, esposta alle intemperie, alla luce che ne modifica l’intensità a seconda delle ore del giorno, che rimane al buio di notte quando non è prevista illuminazione, un’arte composta, gentile, appena sanguinante a volte, disposta a dialogare col tempo, con lo spazio, con le pratiche e il loro potenziale simbolico. Se ammettiamo che il potenziale simbolico non sia morto con Atene.
La presa di coscienza del muro, dell’ostacolo, della separazione, l’incoraggiamento all’abbattimento di una regola, la proposta di attraversamento di senso per mezzo di un linguaggio capace di trasformare una semplice architettura di interni, una morfologia familiare, o il tessuto di una società, sono sia per Varda che per MP5 lo strumento per una forma di resistenza come atto creativo e quindi d’amore, anzi di à-mur come direbbe Jacques Lacan.
I volti e i corpi disegnati dall’artista, seppur delineati da pochi tratti decisi e figure semplici in bianco e nero (meglio sarebbe declinarli al plurale), con l’aggiunta a volte di un colore «altro» che diventa un terzo elemento significante, hanno una capacità drammatica, quasi erotica molto forte, un’impalpabile caratteristica di intimità, di materialità che sfonda irrimediabilmente i muri fisici e simbolici e impatta miracolosamente il nostro sguardo distratto.
Sembra maneggi con disinvoltura la drammaticità delle cose come forse una certa napoletanità sa fare, sebbene una specie di rigore venga suggerito dalle spesse linee continue e un respiro si colga in quel «tra» relazionale dove i poderosi bianchi e neri si danno appuntamento in una politica cromatica degli scarti interstiziali, in cui il cambiare pennello per mantenere una nettitudine è una pratica che collabora felicemente con lo stato di dipendenza dall’opera.
Con la sua eclissi del colore, MP5 istituisce una relazione personale e commossa col mondo, facendo del muro (e degli altri formati che utilizza) il luogo dell’incarnazione, quasi pelle, di quell’essere corpo di cui siamo costituiti, in una plasticità delle forme che sembra denoti una grande attenzione al movimento, al gesto, alla sua traiettoria nello spazio, agli affetti che lo regolano.
Se la differenza tace a confronto con l’etica, se vogliamo dirlo con Judith Butler, ma più semplicemente forse a servizio di un concetto di molteplicità, dell’uno che diventa moltitudine
Sembrano figure danzanti i suoi personaggi, pieni di grazia di un corpo che parla attraverso la sua performatività, in cui bocca e occhi sono appena abbozzati, volti quasi enigmatici, senza accezioni di identità di un’umanità indistinta, se la differenza tace a confronto con l’etica, se vogliamo dirlo con Judith Butler, ma più semplicemente forse a servizio di un concetto di molteplicità, dell’uno che diventa moltitudine.
Se nella sua schizofrenia il logos scaccia il corpo dalla polis, per poi usarlo come metafora organica, MP5 scompagina l’ordine e ne moltiplica la potenza figurativa, lo rimette al centro, senza esclusioni, sui muri ovvero su un confine e non all’interno, con un’operazione poetica di estrema efficacia. Come ogni opera d’arte che si rispetti il suo lavoro (che prevede oltre ai muri, art work, illustrazioni, installazioni) resta in ogni caso avvolto da un’aura misteriosa che esula da qualsiasi tentativo di soggettività epistemologica e sfugge, come è giusto che sia, dai suoi attacchi colonizzatori. Ma Antigone intanto è liberata!
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