Demonumentalizzare la storia
Gli haunting plots di Marko Tadic alla Biennale di Venezia
«Dove vanno a finire gli oggetti che non hanno più alcuna utilità?» si chiedeva Gilles Deleuze ne L’Immagine-movimento, al fine di interpretare il rapporto tra la temporalità di un’azione e quella di una situazione. E proseguiva con la risposta più ovvia e immediata che si potesse formulare: «normalmente vengono buttati nella pattumiera». Ma subito correggeva l’insufficienza della replica, con un’altra possibile formulazione (questa volta di natura teoretica): «Bergson poneva questa stessa domanda e rispondeva metafisicamente: quanto ha smesso di essere utile comincia ad essere, semplicemente». Il congedo dei mezzi dai propri fini, l’affrancamento delle parole da una lingua naturale, questa progressiva perdita dei luoghi propri da parte di uomini e cose (per cui si è sempre più fuori posto), è il segno dei tempi che stiamo vivendo.
Eppure l’impossibilità di utilizzare ancora certe cose o la condizione di frammento residuale di quanto precedentemente c’è stato, è lontano dall’essere un arresto della loro storia o un segno della loro irrevocabile scomparsa. Di fatto, quello che Deleuze chiama pattumiera corrisponde ad uno spazio di potenzialità, ad un campo di latenza, dove ogni fatto compiuto può riaccedere ad un poter fare, alla sua facoltà come tale: alla generica potenza di enunciare o di agire, mai esaurita da tutte le enunciazioni definite o da tutte le azioni già compiute. Là dove gli atti potenziali non si esauriscono mai in un numero definito di realizzazioni, essi rimangono capaci di sempre nuove estrinsecazioni, di possibili nuovi inizi.
È di fronte all’inerzia dei detriti di un passato come quello del modernismo socialista jugoslavo che Marko Tadic decide di «fare Storia partendo dai rifiuti della Storia» – come avrebbe detto Benjamin, citando i Goncourt. Ma questi detriti non sono tali solo perché, dopo una data fatidica, hanno cessato di funzionare. Si tratta piuttosto di cose o segni che, forse, una vera e propria funzione non l’hanno mai avuta e possono dunque essere considerati giocattoli in senso benjaminiano. «Prodotti collettivi», cioè, che rimandano sempre ad un confronto con il mondo dell’adulto e che di questo tornano a liberare, ogni volta, quel gioco primo e originario che si è poi fossilizzato in abitudine.
Cartoline, mappe geografiche, vecchie diapositive, taccuini trovati al mercato delle pulci, archivi fotografici personali, libri di seconda mano, costituiscono quell’arsenale lillipuziano (statico e immobile) che Marko Tadic cerca di riattivare attraverso il processo elementare della video animazione. Tadic usa questi oggetti come fonti del passato che, più che fornire informazioni dirette su fatti e date, danno un’idea della trama del tempo.
Il titolo che, a partire dal 2013, più volte ritorna in molti dei suoi lavori è, non a caso, Imagine a Moving Image e dichiara subito quell’oscura forza del ritorno e della ripetizione che presiede all’intero lavoro di Tadic per cui un’immagine da statica diventa dinamica, viene re-immessa in una durata temporale, all’interno di una narrazione. Quegli oggetti ritenuti esanimi riprendono vita e le vicende ormai uscite dall’infinità dell’accadere e passate agli atti, tornano ad essere eventi, ricominciando tutto da capo. La stessa Scuola d’animazione di Zagabria – uno dei più significativi fenomeni della cinematografia jugoslava degli anni ’50 e ’60 – diventa per Tadic una sorta di officina da riaprire con tutto il suo capitale simbolico e le sue sfide alla retorica del realismo politico. Con l’ultimo capitolo di questa operazione, Events meant to be forgotten (2017), Tadic si serve di serie fotografiche del dopo guerra invece che di sequenze disegnate e montate con la stop-frame animation.
