I nuovi volti del fascismo

Conversazione con Régis Meyran

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Stefano Arienti e Cesare Pietroiusti, Disponibilità della cosa Scultura composta da banconote da 50 Euro conferite da sottoscrittori. MAMbo, Bologna aprile-giugno 2008 - Foto Matteo Monti.

Anticipiamo un estratto da «I nuovi volti del fascismo», il libro di Enzo Traverso che esce oggi per ombre corte. In una lunga conversazione con Régis Meyran, Traverso passa in rassegna l’ascesa delle destre radicali, il proliferare del populismo e della xenofobia, e anche l’insorgere spaventoso del terrorismo, spesso definito «fascismo islamico». Quali analogie e quali differenze presentano questi fenomeni rispetto ai fascismi storici e cosa vuol dire, insomma, la parola fascismo all’inizio del XXI secolo? 

 

La rinascita e la diffusione dei movimenti di estrema destra in tutta Europa è un dato di fatto. Ma come caratterizzarli? La chiave di lettura dei fascismi, così come la definiva lo storico Ian Kershaw1 per un insieme di movimenti nati nel xx secolo (tra cui il nazismo e il fascismo), è ancora pertinente oggi?

Il riferimento ai fascismi classici dell’Europa tra le due guerre mondiali sorge spontaneamente, in quanto il fascismo fa parte della nostra coscienza storica e del nostro immaginario politico. Ma questo riferimento è immediatamente offuscato da molti elementi del contesto attuale, innanzitutto dal terrorismo islamista, di cui parleremo più avanti, spesso definito «islamo-fascismo» dai commentatori o dagli attori politici, e poi dal fatto che queste nuove destre radicali si rappresentano come un baluardo contro di esso. Tuttavia, la parola «fascismo», a ben riflettere, si rivela più come un ostacolo che come un elemento chiarificatore della discussione.

Personalmente ho suggerito la nozione di postfascismo, pur preoccupandomi di indicarne i limiti. Questa nozione ci aiuta a descrivere un fenomeno transitorio, in trasformazione, non ancora cristallizzato. Essa non ha dunque lo stesso statuto del concetto di fascismo, di cui esistono diverse definizioni ma la cui legittimità non è in discussione e il cui uso è corrente. Il dibattito storiografico sul fascismo non è certo concluso, ma definisce un fenomeno dai confini cronologici e politici abbastanza chiari. Quando si parla di fascismo, non c’è ambiguità sull’oggetto della discussione. Al contrario, le nuove destre radicali sono un fenomeno eterogeneo, composito. Non presentano gli stessi tratti ovunque in Europa: dalla Francia all’Italia, la Grecia, l’Austria, l’Ungheria, l’Ucraina o la Polonia, hanno dei punti comuni ma sono anche molto diverse tra loro.

Dunque queste nuove estreme destre non possono essere considerate come dei nuovi fascismi. Perché?

Ho suggerito la nozione di postfascismo proprio per distinguerle dal neofascismo. In alcuni paesi il neofascismo è un fenomeno residuale, in altri un tentativo di estendere e rigenerare il vecchio fascismo. È il caso soprattutto di numerosi partiti e movimenti apparsi in Europa centrale nel corso degli ultimi vent’anni (Jobbik in Ungheria è un buon esempio), che rivendicano apertamente una continuità ideologica con il fascismo storico. Il postfascismo è diverso: nella maggior parte dei casi la sua matrice rimane il fascismo classico, ma se ne è emancipato. Molti di questi movimenti non rivendicano più questa provenienza, distinguendosi così chiaramente dai neofascismi. E comunque non presentano più una visibile continuità, sul piano ideologico, con il fascismo classico. Se cerchiamo di definirli, non possiamo ignorare questa matrice fascista, senza la quale non esisterebbero, ma dobbiamo anche considerare la loro evoluzione, perché oggi si sono trasformati e si muovono in una direzione di cui ancora non si conosce l’esito. Quando si saranno fissati in qualcosa di nuovo, con caratteristiche politiche e ideologiche precise e stabili, si dovrà coniare una nuova definizione. Ciò che caratterizza il postfascismo è un particolare regime di storicità – l’inizio del xxi secolo – che spiega il suo contenuto ideologico fluttuante, instabile, spesso contraddittorio, nel quale si mescolano filosofie politiche antinomiche.

