Il trionfo dell’arte italiana

Note sulla mostra di Ralph Rugoff e su quel che gli sta attorno

Lituania
Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte, Rugile Barzdziukaite, Sun & Sea (Marina) - Padiglione Lituano, Biennale di Venezia 2019.

Giovedì pomeriggio, dopo una giornata passata ai giardini e una trascorsa all’Arsenale, avevo pensato di intitolare questa riflessione «Perché il mediocre padiglione francese merita di vincere la Biennale di Venezia». Fortunatamente è poi arrivato il weekend e il titolo è cambiato. Ma per argomentare vorrei procedere per ordine e cominciare dall’inizio, dalla prima sala dell’Arsenale, che si apre con uno statement del curatore Ralph Rugoff che, oltre ad attribuire democristianamente la stessa citazione a Lenin e Leonardo, promette di porre il pubblico di fronte ad opere capaci di generare contrasti e di mettere in discussione posizioni consolidate. E già qui emerge la prima incoerenza. L’ideologo della Rivoluzione d’Ottobre e il genio che mise la sua inventiva a disposizione di Ludovico il Moro, di primo acchito, non sembrano i migliori garanti degli spiazzamenti promessi. Santi patroni di tali controcampi prospettici sarebbero altri, da De Sade a Céline, qualora fosse proprio necessaria una spalla citazionistica per accreditare il proprio punto di vista. Ma i contenuti di una mostra non li fa – o non dovrebbe farli – un breve abstract prestampato all’ingresso, così procedo nelle sale cercando quella rispondenza ad una promessa avuta e sulla quale conto, considerando assai vitale oggi far vacillare alcune certezze di un ordine sociopolitico che pur autoimpostosi come il migliore possibile, ci ha condotti, di fallimento in fallimento, sull’orlo della bancarotta politica e civile.

Ma, a dir la verità, progressivamente, l’argomentare della mostra internazionale di questa 58esima Biennale di Venezia, sembra finire per appiattirsi su una prospettiva unica e semplicistica, prostrata ad una scuola di pensiero che oltre ad essere datata sembra convincere ormai soltanto le nidiate di allievi dei college borghesi di mezzo occidente che sbandierano con imbelle fierezza il concetto di decolonizzazione in modo approssimativo e superficiale, se non addirittura ozioso. Il punto su questo argomento credevo lo avesse messo Martin Luther King nel 1963 quando affermò con tutta la chiarezza possibile di sognare un mondo in cui i propri figli venissero giudicati non per il colore della loro pelle, ma per i contenuti di cui erano portatori. Da allora il tempo delle (anche giuste) recriminazioni si è esaurito e sarebbe dovuto iniziare quello votato all’edificazione di quel mondo che a quasi sessant’anni di distanza dal suo annuncio sarebbe dovuto essere già a buon punto e, forse, lo è se osserviamo le generazioni più giovani.

Ed è proprio qui il problema di questa mostra che dovrebbe tracciare l’orizzonte del nuovo o, se non altro fotografarlo, e, invece, si dimostra semplicemente vecchia, passata, superata, inversamente reazionaria. È moderna – perché si ferma idealmente alla crisi degli imperi coloniali del Novecento, si ferma al secolo di Lenin appunto – e non è contemporanea, non guarda al futuro, come King. Ma questo stare in controtempo dell’impianto concettuale porta con sé anche altri problemi contingenti. Grande, infatti, è la confusione sotto il cielo di Venezia se la bandiera del globalismo è sventolata in base ad un principio di rappresentanza invece che in forza di contenuti e (imperdonabilmente nella didascalia appioppata all’opera della Margolles) se si confonde il concetto di femminismo con quello di civiltà nel momento in cui si prende posizione contro i femminicidi. Errori gravissimi non nel merito, ma nel metodo, errori di prima elementare. Già gravi per i figli di commercianti di diamanti che, in piena isteria vetero-terzomondista, hanno appena completato il primo semestre alla Goldsmith, ma imperdonabili per un professionista di sessant’anni con una carriera sufficientemente gloriosa alle spalle.