Ciò che qui ha luogo è la messa in moto di un gioco continuo di apparizioni e sparizioni in cui paesaggi urbani o naturali, così come cantieri di costruzione di monumenti o impianti industriali, diventano non solo la scena ma il corpo stesso dell’intervento costruttivo dell’autore. Attraverso la tecnica del foto-grattage, la pelle fisica dell’immagine fotografica viene incisa da una progressiva sottrazione che mentre lascia vedere le nuove possibilità di vita che questa può assumere, viene erosa fino a scomparire quasi del tutto sotto il segno grafico dell’incisione. Frasi che compaiono come intertitoli recitano spesso «A ruined view» o ancora «A search for a strange passage» dove l’immagine più che essere un campo spaziale diviene un diaframma temporale che si cerca di perforare per poter riaccedere a quel momento che precede l’impressione da cui la foto ha avuto origine. Si tratta dello scarto tra il carattere ineluttabile del documento e l’astrazione del disegno che dichiara due diversi modi di essere del tempo che s’incontrano, si sovrappongono e sembrano negarsi a vicenda: l’attuale e il virtuale. Parti di materiale non editato si alternano a sequenze montate attraverso la tecnica dell’in–camera editing, dove si originano i processi di sviluppo e crescita di schemi grafici che giungono fino alla saturazione dell’immagine precedente. L’utopia costruttiva di Sisak, il paese d’origine di Tadic, l’indomani della seconda guerra mondiale, è al centro di questo breve racconto visivo.
Lontano da ogni forma di pretesa memorabilità, questa storia è quella che dichiara da subito la propria esaustione e caducità. Solo così riesce a profanare il tempo restituendogli la sua potenzialità. Questo tempo esausto e sospeso diventa così quello che realmente ci appartiene. Ma proviamo ad ascoltare Tadic su questo.
Marco Scotini: Credo che il tuo lavoro, come quello di tuoi colleghi in altre regioni dell’ex blocco socialista, possa ascriversi a quella spettrologia di cui parla Derrida. La questione del fantasma è il primo elemento che ne emerge, sia per i contenuti che per le procedure di produzione. C’è una sorta di anacronismo costitutivo che, naturalmente, è soltanto apparente. Comunque è tale da insinuare una differente modalità di intendere il senso del tempo, la storicità delle cose. Quello che mostri sono vecchie foto e cartoline fuori uso, strutture cinematografiche e museali moderniste, radiodrammi e videoanimazioni, Kodak carousel, taccuini e altri elementi obsoleti. Un armamentario, dunque, che potrebbe appartenere alle rovine del passato ma che tu usi con una coscienza del presente molto alta. Che genere di temporalità sta dietro questo tipo di esperienza?
Marko Tadić: Mi sento una sorta di parassita per il modo in cui uso sempre vecchie foto, vecchi cataloghi, vecchi libri e film. Lo vedo come una sorta di intervento diretto e di collaborazione con il passato. I foto-grattage su stampe vintage e su diapositive rianimano questo materiale melanconico in un modo quasi frankensteniano, ridando vita a qualcosa che, dopo questo intervento, torna a vivere autonomamente. Tutte queste foto vengono da archivi personali e sono state trovate nei mercati delle pulci, dopo essere state gettate via dai loro proprietari o da chi si è impossessato dei loro spazi di vita. Questi oggetti, una volta portati all’interno del contesto artistico, diventano proiezioni di un possibile futuro, tanto familiare quanto distante. Il tempo diventa irrilevante e questi lavori risultano universali come delle idee generali. Ci mostrano quello che sarebbe potuto essere e quello che potrebbe essere ancora possibile.
M.S.: L’altro aspetto importante per addentrarsi nelle opere che mostri in Imagine a Moving Image è forse una conseguenza dell’assunto precedente sul tempo. Intendo parlare di quel processo di miniaturizzazione a cui sottoponi temi e formati della tua ricerca e che ne definiscono una declinazione benjaminiana, potremmo dire, in rapporto al giocattolo. «Giocando – dice Agamben – l’uomo si scioglie dal tempo sacro e lo dimentica nel tempo umano». Grazie alla miniaturizzazione tutto ciò che è vecchio si trasforma (si profana) in giocattolo. Senza che questo sia una fuga dalla storia.
M.T.: Il materiale con cui lavoro è il detrito. Nella nostra parte del mondo certe idee sono state cancellate e rimosse dopo le grandi trasformazioni socio-politiche. Si potrebbe dire che sono state eliminate con altri fatti ed eventi rimpiazzati da nuovi valori, sistemi e significati. Questi lavori ci mostrano il conflitto tra memoria personale e storia politica. Attraverso queste foto, diapositive e modelli, vediamo frammenti di un mondo possibile che, se accumulati (come nella mostra presso la Galleria Laura Bulian), si trasformano in una narrativa e in una coscienza interna del tempo difficilmente riconoscibile. Queste maquettes sono là per permetterci di porre noi stessi nel ruolo di pensatore, di creatore; una sorta di fenomenologico passo indietro per comprendere meglio le cose. A questo stadio sono semplici, accessibili e mobili; suggeriscono la combinazione di gioco e lavoro. Si tratta di una strategia per la demonumentalizzazione di idee e sistemi, visto che ci è consentito giocare con le idee.
