In principio era la voce

Carmelo Bene, Cathy Barberian, Demetrio Stratos

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Demetrio Stratos esegue i Mesostics di John Cage allo Spazio Fiorucci di via Torino, Milano, 1977 - Foto Roberto Masotti. Lelli e Masotti Archivio. Courtesy 29 ARTS IN PROGRESS gallery © Roberto Masotti.

La voce, operazione di sovvertimento continuo, piano liscio di sperimentazione, è in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma con Il corpo della voce: Carmelo Bene, Cathy Barberian, Demetrio Stratos, a cura di Anna Cestelli Guidi e Francesca Rachele Oppedisano, fino al 30 giugno 2019. Un percorso di più di 120 opere (foto, video, materiali di approfondimento, documenti inediti, corrispondenze) accompagnato aree di ascolto e apparecchiature elettroniche, exhibit interattivi. La voce e il suo corpo – in senso sostantivato e non attributivo- attraversa non solo le intenzioni e il grande lavoro di ricostruzione delle due curatrici – alla maniera stessa della bocca del monologo Not I di Beckett, primo passo verso l’introduzione nelle profondità vocali- ma le vite stesse dei tre protagonisti in scena: il mezzosoprano di origine armena Cathy Barberian e i due vocalisti1 per eccellenza, Carmelo Bene e Demetrio Stratos. Un canto, il loro – quello struggente, della macchina attoriale che si aggira su una scena disarticolata di membra e bende apparentemente priva di senso, e il grido di rivolta dell’aedo greco che rompe ogni possibilità di rappresentazione musicale e artistica tradizionali- la cui potenza eccede gli echi a cui noi prestiamo con forza l’ascolto.

La voce umana, nella forma del risuonatore boccale e polmonare, è uno strumento da suonare e allo stesso modo l’intero corpo viene coinvolto, con modalità differenti, nel desiderio di espressione sonora. Le dinamiche che stanno alla base di questa tendenza del corpo a «fare musica» coincidono con un’esplorazione materiale delle sue concrete possibilità sonore e con una rivalutazione delle sue concavità per l’istituzione di una organologia musicale di matrice corporea. La straordinaria malleabilità del mezzo a disposizione permette di adottarlo come luogo privilegiato di sperimentazione così da incrinare tutti quei registri che avevano archiviato la voce in stilemi tecnici ed espressivi castranti. La sezione scientifica introduttiva del foniatra Franco Fussi ne offre la misura, mentre le tre installazioni interattive di Graziano Tisato del CNR di Padova ci aiutano a comprendere la portata della vocalità di Stratos.

Carmelo Bene, Manfred, 1980 – Foto Cristina Ghergo © Archivio Ghergo.

Il primo passo verso un inedito uso della voce fu quello di considerare le corde vocali come strumenti musicali: è la rivoluzione di Stratos contro l’ipertrofia vocale capitalistica, liberazione della voce dagli automatismi della comunicazione quotidiana, che l’hanno a lungo andare sterilizzata e confinata in un’ insignificante neutralità. Inaugurare una «nuova vocalità» significa allora ridare fecondità allo strumento voce e alla sua musica, riabilitare cioè una vocalità piena, in grado di dare spazio ad una completa espressività corporea. L’effetto sconcertante che provoca la musica vocale di Stratos ad un primo ascolto è forse imputabile proprio a questa nostra estraneità ad una vocalità così energica, dove insieme all’udibile viene musicalmente riattivato anche l’inudibile.

Lo spazio musicale si apre volontariamente ad una massiccia componente rumoristica, condensa suono e rumore in un unico corpus espressivo, dove il flatus vocis continua a svolgere un ruolo decisivo. La voce Stratos agisce nella prospettiva del rumore: questo è vero nel momento in cui il grande rumorismo dell’emissione vocale va nella direzione di un recupero di quelle caratteristiche istintive della voce, delle sue inflessioni grezze e selvagge, della sua natura materica e somatica, tutti elementi soffocati nell’interazione quotidiana o nella voce musicalmente conformata. Quello che risulta è un’espressività che lascia spazio ad ampi agglomerati di suoni spuri ed erotizzanti (grida, gemiti, suoni gutturali), a tutti quei suoni non discreti del corpo sonoro: il pharmakon musicale libera la voce e con essa libera quindi il corpo. Il desiderio di rivitalizzare la vocalità si completa con la conseguente esigenza di intervenire anche sulla pratica dell’ascolto musicale. Stratos ha in mente una condizione di ascolto patico, partecipativo e creativo, quasi rituale, in cui la distanza tra ascoltatore ed esecutore è stata abbattuta in favore di una fluidificazione del soggetto: l’esperienza musicale non ha più un carattere lirico ma si è completamente estraniata dalla logica della rappresentazione e quello che prima veniva indicato come soggetto scorre ora in un’intima comunicazione e correlazione di corpi.