La prima metà dell’Arsenale passa così, con una rassegna di opere e artisti la cui presenza sembra volersi legittimare sulla base della loro rispettabilità politica. Dopodiché si passa alla pura confusione. Emergono, ovviamente, gesti il cui valore continua a brillare anche a discapito di didascalie che pretenderebbero di spiegare tutto, perfino ciò che va al di là delle intenzioni dell’artista. Didascalie che più che indirizzare cercano di convincerti, neanche fossimo alla Biennale di Leningrado, appunto, e che illustrano opere spesso capaci di ridurre tutto a delle semplificazioni brutali che fanno del concetto di razza un caposaldo, invece di una disgraziata eredità del passato da cui sarebbe il caso di liberarci una buona volta. Siamo nel regno del senso di colpa d’ordinanza che, fino a prova contraria, è diventata una iperbole retorica utile a gonfiare un vuoto di contenuti che è l’aspetto più sinistro della società attuale. Fortunatamente ci pensa il leone d’oro di Arthur Jafa, a riportare complessità nel discorso di questa biennale, con un video struggente che, pur ancora ancorato ad una mentalità che vede nel contrasto razziale la sua prospettiva principale, ha l’onestà – quasi disperata – d’interrogarsi sul senso – o sull’insensatezza – di quel contrasto.

Haris Epaminonda, Biennale di Venezia 2019.

In questo, bisogna dire che per una volta l’unica vera nota positiva della presente Biennale sono stati proprio i leoni. Tabellino quasi perfetto da parte della giuria che ha premiato essenzialmente tutto ciò che andava giustamente consegnato alla Storia – con l’eccezione della inconcepibile menzione speciale al Belgio. Leone d’argento, infatti, è stata Haris Epaminonda che si è alzata di una buona decina di metri su tutto il resto con la solita leggerezza, la solita classe, accompagnandoci dolcemente in una tomba della nostra civiltà di matrice ellenica all’Arsenale, cui fa da contraltare il meno convincente, ma coerente video nostalgico proposto ai Giardini. Il lavoro di Epaminonda non si discosta certamente dallo stesso Zeitgeist che Rugoff ha cercato di afferrare con questa May you live in interesting times, ma rispetto ad esso si articola in modo enigmatico e non assertivo. Si pone, insomma, come l’arte sempre dovrebbe essere, senza aver bisogno di un pre-giudizio per poter essere accettata. (Valga la notazione che quelle assegnate all’artista cipriota sono le uniche didascalie in cui si capisce poco o niente). Ancora dai leoni devo andare a pescare per trovare i pochissimi lavori capaci di illuminare questa biennale che è certo la più deludente a memoria di chi scrive. Menzione speciale per Teresa Margolles, la cui installazione in Arsenale ha la forza di trasferire con immediatezza il tremore dei vetri direttamente ai nostri polsi e alle nostre ginocchia.

Fuori dalla zona premi, c’è davvero poco da rilevare. Tra i pochissimi lampi il lavoro di Soham Gupta che ritrae figure umane che pure sono state quasi rimosse, oscurate dai nostri ordini sociali e che non riusciamo a vedere se non attraverso lo squarcio luminoso di un flash, verso il quale vanno a sbattere come falene volti e corpi, colti nell’atto casuale di un bacio, un furto, un sorriso, un discorso lasciato sospeso. E poi il rigorosissimo lavoro di Gauri Gill che convince in Arsenale, mentre si dimostra sottotono ai Giardini. Ma d’altra parte, quello che fu il nostro padiglione nazionale, oggi divenuto sede distaccata della mostra internazionale, soffre un allestimento talmente confusionario e concentrazionario da rendere illeggibili anche opere che, forse, in altro contesto avrebbero avuto maggiore capacità di sorprendere. Gli acquerelli di un ottimo artista come Michael Armitage montati dietro la parete cieca di un’altra opera, in uno spazio nascosto e non più largo di un metro e venti, suscitano qualcosa per cui solo la parola «imbarazzo» può rendere il senso. Avrei molto voluto parlare della presenza italiana affidata a due ottime artiste, ma anche qui la curatela non ha aiutato. Ludovica Carbotta confinata negli spazi di Forte Marghera forse avrebbe meritato una visibilità anche negli spazi principali della Biennale e Lara Favaretto ha visto il gesto congelato e potente dei suoi cementi assediato minacciosamente da una Disneyland di colori, luci, suoni di pseudo-videogiochi che oltre a non convincere di per sé hanno letteralmente dissacrato un’opera che aveva tutti i crismi per poterci incantare.

