IRÆ (This is [not] the end)
Una quasi-recensione
Se è vero che l’arte cattura l’urgenza del sentire, possiamo altresì dire che la società contemporanea si manifesta attraverso un insieme di emergenze. Tuttavia, se con il linguaggio dell’arte si aprono infiniti mondi in grado di trasformare l’urgenza in opera viva e creativa, con il linguaggio usato per narrare le società contemporanee attraverso i media si generano solo un insieme di parole bugiarde, spesso del tutto fini a sé stesse e prive di qualsivoglia erotica dell’immaginazione. L’urgenza crea, la narrazione emergenzialista assuefa al punto da trasformarci tutti in un triste insieme di individui «blasé» stanchi e anestetizzati, come scriveva già un lustro fa Georg Simmel. Il rapporto tra arte e società, a sua volta, non è mai codificabile attraverso un canone preciso, magari anche definito a tavolino dalla sociologia dell’arte. Esso fluttua continuamente tra la cattura immanente di un sentire sociale da parte dell’artista che riesce a farsi società solo nel momento in cui l’opera diventa materia fruibile alla stessa e spazio, luogo, linguaggio trascendente attraverso cui la società prende forma nell’opera divenendo qualcosa d’altro rispetto alla mera traducibilità delle sue «realtà sociali». Nell’opera, infatti, qualsivoglia forma di realtà apre ad una sequenza interminabile di interpretazioni e linguaggi, mentre nella narrazione sociologica la dimensione descrittiva, talvolta persino accompagnata da una sequenza fredda di numeri e statistiche che nulla possono dire dell’umano sentire, quantomeno non fino in fondo, chiude irrimediabilmente alla potenza del nutrimento del sentire stesso e all’immaginazione dell’infinito senso del possibile. L’arte, in sintesi, non è mai lo «specchio» della società, ma il suo speculum ovvero qualcosa che si fa subito altro dalla dimensione banale della mera rappresentazione, dal «dover essere», per trasformare il reale stesso in un incontro con il nostro sentire più fecondo perché in grado di coinvolgere psiche, emotività, luce e ombra sino a divenire esperienza unica, singolare, irriproducibile sia per chi crea, che per chi fruisce la creazione.
Attraverso queste lenti di lettura del rapporto tra arte e società ho provato a guardare, leggere, capire e sentire i primi due numeri di un nuovo magazine, meglio sarebbe dire dei primi due book art in italiano e in inglese, generati da IRÆ (This is [not] the end), un nuovo progetto artistico internazionale promosso da Yourban 2030 e diretto da Angelo Cricchi, già noto per aver rotto molti canoni del linguaggio della moda introducendo corpi difformi e non conformi al punto da trasformare gli stessi brand del fashion in opere d’arte che resistono con eleganza a quel che Roland Barthes chiamava il «sistema codificato della moda». Il progetto prova, riuscendoci brillantemente, a produrre un incontro tra arte, editoria, etica e società attraverso il filtro tematico della catastrofe ambientale nella quale viviamo tutti in questo tempo instabile con uno sguardo critico e generativo insieme.
Già il titolo IRÆ, che sicuramente discende da «dies irae» ovvero «il giorno del giudizio» a cui spesso ci rimandano i fatti sociali concernenti il climate change, i salti di specie pandemici, l’antropocene e mille altri disastri prodotti dalla cinica mano speculativa degli uomini orientati solo dai mercati, anziché dalla difesa della vita umana, animale o vegetale che sia, indica una direzione critica che, così come recita il sottotitolo «This is [not] the end» non approda mai del tutto al nichilismo improduttivo della morte o della rassegnata «attesa» della fine del mondo, d’altronde, come ci insegnano Alfredo Jaar e Claire Fontaine, anche le parole possono divenire un’opera d’arte, se usate bene. Ed è proprio nella significazione dell’attesa, spazio vuoto in cui si rigenera il desiderio, pare ancora possibile quell’incontro fecondo tra arte e società che mira a generare dal e nel disastro di questo tempo, qualcosa di vivo, per sentire ancora oltre il visibile, per immaginare il futuro di alcuni spazi urbani e non urbani, facendo del rischio un’avventura, del futuro uno spazio dell’ «ancora» (lo psicoanalista Jacques Lacan chiamava «encore» lo spazio vuoto con cui si crea il desiderio) e il senso del possibile.
Quasi a dirci che tutto sommato siamo ancora circondati da rovine, anziché solo da simulacri morenti e macerie senza storia, il primo numero di questo intenso progetto artistico, si presenta suddiviso in quindici capitoli attraverso cui opere e parole si intrecciano con garbo senza mai inciampare. E dunque le opere di Canevari tra risignificazioni del concetto di memoria, assuefazioni dell’essere e un Cristo amputato delle braccia con una gomma d’auto al posto dell’aureola, vengono accompagnate dalle parole di Cristiana Parrella (nulla in questi book art assomiglia anche solo lontanamente ad una didascalia!); l’arte fotografica di Shinya Masuda che risignifica il concetto di «natura morta» attraverso potenti immagini di food design è accompagnata dalle parole di Patrizia Bollone; le parole poetiche di Tiziana Cera Rosco accompagnano le opere fotografiche di Nicola Bertellotti in bilico tra spazi in dismissione in cui la vegetazione non arresta il suo corso, nonché spazi freddi e gelidi funzionali alla tecnica, alla robotica o alla cementificazione; le opere di Jordi A. Bello Tabbi accompagnate dalle parole di Daniela Billi ci raccontano una natura desertificata, ma al contempo rigenerata da corpi che introducono fioriture e colori e ancora le raffigurazioni di tanti micro organismi viventi di Andreco; le bellissime immagini rarefatte in scale di grigi di Angelo Cricchi raccontate da Wu Ming 1 ci conducono al confine tra Ferrara e il delta del Po dove tutto sembra morente, ma al contempo fortemente segnato dalla «restanza» del Novecento: bonifiche, torri isolate, palafitte, cavi elettrici e spettri del processo di industrializzazione.