Cosa le consente di affermare che le nuove destre radicali sono un fenomeno transitorio? Forse perché non sono ancora cristallizzate, con una matrice ideologica nuova, certamente declinata in modo un po’ diverso a seconda dei paesi?

Prendiamo il caso del Front national, emblematico per molti aspetti alla luce dei suoi successi recenti, e sul quale sono puntati i riflettori europei. Qui siamo di fronte a un movimento che ha una storia nota. La sua matrice, evidente al momento della sua costituzione nel 1971, è quella del fascismo francese. Poi, nel decennio successivo, è riuscito a riunire diverse correnti dell’estrema destra: nazionalista, cattolica integralista, poujadista e colonialista (in particolare i nostalgici dell’Algeria francese). Questa operazione fu possibile perché la distanza storica che lo separava da Vichy e dalle guerre coloniali era relativamente limitata. La componente fascista era l’elemento federativo e il motore di questo partito al momento della sua fondazione. La sua evoluzione inizia negli anni Novanta, ma è solo quando Marine Le Pen ne assume la guida, nel 2011, che il Front national cerca di cambiare pelle: il discorso è cambiato, i riferimenti ideologici e politici non sono più gli stessi e anche il posizionamento del partito sulla scena politica ha conosciuto un mutamento significativo. Ormai si preoccupa della sua rispettabilità, cerca di integrarsi nel sistema della Quinta Repubblica proponendosi come un’alternanza politica «normale», indolore. Si presenta come un’alternativa al sistema dell’Unione europea e ai partiti tradizionali, ma non intende più apparire come una forza sovversiva. Vuole trasformare il sistema dall’interno, mentre il fascismo classico voleva cambiare tutto. Certo, si potrà obiettare che Mussolini e Hitler arrivarono al potere per vie legali, ma la loro volontà di rovesciare lo Stato di diritto e di cancellare la democrazia era fuori discussione. Il discorso politico del Front national è molto diverso, come lo sono i contesti storici che separano la Francia di oggi dall’Europa degli anni Trenta. Si tratta di un cambiamento importante. Si può certo osservare un rapporto di filiazione rispetto al primo Fn, nel senso letterale del termine: il padre ha ceduto il potere alla figlia, conferendo al movimento dei chiari tratti dinastici. Ma questo partito nazionalista è ora guidato da una donna, cosa del tutto insolita per un movimento fascista. Inoltre, esso è attraversato da alcune tensioni che appaiono evidenti nel conflitto ideologico tra il padre e la figlia, o anche tra le correnti legate al Fn delle origini e quelle che vorrebbero trasformarlo in qualcos’altro. La trasformazione è dunque ancora in corso. È iniziata una metamorfosi, un cambiamento di linea che non si è ancora cristallizzato.

Come vede il ruolo dell’Unione europea di fronte alla crescita delle nuove destre estreme? Ne è la causa o il rimedio?

Mi piacerebbe poter dire che ne è il rimedio, ma purtroppo sarebbe una pericolosa illusione. L’ideale europeista è antico e il primo progetto federalista moderno risale alla metà del XIX secolo. Gli uomini di Stato conservatori che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, elaborarono la prima bozza di una comunità europea erano animati da un’autentica volontà di riportare la pace nel continente, di mettere fine ai fascismi e ai nazionalismi per dare inizio a una vera cooperazione. Potremmo aggiungere che questi uomini erano legati all’idea di una Germania europea. Il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il capo del governo italiano Alcide De Gasperi e il ministro degli affari esteri francese, Robert Schuman, durante i loro incontri si parlavano in tedesco. Adenauer era stato sindaco di Colonia, la capitale della Renania, De Gasperi deputato al Parlamento dell’Impero asburgico, e il lorenese Schuman si era formato nelle università tedesche. Essi incarnavano l’idea di una Germania dei margini, europea, opposta al nazionalismo prussiano.

