Dopo l’utopia neoavanguardista
Luciano Ferrari Bravo e il design
Questo testo, a introduzione e commento del saggio di Luciano Ferrari Bravo qui proposto, è stato pubblicato dall’Archivio Luciano Ferrari Bravo, sito al quale rimandiamo per un approfondimento del lavoro politico-teorico del cattivo maestro LFB.
Il testo che qui presentiamo è assai raro e curioso. Innanzitutto per il campo disciplinare su cui insiste: il design industriale. In secondo luogo, perché Ferrari Bravo non è uno specialista di architettura, né si è mai interessato in particolare di discipline del progetto, come dichiara egli stesso in apertura: «credo che affrontare un tema su utopia, progetto e design sia un’impresa alquanto difficile. È un tema (…) tanto complesso quanto meno personalmente ho titolo per parlare di design, ci tenevo a dirlo subito, non ne so assolutamente nulla, o quel poco che ne so comunque assumo di non saperlo». Proviamo dunque a mettere un poco d’ordine.
Si tratta di una relazione rivolta, su invito di Guido Bianchini e grazie al lavoro di Ennio Chiggio e di Paolo Deganello (che dirige tra l’altro la rivista in cui l’articolo è pubblicato), a giovani architetti, designers, urbanisti in erba «nel maggio del 1974 presso la sede dell’Associazione Disegno Industriale di Milano». Giovani lavoratori intellettuali che bisognava perciò organizzare politicamente per «pretendere il riconoscimento del valore della forza lavoro che opera nel design», un valore che «è determinato dal valore aggiunto che questa area di sperimentazione formale fornisce allo sviluppo» . Tuttavia l’ipotesi organizzativa brilla su un fondo più generale. La questione teorica che attraversa tutto il testo può essere riassunta così: quali rapporti sono pensabili tra marxismo critico e architettura? Su quali nodi si può pensare la politicità di questo settore professionale? Già nel titolo dell’intervento emerge una polarità tematica: progetto, design, si è detto; e poi utopia. La risposta alla domanda quindi passa attraverso questo campo discorsivo dell’utopia e del progetto, dei loro rapporti e delle loro possibilità.
Ma diciamolo meglio. Fin qui non c’è nulla di originale nell’approccio di Ferrari Bravo. Il rapporto tra politica e architettura, in effetti, si articola lungo tutti gli anni Sessanta, attorno alla questione dell’utopia. Già nel 1963, sul terzo numero dei Quaderni Rossi, Claudio Greppi e Alberto Pedrolli firmano un testo su Produzione e programmazione territoriale. Si trattava di un’analisi dell’ideologia della città-regione, da intendersi come dispositivo teorico attraverso il quale il piano capitalistico cerca di «equilibrare le disfunzioni interne al processo di circolazione» su scala allargata. La metropoli, dunque, come «proiezione della fabbrica». Tuttavia, notavano Greppi e Pedrolli, in questo tentativo, «i piani risultano sempre sfasati rispetto alla mobilità crescente imposta dal capitale a tutti i fattori della produzione». Perciò accanto all’ideologia tecnocratica della città regione, «troviamo sempre l’utopia, l’incapacità operativa: sono questi i due poli entro cui si svolge attualmente l’attività critica e operativa degli architetti-urbanisti». Fissato così il piano della ricerca, l’articolo si chiudeva su una nota direttamente architettonica: l’esaltazione del modello degli Höfe viennesi, le abitazioni-fortezza operaie, come contro-modello rispetto alla «penetrazione di valori privatisitici piccolo-borghesi».