M.S.: Il tuo lavoro rilegge la storia del modernismo socialista Iugoslavo. Penso alle ricerche astratto architettoniche di Vyaceslav Richter, con il cui atelier ti stai confrontando per una mostra futura. Penso anche a Vladimir Kristl della Scuola di animazione di Zagabria fondata alla fine degli anni ’50 e subito riconosciuta come una delle maggiori in Europa. Soprattutto in rapporto a quest’ultima hai costruito tutta la tua produzione video attraverso cinque o sei opere davvero importanti. Se penso all’uso che fai del disegno trovo che questo rapporto passi da Ivan Kozarich fino a Vlado Martek e arrivi a te. In che senso queste eredità da potenziali divengono attuali
M.T.: Vedo questa tradizione come un forum di idee, come un laboratorio dove posso esaminare i lavori e le pratiche artistiche che mi hanno preceduto. Questi artisti hanno affrontato la posizione sociale dell’artista, il compito sociale del lavoro d’arte, la loro responsabilità verso la società, il ruolo delle istituzioni nel mondo contemporaneo e, in questo senso, sono felice di trovarmi sulla loro scia. Aspiriamo ancora ad opere e istituzioni aperte, aperte dal punto di vista del significato e della comprensione, aperte a nuove teorie e pratiche.
M.S.: Stop animation come tecnica operativa, viaggi impossibili come contenuti dei video, passato e presente, documento e fiction: c’è sempre un tempo plastico che metti in scena. Ma soprattutto c’è un’operazione metamorfica per cui attraverso il disegno e la stop motion (così come la sequenza delle pagine dei taccuini), ogni immagine si origina per supportarne altre, diventa il deposito o il pre-testo di altre immagini fino a scomparirne dietro. Non c’è mai un’immagine prima, ma sempre qualcosa che si accampa su qualcos’altro. Questa idea non è anche quella che informa nel tuo lavoro il rapporto tra il display e ciò che è esposto?
M.T.: Visto che tutto il mio lavoro è pura ricerca non ci sono delle estremità ma piuttosto capitoli in cui certi elementi vengono decostruiti e poi ricostruiti in modo nuovo. Tutte le parti del mio lavoro (disegni, libri, animazioni, installazioni) cominciano dalla base, dalla più semplice idea e sono sviluppate in strutture più complesse, sempre in comunicazione tra loro, in continuo aggiornamento e aggiunta. In questo costante principio di abbandono delle idee e della loro obsolescenza, cerco di correggerle e usare quello che è di valore (un riciclo per catarsi).
M.S.: In molta arte post-socialista, da Ondak a Muresan o a Narkevicius, c’è sempre un rapporto tra infanzia e storia da cui non si può prescindere: c’è un da capo che è sempre una ripetizione differente. Credo che, in forme diverse, tu insista sulla stessa matrice. Il tuo mondo non è tanto fatto di cose quanto delle macchine (narrative, sceniche, espositive) che le hanno mostrate o attraverso cui esse ci sono apparse: lo schermo è una figura che ritorna continuamente. Ma queste macchine (una volta sacre) ci stanno accanto ora come docili arnesi, senza sapere se registrano una perdita (quali testimoni del disincanto) oppure siano pronti a rimettersi in gioco (quali soggetti di un nuovo incanto). Quale immagine dell’utopia continua a vivere nel tuo lavoro?
M.T.: Un’utopia concreta, la ricerca per soluzioni pratiche ai problemi. I miei lavori gettano uno sguardo nelle idee e negli ideali del passato per trovare nuove soluzioni e opzioni per oggi e domani. Credo che il mio lavoro sia più prescrittivo che descrittivo, è una ricerca visiva che diventa una ricerca di quelle idee che possano sopravvivere nel mondo. Il lavoro stesso fa un passo indietro per assumere un nuovo ruolo didattico. Tutto comincia con una serie di quesiti per trovare la strategia giusta per comprendere e risolvere parzialmente gli interrogativi posti. In tale processo la creazione di queste macchine o display mi aiuta a capire il processo creativo che sta dietro gli stessi interrogativi. Essere implicato nella creazione di qualcosa è importante per il mio pensiero, e produrre degli oggetti mi aiuta a collocare le idee esistenti per comprendere meglio i problemi in questione.
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