Attenti a ripulire la città!
Con l’acqua sporca si rischia di buttar via pure il bambino
«Era considerato imprendibile, ma ora Geco è stato identificato e denunciato», comunica con enfasi sui social Virginia Raggi. In un post di facebook del 9 novembre scorso scrive: «Centinaia di bombolette spray, migliaia di adesivi, funi, estintori, corde, lucchetti, sei telefoni cellulari, computer, pennelli, rulli e secchi di vernice. Si tratta del materiale che il Nucleo Ambiente e Decoro della nostra Polizia Locale ha sequestrato al writer romano noto come Geco che, insieme all’assessore Linda Meleo, avevamo già denunciato per aver deturpato diversi edifici della nostra città. Grazie al lavoro del Nad, e a un anno di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma, i nostri agenti sono riusciti a identificare il writer. […] Ha imbrattato centinaia di muri e palazzi a Roma e in altre città europee, che vanno ripuliti con i soldi dei cittadini. Una storia non più tollerabile».
La sindaca di Roma inizia la sua campagna elettorale puntando sui cavalli di battaglia di sempre, legalità e decoro, con la schiena dritta, come si addice alle persone con le idee chiare e i principi solidi, senza se e senza ma, senza fare due pesi e due misure, che è quanto ribadisce annunciando, poche settimane dopo, lo sgombero simultaneo di Cinema Palazzo e dello spazio occupato da Forza Nuova a San Giovanni. La legge è uguale per tutti, ma non sono uguali le due occupazioni, perché se la prima ha prodotto arte, cultura, socialità, promosso lo sport, lo studio, le pratiche solidali, l’antifascismo, la parità di genere, divenendo un presidio amato e protetto dal quartiere e dalla città tutta, nell’altra si era insediato un gruppo di estrema destra inneggiante al razzismo e alla violenza. Tra i due annunci, questa volta a mezzo twitter, ricordiamo anche quello relativo alla bonifica del campo rom abusivo di Fosso S. Agnese. In ogni operazione di pulizia, il doveroso ringraziamento della prima cittadina alle forze di polizia.
Come risulterà certo evidente, il «caso Geco» solleva molte questioni, che vanno ben al di là del mi piace (i like sui social) o non mi piace (gli insulti sui social). Tra le questioni che il fatto di cronaca, né il primo né l’ultimo caso di writer o street artist pizzicato, e le polemiche seguite sollevano, ce ne sono di davvero rilevanti, tanto che credo valga la pena metterle a fuoco: quella del rapporto tra arte e città, la definizione stessa di arte, di cosa sia e di chi abbia legittimamente i titoli per decidere che una forma sia inclusa o esclusa dal cerchio auratico che separa le produzioni artistiche da ciò che artistico non è; dunque sulla libertà che questa, l’arte (ma la domanda la si può estendere fino ad includere le forme di conflitto e di disubbidienza civile), ha di manifestarsi e apparire, al di là degli spazi e dei tempi (dei «recinti») deputati, se essa deve pertanto avere una «autorizzazione» per intervenire nello spazio pubblico, se, quindi, sia necessaria una committenza; se esista ancora, e cosa lo caratterizzi, lo spazio pubblico. E continuando: di chi è la città, può ancora essere capace di sorprenderci, è in grado di ospitare forme di alterità – anche artistiche, non ancora classificate proprio in ragione della loro contemporaneità, o ultra-contemporaneità, per usare l’espressione che proprio analizzando l’opera di Geco propone Daniele Vazquez1 -, senza che queste vadano automaticamente a ingrandire le schiere dei nemici della città individuati dalle norme dei vigenti decreti sicurezza e fatte proprie dalle nuove disposizioni in materia di polizia urbana approvate di recente dalla Giunta Capitolina, che, ricordiamolo, vieta anche di sedersi sulla scalinata di Trinità dei Monti?