L’analisi di Greppi e Pedrolli è ancora impressionistica, essa insomma sottintende ancora una funzione classica del lavoro architettonico, diciamo di tipo artistico-estetico. Su questa base avanza una sorta di scissione tra programmazione territoriale ed architettura. In altri termini: l’architettura non è il piano, anzi, al piano si oppone per evitare la disgregazione prodotta dal dispositivo metropolitano. Ipotesi fragile. Innanzitutto perché limitata ancora alla ricerca di un modello stilistico – individuato nel Karl Marx Hof – per una cultura architettonica «ad uso operaio». Ma gli Höfe furono strumenti socialdemocratici d’integrazione della classe, più che spazi di resistenza. Di quel modello si sarebbero dovuti cercare, perciò, i limiti. In secondo luogo perché la funzione utopica, scacciata dalla porta, rientra immediatamente dalla finestra, rilanciando un modello arretrato – tipicamente anni Trenta – su un tessuto urbano estremamente modificato dallo sviluppo sociale. Per cogliere l’originalità dell’intervento di Ferrari Bravo dovremmo leggerlo assieme ad altri due testi pubblicati nel medesimo numero dei Quaderni del Progetto, quello di Guido Bianchini, dedicato a Tecnologia e organizzazione di classe, e quello di Ennio Chiggio su Qualità del lavoro e tecnico progettista. Si vedrebbe allora squadernarsi un campo problematico estremamente ampio. Qualità e Tecnica, Utopia e Progetto, sono termini che funzionano per tensioni conflittuali. Una tale apertura costituiva già di per sé una replica indiretta all’impostazione egemone nella cultura architettonica italiana degli anni Settanta.
Riassumiamo dunque. Nel momento in cui – questo l’assunto di base della rivista – «il progetto diviene merce, si trasforma in forma mistificata e costa in prezzi», può essere il ricorso all’utopia, lo strumento critico fondamentale per l’organizzazione politica di classe di questo particolare settore del lavoro intellettuale? Così pensavano, com’è noto, le cosiddette neo-avanguardie italiane, gli architetti Radicals che nel 1972 Ettore Sottsass ed Emilio Ambasz avevano lanciato sul mercato mondiale con una celebre mostra al Moma di New York. In particolare così pensavano i protagonisti del gruppo Archizoom, di cui Paolo Deganello fu fondamentale animatore.
Ora su questa faccenda si è molto scritto, e ultimamente, nella critica d’arte e d’architettura, la postura pare tornata di moda. Si cerca così di caratterizzare, in molte pubblicazioni, una presunta area di architetti autonomi. Se l’architettura socialdemocratica era stata razionalista e pianificatrice, il design rivoluzionario sarà utopico e creativo. Se il riformismo si traduce in progetti la cui cifra fondamentale è la pianificazione, il comunismo piega il piano in orrida distopia e denuncia così l’impero della tecnica e del mercato sul lavoro architettonico. Se il boom economico ha richiesto progetti, il movimento risponde con un’antiprogettazione radicale. Il progetto critico, in altri termini, è sempre utopico: guarda ad un futuro possibile contro il reale – di volta in volta rovesciando il suo linguaggio in distopia, ironia, happening, o in paradigma futuro. La medesima risposta veniva data, d’altro canto, dalla cultura architettonica ufficiale. Basti leggere, ad esempio, i testi canonici di Leonardo Benevolo nei quali – peraltro esplicitamente in polemica contro Engels e Marx – si rintracciavano le origini dell’architettura moderna nelle grandi utopie socialiste del XIX secolo – canone duro a morire, questo, e ancora oggi assai diffuso. In chiaro: l’architettura come disciplina di progetto nasce nei falansteri e si carica così di una potente missione sociale e filantropica; passa poi attraverso le avanguardie e finisce nelle grandi macchine collettive di Le Corbusier. Se il presente è mercificazione di ogni attività umana, il progetto è invece utopia d’avanguardia. La struttura epistemologica del fare architettonico dipende da questa sua tensione vero il futuro. Irrealistica? Tanto meglio. Il fare architettonico è tensione contro l’esistente, immaginazione di ciò che non è immediatamente presente; la creatività, la qualità del progetto, dipendono da questa sua fondamentale caratterizzazione. Ora però Ferrari Bravo, sostiene l’esatto contrario di tutto ciò: no, l’utopia non è più, non può più essere, o almeno non può essere oggi, uno strumento critico del progetto. Al contrario essa è la forma tipicamente inoffensiva attraverso cui si sviluppano le mediazioni culturali che permettono l’integrazione dei conflitti di classe nel ciclo produttivo da una parte, e nel ciclo mercantile, dall’altra. Di più: il lavoro del designers non può limitarsi alla sfera dei linguaggi. L’intelligenza creativa abita regioni altrimenti cariche di realtà. Manipola un potere altrimenti urgente e prezioso. Ma domandiamoci: cos’è cambiato, sul piano della critica, tra quel primo articolo dei Quaderni Rossi e la relazione del ’74 di Ferrari Bravo? Cosa ci sta nel mezzo?