Ma allora perché parlo di trionfo dell’Italia? Beh, innanzitutto perché un italiano ha vinto il leone più ambito, quello dei padiglioni nazionali. A vincerlo però è la Lituania, che da qualche anno sta investendo in modo attento ed intelligente sull’emersione della propria cultura contemporanea, in virtù, forse, del risveglio di quella grande tradizione culturale e intellettuale che venne ibernata dalla parentesi sovietica. Lucia Pietroiusti, responsabile dei programmi speciali e delle performance alla Serpentine Gallery di Londra, firma la curatela di un padiglione complesso, che mette assieme tre professionalità, quella di una regista, una scrittrice e un’artista performativa, rispettivamente Rugilè Barzdziukaitè, Vaiva Grainylè, Lina Lapelyte. E nei fatti, si può dire, che di tutto il panorama internazionale raccoltosi a Venezia, quello realizzato nell’area militare alle spalle dell’arsenale, sia stato l’unico padiglione che non fa errori ed è consapevole di cosa abbia senso presentare in un contesto come quello lagunare, bilanciando spettacolarità e stratificazione di elementi significativi.

L’installazione è al contempo innovativa e consapevole di un immaginario radicato nel cinema, nell’opera e nel teatro (il dispositivo visivo ha un nobile antenato nel rivoluzionario lavoro dell’architetto Jerzy Gurawski per il Principe Costante di Grotowski del 1965). Si avverte tutto il dinamismo positivo di una tradizione che si rinnova, come una giovane bellezza che sappia indossare elegantemente cimeli di famiglia restituendogli vitalità. Gli accenti di Rossini e Bernstein non sono che eco da accarezzare nel palato come i colori di un vino quando ormai ci s’accorge che, a differenza della frettolosità imposta dal dispositivo Biennale, qui si sta già fermi da una buona mezz’ora ad ascoltare duetti, arie e passaggi d’insieme. Si ha il tempo allora di soffermarsi sugli strati più profondi e inquietanti della visione, quelli che appunto, si diceva, un’opera «deve» avere se non vuol essere un proclama. Stiamo parlando in questi casi di elementi apparentemente minimi, come la discrasia fra testo e intonazione del canto (se non della posa), o della presenza di due coppie di gemelli che a chi scrive hanno evocato lo spettro di una società figlia di un nazismo che la guerra del ’45 forse non ha veramente battuto. Ma certo, ognuno ha i suoi riferimenti e i suoi spettri da proiettare in questa spiaggia che a guardarla bene, proprio dalla prospettiva che ci è proposta, finisce, col passare dei minuti, a somigliare sempre di più ad una discarica, ad un paesaggio beckettiano.

Cathy Wilkes., Biennale di Venezia 2019.