Dal Lago e Giordano hanno ricordato le battaglie che, in nome del decoro, molte amministrazioni hanno condotto contro rom, senza fissa dimora, prostitute, per combattere l’accattonaggio e il commercio abusivo e naturalmente la pratica del writing, equiparata a un atto di vandalismo contro la proprietà2. «Il desiderio di protagonismo dei sindaci – scrive Tamar Pitch, che al tema dell’uso politico del decoro ha dedicato un ben noto volume a cui rimandiamo (non si è occupata di writer, però) – si esercita nel produrre un ordine analogo a quello che si immagina esista o debba esistere in una casa perbene, dove la casalinga della pubblicità caccia fuori lo sporco (spesso non a caso raffigurato come un mostro). E lo sporco non consiste solo nella polvere […]. Esso ha a che vedere con tutto ciò che eccede, tutto ciò che è percepito come contaminante, impuro»3.
Va detto che questo atteggiamento non è solo dei sindaci e viene condiviso anche da molti cittadini, che si organizzano e si mobilitano a difesa della cosa pubblica, del bello e ovviamente del pulito, promuovendo vere e proprie campagne per rimuovere a tappeto tag, steackers, erbacce e tutto ciò che offende buon gusto e senso civico, da muri, strade, pali della luce e cassonetti. Rebecca Spitzmiller, in occasione dei festeggiamenti del decimo anno della sua associazione Retake, ha raccontato come ha preso avvio la sua crociata, una risposta al no ricevuto dai condomini del suo palazzo alla richiesta di ripulire la facciata dalle scritte: «Allora lo faccio io»4. Torneremo su questo io parlando di Geco, spesso accusato di non essere un artista ma un imbrattatore seriale in ragione di una pratica letta come sostanzialmente egoriferita. A ben vedere anche molte di queste azioni di ripulitura sono non autorizzate (e anche se si cerca una interlocuzione con le amministrazioni, si tratta il più delle volte di intervenire su muri su cui non si ha giurisdizione, spesso con veri e propri blitz, non dissimili da quelli di chi si combatte), ma evidentemente il togliere è tollerato più del mettere, tanto che a Bologna curatori al soldo di fondazioni bancarie nel produrre una mostra dedicata alla Street Art hanno pensato bene di «strappare»5 le opere disseminate sui muri della città per acquisirle e consegnarle allo spazio espositivo (dove le si sarebbe potute vedere ancora, sì, ma pagando un biglietto); cosa che ha suscitato l’indignazione di Blu e la sua sorprendente risposta, il gesto plateale (che aveva già compiuto invero a Berlino) con cui, grazie all’aiuto di decine di volontari provenienti dai centri sociali, ha cancellato se stesso, privando la sua città d’adozione di alcuni dei suoi dipinti più belli e famosi, per sottrarli alla cattura e denunciare l’indebita appropriazione.
Il blog «Giap» del collettivo Wu Ming ha spiegato in maniera puntuale le ragioni della protesta6. Va ricordato che il grigio utilizzato da Blu è il colore che solitamente viene scelto dall’ufficio decoro per coprire scritte e dipinti illegali. Fino a pochi anni fa, i lavori di Sten & Lex erano regolarmente cancellati da questi rettangoli monocromi: oggi il duo è celebrato in una mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, cioè da un museo comunale. È incredibile che l’affaire Geco sia esploso in un momento in cui la città ospitava oltre a questi indiscussi protagonisti dello stencil graffiti, una mostra dedicata a Shepard Fairey e una a Banksy, ancora in corso al prestigioso Chiostro del Bramante. Se non vogliamo invocare la schizofrenia, credo che la posizione che se ne deve ricavare è che l’arte non autorizzata può essere (ap)prezzata solo 1) dopo che la si sia riconosciuta ufficialmente (cioè da chi è chiamato legittimamente a esercitare, e difendere, quel «monopolio sull’immagine»7 che il potere sempre arroga a sé: in questo caso, il potere delle istituzioni e quello della curatela che ha l’onere e l’onore di selezionare chi è artista e chi no); e 2) se mostrata negli spazi autorizzati, quelli della galleria, del museo o del muro commissionato ad hoc. Fuori da questi spazi deputati e da queste certificazioni, no! Sappiamo invece che l’arte di strada (ma si potrebbe dire l’arte in generale, che sempre dovrebbe svincolarsi da ogni giogo) continua a vivere fuori anche quando la si vuole chiudere dentro, o, viceversa, come nel caso di Geco, quando dentro non la si vuole proprio far entrare.