L’Unione europea di oggi si è allontanata dal suo progetto iniziale, che nell’integrazione economica (il carbone e l’acciaio) vedeva la premessa di una costruzione politica, la quale, in futuro, sarebbe sfociata in una confederazione di Stati. Nei fatti, essa ha progressivamente eroso le sovranità nazionali per sottomettere il continente alla sovranità globale dei mercati finanziari. Nel 2015, la crisi greca ha mostrato il vero potere dell’Ue: la Troika (la Bce, il Fmi e la Commissione che risiede a Bruxelles). Sorprende constatare come, dopo aver dato prova di assoluta intransigenza nei confronti del debito greco, quello di un paese dove ora l’economia è saccheggiata dalle grandi banche internazionali, l’Ue si sia mostrata totalmente impotente di fronte alla crisi dei rifugiati. Il coro armonioso dei ministri delle Finanze ha lasciato il posto alla cacofonia delle xenofobie nazionali, con la chiusura delle frontiere tra i paesi membri. Questo spettacolo indecente è una delle principali fonti di legittimità di tutti i movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti vituperati dalle nostre élite europee. Tra il 2004 e il 2014, la Commissione è stata presieduta da José Manuel Barroso, attuale consigliere di Goldman Sachs; nel 2014, è stato sostituito da Jean-Claude Junker, che per vent’anni ha governato il paradiso fiscale lussemburghese. Un altro dirigente di Goldman Sachs, Mario Draghi, guida la Bce. Accanto a questi personaggi, Adenauer, De Gasperi e Schuman appaiono come dei giganti, degli uomini di Stato lungimiranti e coraggiosi. Se, dopo il trauma della Brexit, l’Unione europea non è capace di cambiare rotta, ci si chiede come possa e se meriti di sopravvivere. Oggi, lungi dal porsi come un argine alla crescita delle destre estreme, essa le legittima e le alimenta. E la sua disgregazione potrebbe avere effetti imprevedibili sui loro sviluppi. Nel quadro di uno scioglimento dell’Ue e della crisi economica che ne deriverebbe, le estreme destre potrebbero radicalizzarsi: il postfascismo potrebbe così assumere i tratti di un neofascismo. Con un effetto domino, questo processo potrebbe estendersi da un paese all’altro. Questa ipotesi non può essere esclusa ed è per questo che insisto sul carattere transitorio e instabile delle destre «postfasciste».

Ma non siamo ancora arrivati a questo punto. Oggi, le forze che dominano l’economia globale – il capitalismo finanziario – non puntano su questi movimenti, come abbiamo visto durante le elezioni presidenziali in Francia, né sui neofascismi di altri paesi: esse sostengono l’Unione europea. Per questo si sono opposte alla Brexit, e per questo durante la campagna elettorale americana, Wall Street ha sostenuto Hillary Clinton e non Donald Trump. Lo scenario descritto sopra, di un arrivo al potere delle destre radicali e di una disgregazione dell’Ue, comporterebbe una ricomposizione del blocco sociale e politico dominante su scala continentale. In una situazione caotica prolungata, tutto diventa possibile. In fondo, è quanto è successo in Germania tra il 1930 e il 1933, quando i nazisti hanno abbandonato la loro condizione di movimento minoritario di «plebei arrabbiati» per diventare gli interlocutori delle grandi imprese, delle élite industriali e finanziarie e poi dell’esercito.

Non è pericoloso trasformare l’Unione europea in un capro espiatorio? Le destre estreme sono certamente un fenomeno continentale (e in qualche misura internazionale) ma vanno combattute innanzitutto nei diversi paesi in cui si manifestano.

Ha ragione, perché l’estrema destra presenta dei volti diversi e non può essere combattuta nello stesso modo in Grecia, in Spagna, in Francia e in Italia. Ma prendiamo il caso della Francia, dove esiste un sistema politico che amplia enormemente le dimensioni dell’estrema destra durante le elezioni presidenziali. Dopo il terremoto delle elezioni presidenziali del 2002, quando Jean-Marie Le Pen si è trovato al secondo turno, è il Front national che, in qualche modo, detta l’agenda politica sul piano interno. Quindici anni dopo, la presenza di Marine Le Pen al secondo turno delle elezioni presidenziali è apparso un fatto normale e oggi è lei che guida l’opposizione a Emmanuel Macron. Con Sarkozy ministro dell’Interno, e poi Presidente, abbiamo avuto prima la promessa di «pulire a fondo» le periferie, poi la creazione del ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale. Sotto la presidenza di François Hollande, in un clima di tensione inasprito dagli attentati, l’adozione dei temi dell’estrema destra si è ulteriormente accentuata. Siamo passati dalla promulgazione dello stato di emergenza al tentativo di legiferare sulla privazione della nazionalità, fino al divieto di manifestare per i sindacati contrari alla «loi travail» (il job act francese), in un contesto di violenze indiscriminate da parte della polizia. La retorica repubblicana ha lasciato il posto alle misure «securitarie»: il dissenso politico e la contestazione sociale sono stati presentati come minacce per la sicurezza, mentre veniva attuata una politica di discriminazione e di sospetto nei confronti delle popolazioni di origine postcoloniale (le più interessate dalla doppia nazionalità), percepite come fonte di terrorismo. Se per garantire la sicurezza occorre uno Stato autoritario e xenofobo, il Front national apparirà sempre la forza più credibile. Macron vorrebbe ora inserire nella costituzione queste leggi speciali la cui filosofia, secondo alcuni eminenti giuristi, riprende le proposte da sempre avanzate dal Front national. Inoltre Marine Le Pen si propone, al contrario delle politiche di austerità condotte alternativamente dai governi di destra e di sinistra, e oggi da un governo che si presenta sia di destra che di sinistra, di difendere gli interessi delle classi popolari «bianche», dei «francesi di razza». C’è dunque materia sufficiente per attrarre una parte dell’elettorato popolare che negli ultimi anni è stato abbandonato dalla sinistra, ha perduto la bussola politica e si è rifugiato nell’astensione.