Degli altri padiglioni, come degli altri artisti presenti in biennale devo dire con grande rammarico, non val la pena di parlare in questa occasione. È davvero la prima volta. Due sole eccezioni possono essere portate, ma entrambe con riserva. Da una parte il padiglione del Ghana che, coerentemente con un percorso complesso e politicamente intelligente (non troppo dissimile, nella sostanza, da quello lituano), ha voluto presentare una prova di forza e di credibilità più intenzionata a riflettere un sistema che ha raggiunto il breakeven piuttosto che concentrarsi su un esito estetico. Dall’altra il padiglione britannico che presenta l’opera di Cathy Wilkes. Altissimo il risultato dei singoli lavori esposti, ma purtroppo un poco sotto tono è stato il ragionamento sull’impostazione del padiglione in sé, risultata un po’ datata. Ciò ha portato una volta di più all’attenzione del pubblico la sempre più urgente necessità di mettere in discussione un’idea del «dispositivo mostra» che possa iniziare finalmente a dimostrarsi meno rigida nelle sue forme e a poter procedere di pari passo con la capacità che le opere hanno di saper rispondere al modo in cui il pubblico di oggi pone le proprie domande. È un tema questo che dovrebbe, una buona volta, essere assunto anche dalla Biennale che quest’anno, col dimezzamento degli artisti sembrava aver compreso l’insensatezza delle grandi ammucchiate. Ma aver dimezzato gli artisti e raddoppiato le opere, nei fatti, ha costituito l’ennesimo paradosso di una impostazione curatoriale che purtroppo ha tradito le alte aspettative di chi scrive.

Alberto Burri, Umbria Vera (1952) – Fondazione Cini, Biennale di Venezia 2019.

E così il piccolo padiglione lituano finisce per essere l’unica cosa veramente all’altezza di ciò che dovrebbe costituire una Biennale di Venezia. Basterebbe questo per essere soddisfatti. E, invece, c’è di più. Molto di più. Chi si sofferma a Venezia qualche ora oltre quelle necessarie a vedere le proposte in concorso, rischia di avere la possibilità di partecipare anche a qualche evento collaterale. E lì, come accaduto anche nell’edizione scorsa, si finisce per giocare tutto un altro campionato, una vera Champions League. È qui che le soddisfazioni dell’Italia diventano trionfo, con tre mostre titaniche, quella di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada, di Alberto Burri alla Fondazione Cini e quella di Pino Pascali organizzata a Palazzo Cavanis dalla fondazione omonima, accanto (per dovere di completezza) all’antologica di Luc Tuymans a Palazzo Grassi e alla piccola ma preziosa mostra di Helen Frankenthaler a Palazzo Grimani. Ognuna meriterebbe un ragionamento a parte, ma, in questo contesto, valga la pena solo di accennare alla forza innovativa ancora presente nei lavori di questi maestri, talvolta datati 1951, 1967 o 1973. Un sacco di Burri del 1952 (Umbria Vera) sembra un esito successivo alle più recenti ricerche di due eccellenti nostri contemporanei come Berlinde de Bruyckere o di Ibrahim Mahama. L’Italia, è stato forse il paese, che più di tutti ha saputo stupire in questa grande occasione veneziana. Ma non è stata l’Italia dei morti, come ha detto qualcuno. È stata l’Italia di fondazioni vive e vegete (alcune anche relativamente giovani), da Prada a Pascali, di gallerie che continuano a lavorare internazionalmente come Tornabuoni, o di professionisti che all’estero stanno facendo un ottimo lavoro e vengono intercettati da paesi che decidono di investire su se stessi con metodo e serietà. In questi tempi politicamente bui è stato un segnale da apprezzare. È il segno che le infrastrutture di un sistema culturale non sono state distrutte. Forse non funzionano a pieno regime, ma con il dovuto coordinamento, potrebbero ancora servire a reimmettere intelligenza nel sistema.

Un’ultima nota che resta da scrivere riguarda quel titolo provvisorio che fin quasi alla fine avrei voluto dare a questo articolo. Devo riconoscere a Laure Prouvost un valore. Il suo padiglione, tecnicamente valido, non arriva alla sintesi dei lituani e alla loro eleganza, ma nel contesto dei giardini propone una visione del mondo globale che pur ferma agli anni Novanta (e qui la mediocrità che gli attribuisco) è circa 50 anni avanti a quella della mostra curata da Rugoff giacché quello è il periodo che intercorre fra la crisi degli imperi coloniali e la nascita della new age. Sì, siamo d’accordo, siamo parlando di anticaglie, ma la differenza d’impostazione fra la recriminazione e la ricostruzione non è di poco conto.

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