Emblematico può essere a tal proposito l’incidente, passato quasi sotto silenzio, che ha visto coinvolto il Palazzo delle Esposizioni durante la vernice della Quadriennale, «vittima» dell’incursione non autorizzata di Banksy, o di un suo emulo, che indisturbato ha disegnato con lo spray uno stencil con l’immagine di un bambino imbronciato dal titolo Keep me out. Sulky boy8. Vero o fake9 resta un mistero, perché non credo ci sia stato il tempo di appurarlo data la velocità con cui il muro è stato prontamente ripulito. Se si cancella un potenziale Banksy, senza nemmeno incorrere nel dubbio amletico che si dice debba affrontare ciascun amministratore ogni volta che appare una sua nuova opera10… come sperare di evitare la criminalizzazione dei pezzi di Geco?
Non è questa la sede per chiarire se Geco sia o non sia un grande artista. Se lo sia alla stregua di Banksy, di Sten & Lex, di Obey, e il problema è solo che non lo si è ancora capito, come non capirono l’importanza di Keith Haring i sindaci Carraro e Rutelli che ne cancellarono i murales ripulendo Roma in vista del Giubileo. Indubbio è che i suoi sono interventi ricercati, collocati tridimensionalmente nello spazio urbano, in dialogo (qualcuno dirà fin troppo) con l’architettura che firma11 alla stregua di un ready-made. E l’orinatoio, ricordiamolo, non può essere dichiarato arte se non dall’artista medesimo che lo rinomina Fontana, il che apre un circolo vizioso con cui il contemporaneo ha dovuto e deve fare i conti da oltre un secolo, anche se finge spesso di dimenticarselo.
A Geco viene contestato di dire sempre e solo «io». Sì, e lo fa scrivendolo a caratteri cubitali, sempre più grandi e collocati sempre più in alto; ma è quello che fanno gli artisti, dire «io», cancellando la lavagna del reale per ridisegnare il mondo, risignificandolo; il writing, è ben noto, da sempre si confronta (in una visione romantica, potremmo dire alla stregua di Davide contro Golia) con gli advertising dei grandi brand, presenze onnipervasive legalizzate del paesaggio urbano contemporaneo (sono pochi, anche se non assenti, gli amministratori che decidono di ripulire la città dalla pubblicità). La questione banalizzando è: perché la Coca Cola sì e io no? Geco non solo costruisce il suo logo e la sua notorietà, ma come certe forme di guerriglia comunicativa militante – pensiamo all’ultima produzione del romano Hogre12 – si appropria beffardo del claim di una nota bevanda alla caffeina, appiccicandolo con un incastro perfetto sulla fiancata del mercato Metronio: Geco ti mette le ali!
Mi piacerebbe lasciare per un attimo il territorio dell’arte per soffermarmi sul valore che ha dire «io» in un tempo dove tutti ci sentiamo sempre meno ascoltati (ragione, come ci ricorda Chantal Mouffe13, del trionfare dei populismi, che sono il tentativo maldestro del popolo di rientrare dalla finestra dopo essere stato messo alla porta da un potere decisionale che non lo contempla se non per adempiere allo svuotato rituale civile del voto (viviamo, ahinoi, nell’era della post-democrazia). Il valore di dire «io» di fronte a chi ci vuole espellere, rottamare, cancellare perché non siamo più produttivi, o non sufficientemente ricchi o non sufficientemente omologati. Il Covid-19 ci ha fatto vedere lo spettro delle città vuote, ci ha mostrato lo spettacolo della nostra stessa scomparsa, magistralmente messa in scena dalla benedizione-performance14 di papa Francesco nella piazza deserta di San Pietro. Credo che la pandemia abbia, al pari di certa produzione profetica tipica del contemporaneo come lo intende Agamben, la capacità di mostrare, ciò che siamo e dove stiamo andando, in tutta la sua evidenza (e crudezza), al pari di un enorme evidenziatore che osserviamo all’opera mentre sottolinea (se ce ne fosse bisogno) le disparità e le ingiustizie insite nel sistema senza precedenti (perché senza concorrenti) che governa il mondo mondializzato.