Architettura e Operaismo
In mezzo stanno due cose: il 1968, innanzitutto, con le sue lotte metropolitane e l’incubazione di una forma compiutamente socializzata della forza lavoro creativa; e poi ci sta l’ultima iniziativa editoriale dell’operaismo: la rivista Contropiano. Rivista di passaggio, estremamente ambigua. Sul piano del pensiero vi si trova un Marx assai mitteleuropeo: letto insieme a Nietzsche, al giovane Lukàcs, a Benjamin, a Weber – e perciò infinitamente più ricco di quello normalizzato dallo storicismo italiano. Il nesso tra marxismo e «pensiero grande-borghese» permette a questo tardo operaismo una linea di condotta capace di frequentare – lo ha notato Adone Brandalise – forme di pensiero «trasversali rispetto alle discipline», e aggredire «i nodi decisivi nell’evolvere del sistema dei saperi». Una verifica dei poteri del sapere, si potrebbe dire, parafrasando un celebre testo di Franco Fortini. Questa è la missione di Contropiano. Si sviluppano così le prime indagini sul Negative Denken di Massimo Cacciari, come anche le analisi di Albero Asor Rosa sulla grande letteratura europea e di Manfredo Tafuri sull’architettura.
Ferrari Bravo parte dunque dalla critica tafuriana per distruggere il neoavanguardismo dei Radicals. «C’è un momento regressivo – dice – un momento rivolto all’indietro nell’esperienza dell’avanguardia». Ed in cosa consiste, questo momento regressivo? «Nell’ambizione del socialismo, da sempre, di riconquistare una dimensione umana del lavoro con l’unico esito di accentuare gli elementi di ristrutturazione tutt’altro che umani che lo sviluppo contiene in se stessi». Perciò, dice Ferrari Bravo, una nuova avanguardia non è possibile, né utile all’organizzazione conflittuale dei settori creativi della classe operaia. In mezzo, tra le avanguardie storiche e il presente, bisogna abbandonare ogni forma astratta di mediazione, come insegna il pensiero negativo:
«C’è di mezzo Nietzsche, evidentemente – dice Ferrari Bravo. C’è questa necessità di passare attraverso una distruzione radicale, consapevole, ferma, priva di compromissioni rispetto al passato, di accettare fino in fondo una realtà irreversibile (…) della civilizzazione capitalistica, per potere, a partire da questo, (…) tornare a progettare lo sviluppo. (…) In questo caso secondo me ha ragione Tafuri. (…) Bauhaus è veramente la conclusione necessaria di questo ciclo (…). Gli elementi utopici di ricostruzione che caratterizzano tutta l’avanguardia in tutte le sue versioni non possono che condurre ad uno scacco».
Ciò vale sul piano della critica culturale o se si vuole della critica del progetto. L’operaismo non contiene, né pretende di avere, delle indicazioni operative, ma si svolge come decostruzione del pensiero grande borghese nei suoi cicli fondamentali: nell’arte, nella letteratura, nella filosofia e nell’architettura. Fin qui, però, siamo ancora a Tafuri. Ma Ferrari Bravo compie un salto decisivo: dalla critica del progetto al progetto critico, aprendo così un terreno di ricerca del tutto nuovo: «che cosa è il progettare, questa operazione che noi verifichiamo a diversissimi livelli dell’operare artistico e non artistico» ?