Locandina pubblicitaria Teatro delle Arti, 1992 – Archivio Carmelo Bene, Foto Francesco Buccarelli.

Il ricorso a tecniche complesse quali difonie, triplofonie, quadrifonie dalle armoniche chiare e dense, permette infatti di rimuovere in un solo colpo l’arida monodia vocale e di aprire la via a delle vere e proprie micro-orchestrazioni, in cui si scorgono continue variazioni di timbro ed una finissima polifonia. Il lavoro sull’uso della voce che si incontra in opere come Metrodora, primo disco solista di Stratos del 1976, e in Cantare la voce si configura come un’analisi sperimentale delle qualità espressive dello strumento vocale attraverso la sua scomposizione strutturale ma anche dei suoi portati psicoanalitici ed etnomusicologici. La tecnica diplofonica mongola (che nei lavori di Stratos non si incontra nelle sua forma originaria quanto piuttosto modificata e integrata) propone un tipo di vocalità fisicamente molto impegnativa proprio perché richiede un coinvolgimento globale di tutto l’apparato fonatorio: la tecnica addominale, il movimento della lingua, l’atteggiamento della labbra e dei denti, l’intervento della laringe che strozza le vocali devono essere gestiti in modo tale che, all’emissione della nota fondamentale (bordone) corrisponda la possibilità di lavorare sui suoi armonici e sulle loro combinazioni melodiche.

Il respiro viene spinto alternativamente in una serie di risuonatori naturali e questo coinvolgimento nell’emissione vocale di differenti agenti fonatori (nasale, labiale, palatale, della glottide o della cavità toracica) permette una differenziazione timbrica locale in base al risuonatore impiegato. Tale tecnica di emissione che fa ricorso a molti luoghi di risonanza propone un campionario di possibilità espressive estremamente diverse tra loro e profondamente legate al luogo di formazione della voce stessa. La pratica diplofonica permette alla voce di essere sviscerata nelle sue enormi potenzialità sonore e strutturali: il suono circola nelle parti vuote del corpo seguendo un percorso metamorfico e viene scomposto nelle sue componenti armoniche per poi essere in qualche modo ricomposto sulla struttura fondamentale del bordone. Nota fondamentale e suoni concomitanti sono espressione cangiante della medesima entità sonora: gli armonici trascolorano l’uno nell’altro ma in un unico orizzonte sonoro dove la nota fondamentale viene adombrata dai suoni secondari, producendo un effetto dialettico di contrasto ed integrazione. Il bordone e le sue filiazioni armoniche vengono a formare un corpo sonoro massiccio anche se internamente stratificato e sincretico: la fondamentale infatti, si mantiene sempre su un fondale percettivo che agisce mascherato sotto una potente armonia contingente, garantendo così l’identità della voce a se stessa. Nell’iperbole musicale di Stratos l’intonazione è l’indagine stessa, è l’interrogazione forte della ricchezza articolatoria della voce. La deformazione del materiale sonoro attraverso il respiro corrisponde infatti ad un preciso progetto espressivo: la gestione e l’intervento sul respiro apre ad una dimensione nuova in cui prolifera materiale sonoro nuovo e variamente sperimentabile. La deformazione costituisce allora una riserva di materiale fonico interrogabile.

Ed è proprio con questo materiale che Stratos realizza una profondissima riflessione sulla natura del suono: sul suono come materialità, sul suono come entità che si muove, sulla sua dinamicità e la sua transitività. In definitiva, sul suono come fenomeno. Nel 1977, dopo l’incontro con il foniatra Franco Ferrero, si misero a studiare come effettuare determinati vocalizzi poco usati nella cultura occidentale. Il risultato fu straordinario. Stratos arrivò ed emettere suoni che realizzati attraverso la vibrazione delle corde vocali in diverse posizioni articolatorie fornivano risonanze bitonali. Emulare lo scacciapensieri oppure emettere fischi a bocca aperta senza far vibrare le corde vocali si tramutarono in metodi di analisi sorprendenti. Demetrio arrivò addirittura a raggiungere i 6000 hz (la media è di 1000-1200 hz).La fluidità del reciproco trapassamento dei suoni nell’ambito del metamorfismo materico della voce diplofonica richiama quella che viene definita aquaticità del suono e comporta frequenti passaggi dal suono musicale più o meno discreto al rumore.