Cosa ci dice la città svuotata dalla presenza umana? In chiave distopica e parossistica che essa può esistere anche senza i suoi abitanti. Nei caveaux di banche e finanziarie o museificata-patrimonializzata. Ma questo non lo sapevamo già? Non si disputa già da tempo la lotta tra chi la città la abita e chi invece la considera valore mq, un bene da mettere a reddito o, peggio, da utilizzare quale ancoraggio di operazioni finanziarie senza corpo progettate dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale? Svuotata dalla vita rischia di essere la città del futuro (un paradosso se pensiamo che è al contempo l’habitat dei sapiens del Terzo Millennio per il 50% +1), e non a causa della pandemia, anche se va detto che essa certo contribuisce non solo a mieterli i corpi, ma anche a farci diffidare di essi, additandoli come impuri e contaminanti. E non solo quelli degli altri, delle vecchie classi pericolose, dei brutti sporchi e cattivi – che Ernesto Galli della Loggia ancora agita a mo’ di spauracchio, immaginando un centro città turrito preso d’assalto da orde di giovani periferici desiderosi, perché invidiosi, di infettarne i residenti benestanti, neanche si trattasse di uno zombie movie!15. Scriveva, ben prima dell’apparizione del SARS-Cov-2, Tamar Pitch: «ciò che è considerato impuro e contaminante […] si moltiplica, si allarga continuamente, per un verso, all’interno, comprendendo non solo il corpo in quanto tale, ma le parti sempre più piccole del corpo stesso, e per un altro verso l’esterno, dai confini della propria casa alla città e poi a porzioni sempre più vaste del mondo»16.
Ecco perché dobbiamo difendere Geco: non solo in nome della libertà dell’arte di attraversare lo spazio urbano per sperimentare nuovi linguaggi, ma per rivendicare una città che sia plurale, contaminata, che sappia convivere col suo inevitabile «sovraccarico di intenzioni», rinunciando alla idea vecchia e nostalgica che la lega a una qualsivoglia fondazione celeste17 o vocazione ideale (la città ideale è vuota, oltre che autoritaria); e più in generale per rivendicare la nostra determinazione, ostinazione, ad abitare la città, senza che i muri, sporchi o puliti, ci imprigionino (confinandoci in casa) o ci espellano, perché troppo costosi per le nostre tasche. Per questo propongo di firmare la petizione online #freegeco18, ma anche di vederci tutti i giorni alla cinque (tea time) per un sit in sulla scalinata proibita a goderci la vista di Piazza di Spagna, seduti comodamente sui 135 scalini voluti da papa Benedetto XIII (e restaurati con i denari del gioielliere mecenate Paolo Bulgari), rivendicandola di diritto all’uso pubblico, perché a nessuno deve essere consentito di considerare gli umani indecorosi. Potremmo farlo portando con noi un’azalea, quelle che da sempre hanno ornato Trinità dei Monti, o un alberello, per dire che noi lì siamo anche disposti a metterci radici (col vezzo di concederci un riferimento letterario alla foresta che avanza, incubo di una sovrana che si lavava troppo spesso le mani).