Il lavoro del progetto
Per coglierne la portata critica interna del progettare si parte dalle definizioni marxiane di lavoro astratto e processo di valorizzazione. Il progetto è forma epistemologica del lavoro. Ma nel capitalismo il lavoro ha sempre un carattere dualistico: «la forma entro cui si presenta la ricchezza in una società capitalistica non è quella di un insieme di valori d’uso […] ma quella di una cosa appunto duplice. Insieme valore d’uso, cosa utile per le sue qualità e valore di scambio, cosa misurabile quantitativamente». La duplicità delle merci non è altro che il risultato della duplicità che attraversa lo stesso processo produttivo: il progetto è sempre, insieme, elaborazione di valori d’uso, di cose utili e processo di valorizzazione del capitale esistente. Qui la base empirica del ragionamento è riconquistata, senza scarti. Lavoro e divisione del lavoro, quindi progetto e critica. Ne discendono una serie di conseguenze. In primo luogo, Ferrari Bravo sottolinea il «tendenziale separarsi dal processo lavorativo delle potenze intellettuali della produzione». A differenza del lavoro artigianale o artistico, le cui merci possono dirsi tali solo quando sono state fabbricate e «prima non ci sono», il prodotto industriale potenzia e valorizza proprio quel carattere generale del lavoro umano che risiede nell’«anticipazione intellettuale» del risultato. Un oggetto industriale si caratterizza proprio per questa sua «pre-esistenza ideale, per questa anticipazione di reale rispetto alla sua esecuzione». Allora non è solo la riproducibilità tecnica o seriale che caratterizza il progetto contemporaneo: «ma proprio questo meccanismo per cui nel processo lavorativo vengono separate e tendenzialmente contrapposte le potenze intellettuali e le potenze della produzione stessa e con essa la stessa potenza inventiva che dà forma all’oggetto […] la sua definizione formale». Perciò non è lecito ridurre il progetto a prodotto: i due termini coincidono interamente «solo e se» il carattere anticipante del progetto «è contemporaneamente processo di valorizzazione». Ma, nella produzione di merce specifica che caratterizza il lavoro dell’architetto e del designer, valore di scambio e valore d’uso non possono separarsi in modo assoluto, né coincidere compiutamente: essi sono contemporanei. Il progetto è sempre essenzialmente equivoco e si applica ad una realtà fondamentalmente contraddittoria. Esso può dunque esprimersi attraverso una tensione tra forze non riducibili l’una all’altra, ritmicamente separate. Da una parte il capitalismo che non è mai semplicemente «produzione di cose utili» e dall’altra l’architettura (o il design) che non può prescindere dalla funzionalità dei propri prodotti.
Si potrebbero leggere queste pagine secondo uno schema, per così dire, arendtiano. Hannah Arendt ha provato a individuare nella distinzione tra labour, work e activity degli spazi di indipendenza per la cooperazione intersoggettiva rispetto alla macchina di cattura astratta della ricchezza prodotta socialmente. Tuttavia una tale distinzione non basta a cogliere il punto proposto da Ferrari Bravo perché qui egli tenta di attraversare simultaneamente tutte queste dimensioni. La sua analisi perciò guarda piuttosto verso una ricerca che, nel 1974, era ancora tutta da fare. Una ricerca, per dirlo in chiaro, che riconoscesse il tema del progetto e quindi la forma del lavoro attraverso l’intero spettro della produzione sociale, per ritrovarvi anche quelle dimensioni che Marx definiva come orizzonte del non-lavoro. Produzione biopolitica, diremmo oggi, senza alcuna nostalgia perché tutta svolta nel segno dell’innovazione e della creatività.
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