Cathy Berberian posa con il vestito di scena di Stripsody, circa 1966 – Collezione Cathy Berberian, Fondazione Paul Sacher, Basilea.

L’esecuzione polifonica di motivi e frammenti di essi, le diplofonie, triplofonie o quadrifonie di armonici, la commistione tra rumore e suoni puri, la sovrapposizione e l’interazione di un bordone e di una voce di superficie realizzano una multifonia molto fitta. Le relazioni tra gli elementi ed il gioco motivico tra i vari strati del flusso vocale (un’arte della variazione per cui l’identico non ritorna mai) confluiscono tutti in una simultaneità densa e destabilizzante che fa esplodere il tempo della voce, spazializzandola e conferendole un volume quasi labirintico. Il risultato non è una scansione temporale lineare o circolare ma un tempo rituale condensato. La componente eminentemente timbrica della pratica vocale di Stratos ci ha permesso di osservare come la localizzazione corporea della voce ne influenzi radicalmente la sua natura: se il gesto vocale, per il suo implicito carattere relazionale, proietta l’emittente verso un «là fuori» di ordine sociale, è il corpo che garantisce l’identità vocale di un «qui dentro», che si costituisce come il rimbalzo dell’azione della voce. Nell’ambito di questa dinamica tra interno ed esterno il momento del rimbalzo ha una potenza formativa molto forte, soprattutto a livello immaginativo: è il fuori che costituisce retrospettivamente il dentro. Come la voce prende vita all’esterno, essa inizia ad esistere anche all’interno. La cavità, spazio di esistenza del dentro, possiede un coefficiente assiologico molto particolare e molto ambiguo: la bocca e tutto l’apparato fonatorio rappresentano, oltre che un’uscita, una discesa in sé. La fenomenologia della cavità che ha inizio dal ventre materno, il primo cavo ad essere avvalorato positivamente, si lega, attraverso queste caratterizzazioni tipicamente protettive, alla simbolica dell’intimità.

Si tratta in ultima istanza della voce che cerca espressione, di un’intenzionalità che si completa secondo fini sonori. E proprio in questo si intravede il senso del gesto vocale (e non soltanto ad un livello artistico ma anche internamente ad un più comune commercio quotidiano): intonare significa modellare la concreta materia vocale, selezionare il tessuto sonoro e fonico per precisi fini comunicativi e per precise configurazioni di senso. Alla base delle sperimentazioni l’Artaud del Pour en finir avec le jugement de Dieu. Se già con il progetto di un corpo senza organi, Artaud aveva cercato di decodificare lo statuto identitario dell’attore – cioè il suo corpo – Carmelo Bene radicalizza tale operazione compiendo una completa sottrazione del corpo a vantaggio della voce. L’attore è corps renspirant, corps-voix. Corpo voce in quanto spazio cavo della sovrabbondanza. Ma se anche nel progetto artaudiano del teatro della crudeltà, il rifiuto delle caratteristiche della rappresentazione tradizionale si è rivelato un’ennesima riproposizione di queste attraverso un richiamo nostalgico, con Bene è la voce il perno della sottrazione completa del testo o, deleuzianamente, rovesciamento dei rapporti di potere della lingua sulla parola2.

La sottrazione del testo permette alla macchina attoriale sia di eliminare il ruolo del regista e del critico, che di dar voce a quell’uso intensivo, asignificante della lingua, invocato da Deleuze. In conformità a tali scopi, al dialogo, retaggio antico dello scambio di stampo euripideo- socratico, Bene sostituisce la phonè della tragedia pre-euripidea, anteriore ad ogni formula identitaria e soprattutto alle mediazioni dell’autore-drammaturgo. La phonè, «linguaggio teatrale nel suo farsi […] partitura che l’esecuzione reinventerà nella sera della sua festa»3. Anche la scrittura di scena non coincide con il testo teatrale tradizionale, bensì è simile ad una traccia dell’opera originaria, è trascrizione momentanea che restituisce corpo solo alla voce e non alle parole. Lo stesso rapporto che Bene intrattiene con Shakespeare o la tragedia classica non mira ad una messa in discussione, ma ad un utilizzo creativo delle loro potenzialità virtuali. Da qui, poi, il tentativo di progressiva spersonalizzazione dell’attore, atto a presagire anche una nuova forma di riconoscimento da parte del pubblico: attraverso l’uso di maschere, coturni e megafoni, l’attore antico porta avanti una sorta di contraffazione, una deformazione iniziale in primo luogo su se stesso e poi verso il pubblico.