Note
↩1 | D. Vazquez, Che cos’è il Sublime Colossale? Geco e l’arte Ultra-Contemporanea, in G. de Finis (a cura di), Non autorizzati. L’arte disubbidiente nello spazio pubblico, Castelvecchi, Roma, 2020. |
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↩2 | Dal Lago, S. Giordano, Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata, DeriveApprodi, 2018, Roma. |
↩3 | T. Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari, 2013 (2018), p. 39. |
↩4 | M. Bisso, Retake, dieci anni per Roma in difesa dei beni comuni, in «la Repubblica», 9 settembre 2020. |
↩5 | Termine tecnico utilizzato per la procedura di rimozione delle opere dipinte su muro e per gli affreschi. |
↩6 | «La mostra Street Art è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi. Di fronte alla tracotanza da landlord, o da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni. Agire per sottrazione, rendere impossibile l’accaparramento. Non stupisce che ci sia l’ex-presidente della più potente Fondazione bancaria cittadina dietro l’ennesima privatizzazione di un pezzo di città. Questa mostra sdogana e imbelletta l’accaparramento dei disegni degli street artist, con grande gioia dei collezionisti senza scrupoli e dei commercianti di opere rubate alle strade. Non stupisce che sia l’amico del centrodestra e del centrosinistra a pretendere di ricomporre le contraddizioni di una città che da un lato criminalizza i graffiti, processa writer sedicenni, invoca il decoro urbano, mentre dall’altra si autocelebra come culla della street art e pretende di recuperarla per il mercato dell’arte». Si veda anche il volume appena pubblicato di Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia Books, 2020. Ricorrono alla pratica dell’autocancellazione anche gli artisti coinvolti nel progetto Muracci Nostri a Primavalle, per denunciare le mancate promesse dell’amministrazione sul mercato rionale che si erano impegnati a riqualificare e sostenere. |
↩7 | A. Cfr. Dal Lago, S. Giordano, Op. cit., p. 6. |
↩8 | https://www.youtube.com/watch?v=aqBeYQPfmGU |
↩9 | «Artribune» rilancia la testimonianza video che ci mostra il graffitaro con l’impermeabile in azione, facendola accompagnare dalle considerazioni critiche di Luca Simeone, che non sembra escludere si tratti di un blitz dell’artista di Bristol; di parere contrario Arianna Di Cori che su «La Repubblica» del 2 novembre scrive dell’accaduto liquidandolo come una bufala. |
↩10 | «Non dev’essere una decisione facile. Sei un assessore. Hai leccato il culo e sparato cazzate per abbastanza anni da ottenere un posticino caldo caldo nel governo locale […]. Una mattina suona il telefono […]. Un cosa!? Un Banksy! Improvvisamente sulla tua testa cade una spada di Damocle: cancellarlo o non cancellarlo?», cfr. P. Potter, Banksy – You Are an Acceptable Level of Threat, Carpet Bombing Culture, UK 2012, trad.it. Banksy. Siete una minaccia di livello accettabile, L’Ippocampo, 2019, p. 23. |
↩11 | Scrive a proposito Kiv: «Il writing era un gioco di ruolo. Come in tutti i giochi di ruolo ci sono vari livelli. Ai miei occhi era come se, ad ogni scorcio, Roma divenisse un quadro sul quale io dovevo solo mettere la firma. Io le mettevo dove stavano bene». Cfr. A. Kiv Marrapodi, Ogni scorcio di Roma era un quadro, e io dovevo solo firmarlo in G. de Finis (a cura di), Non autorizzati, cit. Ci si potrebbe chiedere se un’opera di architettura firmata può essere a sua volta firmata, in una sorta di cannibalica appropriazione post-production, ma anche di precedenti di questo tipo l’arte contemporanea ci offre testimonianza. |
↩12 | https://www.macroasilo.it/media/hogre-special-patrol-group-stealthisposter-org-audio |
↩13 | C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, 2018. |
↩14 | Cfr. G. de Finis, Ciao Roma, adieu mondo. La benedizione Urbi et orbi di papa Francesco, in G. de Finis, Mork chiama Ork. Microetnografia della pandemia, Bordeaux edizioni, 2020. |
↩15 | «Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società “per bene” insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere». E. Galli Della Loggia, Disagio e disuguaglianze, le nostre periferie rimosse, «Corriere della Sera», 28 luglio 2020. |
↩16 | T. Pitch, Op. cit., p.49. |
↩17 | Platone, che ci mette in guardia anche della pericolosità dell’arte, nel Timeo e nel Crizia ci spiega perché Atlantide ad un certo punto si inabissa. La città, ci dice il mito per voce del filosofo, è opera di Poseidone, che la costruisce per l’amata Clito, circondandola di fossati, alternativamente di terra e di acqua, affinché sia inaccessibile agli uomini. Che, tuttavia, arrivano sotto forma di progenie e col passare del tempo corrompono il progetto originario, volendo ogni re, e ogni generazione, dire la propria sulla città ereditata dal dio; finché questi non decide di cancellare la lavagna. Cfr. G. de Finis, [Dis]guida all’isola che non c’è, in G. de Finis, a cura di, Atlantide, Bordeaux edizioni, 2015, pp. 19-29. |
↩18 | https://www.change.org/p/governo-e-parlamento-italiano-modificare-legge-639?signed=true |
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