Sempre di Cricchi è il capitolo The Ark: qui il femminile evoca spazi di fecondità intrecciati con l’umida madre terra e con quel «divenire animale» delle stesse sino a fondersi per generare un tutt’uno tra antropizzazione, natura, corpi, femminilità e animalità, come in un romanzo di Clarice Lispector. E ancora Claudio Orlandi raccontato da Michele Freppaz si impone per raccontarci il cambiamento climatico; e ancora gli human landscapes di Carola Blondelli, le arsure ramificate di Dario Coletti, gli edifici sventrati e avvolti da reticoli che si fermano dinanzi all’imponenza della natura che si manifesta sotto forma di una montagna magica e incantata, risignificando potentemente il nesso tra natura, cultura e artificio di Giacomo Costa raccontato da Ezio Amato; le architetture avveniristiche e mittle europee che intrecciano spazi acquatici di Birgit Rudsten raccontate da Ketty di Tardo, passando per una sorta di genealogia dei corpi ibridi delle Sirene di Luca Marini, dell’isola di Simona Ghizzoni e delle opere di Marras.
Tuttavia, se in questo primo numero che ha dato il via al progetto artistico, si intravedono territori, spazi vuoti e dismessi, rarefazioni, intrecci tra natura e artificio come ad evocare un caleidoscopio di ombre e fantasmi che incombono sulla vita sino a trasformarci nel profondo, nel secondo numero in uscita proprio in questi giorni, la dimensione «generativa» dell’immaginario catastrofico nel quale viviamo sembra assumere le sembianze di una sorta di rinascita collettiva e singolare attraverso la potenza trasformativa dell’innesto arte/vita. I rituali femminili alle pendici dei Pirenei francesi di Cricchi, la botanica di Anna Atkins, i rametti, le foglie, gli alveari, i cactus luminosi, i semi di Michele Guido, erbari, foreste, metamorfosi e isole e di nuovo con un parterre di artisti selezionati con dovizia, sembrano seguire la pratica del rovescio delle parole bugiarde sui disastri ambientali a cui assistiamo inermi e assuefatti ogni giorno.
L’impotenza della narrazione mainstream, infatti, qui diventa potenza della fotografia e dell’arte oltre ogni retorica mansueta basata sull’economia del greenwashing e delle cosiddette «politiche ambientali» intrise di parole come sostenibilità, resilienza, rigenerazione urbana, transizione ecologica. L’ecosistema, infatti, non può essere considerato come un prodotto di consumo tra gli altri, così come non può essere considerato come qualcosa che prescinde da noi, dalle dinamiche di potere, dalle speculazioni o dalle retoriche discorsive, in sintesi dal nostro modo di stare poeticamente, politicamente, esteticamente ed eticamente al mondo. L’ecosistema è, per certi versi, l’assoluto, ovverosia qualcosa che rimanda irrimediabilmente agli eventi solenni dell’esperienza umana: la nascita, la morte e il progressivo deperimento della vita che si consuma tra un punto e l’altro. E allora diciamolo: l’arte e in particolare questi pregiatissimi book art, da considerare anche come oggetti da collezione, aprono alla resistenza più che alla resilienza, aprono continuamente al possibile e all’imprevisto esattamente come avviene all’interno dei processi rivoluzionari. Nel 2017, quando con Federico Chicchi abbiamo pubblicato «La società della prestazione», abbiamo sostenuto la tesi secondo cui l’arte, assieme alla misura e al desiderio, sarebbero potute divenire tre figure per resistere al tempo presente che tutto consuma e niente coltiva. Attraversare questi book art, infatti, ci accompagna lungo le vie di questo genere di esperienza. Non si consumano, ma si attraversano. Non chiedono di essere visti, ma di essere guardati, soffermandosi. Non evocano freddi scenari del reale, ma aprono all’immaginazione. Non rappresentano un «tutto», ma risignificano in un continuo gioco speculare l’indispensabilità del «non-tutto», ovvero l’indispensabilità di uno spazio simbolico in cui l’irriducibile differenza singolare dell’artista crea e inventa qualcosa che si muove senza garanzie a partire dalla contingenza di uno spazio sempre aperto che interroga, chiede di avere infinite forme. Scrivevamo che «l’arte è una scommessa estetica sulla vita», oggi possiamo dire che quella scommessa deve irrimediabilmente diventare anche una strada etica e politica attraverso cui difendere quella stessa vita. Un’urgenza creativa contro le retoriche pubbliche dell’emergenza che ormai assuefano chiunque.
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Il 22 dicembre, il secondo volume di IRÆ (This is [not] the end) sarà presentato presso Contemporary Cluster (Palazzo Brancaccio, Via Merulana, 248 Roma) alle ore 19.00. IRÆ è disponibile sul circuito Messaggerie, ed è inoltre ordinabile sugli store online. Si rimanda al sito www.iraedition.org
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