Per definire questi nuovi tipi di estrema destra, possiamo parlare di «nazional-populismi», come fanno i politologi Jean-Yves Camus et Nicolas Lebourg? A loro avviso, questi si caratterizzerebbero per la loro attenzione alle questioni sociali, per il loro interesse nei confronti delle minoranze, per il loro appello a un popolo fantasma, etnicamente puro… unitamente all’abbandono della vecchia visione razziale del mondo alla quale avrebbero sostituito una nuova visione in termini di scontri culturali… 2

Diversamente da Jean-Yves Camus, che tuttavia ha proposto alcune analisi molto acute di questo nuovo fenomeno, non credo che quelli che egli chiama nazional-populismi possano costituire una nuova famiglia politica fondata su una ideologia condivisa. Inoltre, diffido molto della nozione di populismo e dunque di quella di nazional-populismo. Quest’ultima è comparsa sulla scena intellettuale intorno alla metà degli anni Ottanta, soprattutto grazie a Pierre-André Taguieff, che ha cercato di darne la definizione più sistematica3. Certo, questa nozione potrebbe apparire più convincente oggi che negli anni Ottanta, perché la differenza tra il fascismo classico e il Fn è molto più evidente ai nostri giorni. Ma il concetto di populismo è talmente abusato che mi sembra abbia ormai perduto gran parte del suo valore interpretativo.

Non mi fraintenda: questa definizione rimane probabilmente valida per alcuni movimenti politici, per i quali ha certo una sua pertinenza, ma appare problematica quando è usata come sostantivo, come concetto4. Il populismo come fenomeno politico a pieno titolo, con il suo profilo e la sua ideologia, non sembra corrispondere alla realtà contemporanea. Ha uno statuto consensuale, e anche molto solido sul piano storiografico, per alcuni fenomeni politici del xix secolo come il populismo russo e il populismo americano, il bulangismo in Francia agli inizi della Terza Repubblica o ancora, nel xx secolo, la gran varietà dei populismi latino-americani5. Ma il populismo è soprattutto uno stile politico, e non una ideologia. È un procedimento retorico che consiste nell’esaltare le virtù «naturali» del popolo, nell’opporre il popolo alle élite, la società al sistema politico, per mobilitare le masse contro «il sistema». Ma questa retorica la troviamo in movimenti e in leader politici molto diversi tra loro.

Nel corso degli ultimi anni, sono stati tacciati di «populismo» Nicolas Sarkozy, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon in Francia, Jeremy Corbin nel Regno Unito, Donald Trump e Bernie Sanders negli Stati Uniti, Hugo Chavez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Néstor Kirchner e poi la moglie Cristina in Argentina, Berlusconi, Matteo Salvini e Beppe Grillo in Italia… Data l’estrema diversità di questi personaggi, la parola «populismo» è diventata un guscio vuoto, che può essere riempito con i contenuti politici più disparati. In sostanza, condivido l’analisi di Marco D’Eramo che, al di là della elasticità e dell’ambiguità del concetto, rivolge la propria attenzione ai suoi usi6. Secondo D’Eramo, «populismo» è una categoria che serve a definire i suoi utilizzatori anziché coloro ai quali viene solitamente applicata. Si tratta di uno strumento politico utile a stigmatizzare l’avversario. L’uso ricorrente di questo termine per indicare gli avversari politici rivela soprattutto il disprezzo del popolo da parte di coloro che la utilizzano. Quando l’ordine neoliberale, con le sue politiche di austerità e le sue disuguaglianze sociali, viene eretto a norma, tutte le opposizioni diventano automaticamente populiste. «Populismo» è una categoria con la quale delle élite politiche sempre più lontane dal popolo cercano di immunizzarsi.

