Il tempo dell’apnea
Una mostra di Davide D'Elia
Roma non è mai stata europea né mediterranea. Non ha un porto come Napoli né è un passaggio come Milano. Roma è stanziale, è solo sua, non conosce altre lingue e la sua bellezza non è mai meticcia. Anche per questo, forse, fende la superficie la personale di Davide D’Elia, presentata in una galleria spaziale, Ex Elettrofonica. Tra i vicoli di Trastevere, vicino all’Accademia dei Lincei, sorprende e disorienta questo spazio bianco, con le sue curve da architettura onirica, dove le opere di D’Elia sembrano rilievi usciti dalla struttura, assomigliano a una porta inimmaginabile di un altrove (la mostra si chiama Rio!).
Non è soltanto la città, è anche il tempo: Rio irrompe nel tessuto alienato delle quarantene. Nello sfiancamento della cronaca ospedaliera, nella mestizia di una certa rassegnazione alla crudeltà degli eventi. Andarci è stata una festa inaspettata, irruzione in un posto dove l’acqua e il tempo portano a quella riflessione intima da girovagare immerso o stordito dal sole. Questi mondi si parlano sull’uscio della galleria, sono i lavori più belli della mostra. Si chiamano Estati e Subacquea.
Il primo è una ricomposizione di tessuti dove la luce ha impresso i suoi segni. Sembra la poetica messa in opera dei passaggi del tempo, di quel suo scorrere come faro sulle esistenze, sempre acceso mentre le vite si alternano. A sentirsi segno sbiadito non si trova la malinconia, ma una nuova significanza. È, d’altronde, questa la lezione dell’immanenza, che non si impara mai troppo e non è mai superflua. Di fronte, una vertigine di fissità ti prende guardando Subacquea, con il suo tentativo vinilico di imbalsamare l’istante.
D’Elia viene da un posto in cui il mare è educazione sentimentale. Gli anni della sua formazione li ha passati nel sole della Costiera amalfitana, in mezzo a un’anomalia di struggente bellezza. La pittura vinilica è immaginario infantile, potente e continuamente germogliativo per tutti quelli che hanno assistito, nella pigrizia di certi pomeriggi d’autunno, alla manutenzione delle barche. Il pennello intriso di un indefinibile colore, un azzurro che sconfina nel verde, un misto di involontaria iridescenza, passato sul legno eroso dal sale. Intere estati (!) cancellate dal passaggio della pittura. E allora in questa mostra è l’uomo che parla a sé stesso. Che si impone di sentire ma che non porta nel viaggio la zavorra della memoria. Che fa delle boe dei missili lanciati da una parete (le installazioni Primo letizia e Secondo letizia) e non santuari all’immobilità. Una mostra sul tempo, mescolato così fittamente nell’opera Heavy, dove confluiscono tutte: tra segno e pittura, tra memoria e futuro, così siamo noi.
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