Demetrio Stratos, da Le bocche, sequenza di 6 foto, Milano, 1977- Foto Silvia Lelli. Lelli e Masotti Archivio. Courtesy 29 ARTS IN PROGRESS gallery © Silvia Lelli.

«Questa, tutto sommato, prima protesi (statura-viso-voce) è da ascriversi a ben altro; esaudisce il sogno di Baudelaire: disumanizzare il corpo dell’attore perché la sacralità della sua phonè scongiuri l’equivoco liturgico di massa. […] Amplificarsi non per «farsi sentire meglio» fin dagli ultimi posti in gradinata, ma per garantire all’eroismo, alla divinità ch’essi gestivano una portata»4 L’attore deve lasciarsi attraversare da una voce non più disciplinata. Rispetto alla stessa pre-amplificazione in uso nel teatro greco, il playback aumenta ulteriormente l’estraneità della voce rispetto all’immagine-corpo dell’attore, tendente a dissolversi nell’emergenza delle potenzialità della macchina attoriale; ha cioè la precisa funzione di permettere la variazione nella lingua e nella parola, risolvendo lo stato di confusione in cui il soggetto-autore ha sempre versato nell’identificazione con l’Io interpretativo.

La voce acquisisce le potenzialità di variazione trasformandosi in macchina musicale– la rivoluzione del Manfred, che porta a compimento quanto già iniziato nel concerto per Spettacolo-concerto Majakovskij – che agisce in un piano sonoro composto da parti cantate, parlate nonché alterazioni prodotte da componenti elettroniche e strumentali. Le variazioni prodotte da un tale uso della voce vanno a confluire in quel concatenamento sonoro come lingua segreta5, priva di costanti e in grado di mettere in comunicazione le componenti più disparate. La ricerca sulla voce, dunque, non comprende semplicemente la modificazione (il passaggio dall’acuto al grave, l’intonazione e la sua scala di colori) ma è produzione di una differenza di voci come piano di continua variazione, Sprechgesang, contaminazione di uno stile declamatorio a metà tra canto e recitazione. Altra ricerca, altra rivoluzione: è la macchina musicale da guerra, cancellazione dello stesso corpo attoriale a vantaggio del suo colore sonoro, la voce. L’assemblaggio di differenti mezzi espressivi si forma a discapito della totalità, così prossima all’occhio che non si può che udirla.

La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di Anna Cestelli Guidi, Francesca Rachele Oppedisano, Adriana Cavarero, Guido Barbieri, Luca Nobile, Franco Fussi, Gianni-Emilio Simonetti, Graziano Tisato, Angela Ida De Benedictis, Nicola Scaldaferri.

Note

Note
1«L’attuale movimento di ricerca è buono, perché permette incontri, consente che si faccia causa comune fra romanzieri, linguisti, filosofi, «vocalisti […]» ecc. per «vocalisti» intendo tutti coloro che compiono ricerche sul suono e la voce nei diversi ambiti, come il teatro, la canzone, il cinema, l’audiovisivo…» Gilles Deleuze, Conversazione su Mille Piani, in Pourparler 1972- 1990, Quodlibet 2000, pag. 42.
2«La scrittura è nella voce: sovvertimento del rapporto tra langue e parole. La langue non è una partitura scritta, non preesistente al suo dire […]. La parole dell’autore non è quella dell’interpretazione. L’attore non restituisce il testo che ha ricevuto, lo scrive con la voce», A. Scala, La voce zoppa, in C. Bene, Opere, Bompiani 1995, p. 1505.
3C. Bene, Opere, p. 1006
4Carmelo Bene, La voce di Narciso, op. cit. pag. 33.
5«Del resto è forse una caratteristica delle lingue segrete, dialetti, gerghi, lingue professionali, filastrocche, grida di venditori, di valere non tanto per le loro minorazioni lessicali o le loro figure di retorica, quanto per il modo in cui esse operano delle variazioni continue sugli elementi comuni della lingua. Sono lingue cromatiche simili ad una partitura musicale», G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Castelvecchi 1980 p. 138.

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