Guardi la stampa europea, da «El pais» a «la Repubblica», da «Le Monde» a «The Guardian» e alla «Franfurter Allegemeine Zeitung», dove la crescita del populismo indica tanto una politica sociale – la messa in discussione dell’austerità, l’aumento del salario minimo, la difesa dei servizi sociali, il rifiuto dei tagli alla spesa pubblica… – quanto la xenofobia e il razzismo. È un esempio tra gli altri della confusione cui la parola populismo può portare. Secondo questa logica, tutti coloro che criticano la politica neoliberista della Commissione europea, del Fmi e della Bce – il vero governo europeo – sono populisti! Syriza in Grecia fino al 2015 e oggi Podemos in Spagna vengono pertanto regolarmente definiti populisti. È così che Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon in Francia, Donald Trump e Bernie Sanders negli Stati Uniti si ritrovano inseriti nello stesso gruppo, ignorando allegramente le loro radicali divergenze ideologiche. Quando si accetta il concetto di populismo, la divisione destra/sinistra come bussola della sfera politico diventa obsoleta e inefficace.

Un altro esempio potrebbe forse chiarire questo tema. Esiste una differenza fondamentale tra le sinistre dell’America latina e i movimenti postfascisti europei che spesso vengono riuniti nella categoria di populismo. Prenda Hugo Chavez: era un populista in tutto il suo splendore, nel senso di uno stile politico. Utilizzava spesso la demagogia come tecnica di comunicazione, si appellava regolarmente al popolo di cui si voleva l’incarnazione… Talvolta anche con buone ragioni, visto che fu un sollevamento popolare, nel 2002, a salvarlo da un tentativo di colpo di Stato organizzato dalla destra venezuelana e dall’ambasciata degli Stati uniti. Ebbene, i populismi dell’America latina, al di là di tutti i loro limiti, cercano di redistribuire la ricchezza, al fine di includere nel sistema politico quelle fasce sociali che ne sono escluse. Si può certo discutere della loro politica economica – l’incapacità di diversificare l’economia del Venezuela utilizzando la rendita petrolifera, che rappresenta la quasi totalità della ricchezza dello Stato, ha portato il paese sull’orlo della catastrofe dopo la caduta del prezzo del barile – ma il loro fine è essenzialmente sociale. Al contrario, i partiti «populisti» dell’Europa occidentale sono caratterizzati dalla xenofobia e dal razzismo, e il loro obiettivo è di escludere intere categorie della popolazione. Marco Revelli ha ragione quando definisce il populismo di destra come una «malattia senile» della democrazia liberale, una «rivolta degli inclusi» messi ai margini7. È per questo che i concetti di populismo e di nazional-populismo, a mio avviso, non fanno che creare confusione, invece di chiarire i termini del dibattito. Essi definiscono un movimento politico a partire dal suo stile, che può essere condiviso da correnti di sinistra come di destra, offuscandone così la natura.

Note

Note
1Ian Kershaw, Che cos’è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, trad. it. G. Ferrara degli Uberti, Bollati Boringhieri, 2003.
2Cfr. Jean-Yves Camus e Nicolas Lebourg, Les droites extrêmes en Europe, Le Seuil, 2015.
3 Si vedano i contributi raccolti da Jean-Pierre Rioux (a cura di), Les populismes, Perrin, 2007.
4Il più interessante tentativo di salvare il concetto di populismo come categoria interpretativa attraverso un’accurata argomentazione storiografica è sicuramente quello di Federico Finchelstein, From Fascism to Populism in History, University of California Press, 2017.
5Si vedano, tra i principali lavori sul tema, il classico studio di Franco Venturi, Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972, 3 voll., Michael Kazin, The Populist Persuasion: An American History, Cornell University Press, Ithaca 1998, e Carlos De la Torre, Populist Seduction in Latin America, Ohio University Press, 2010.
6Marco d’Eramo, Populism and the new oligarchy, in «New Left Review», 82, luglio-agosto 2013.
7Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, 2017, p. 4.

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