Istituire la cooperazione
Dentro e contro la crisi
Pubblichiamo l’introduzione al volume Rispondere alla crisi. Comune, cooperazione sociale e diritto a cura di Michele Spanò e Alessandra Quarta, in libreria in questi giorni per le edizioni ombre corte. I saggi raccolti cercano di tracciare, da prospettive disciplinari diverse e formulando diagnosi non necessariamente convergenti, una prima cartografia critica di tutte quelle “pratiche, invenzioni e istituzioni” che la cooperazione sociale inventa e istituisce ogni giorno dentro e contro la crisi. Con contributi di: Massimo Amato, Adalgiso Amendola, Davide Arcidiacono, Filippo Barbera, Francesco Chiodelli, Alisa Del Re, Ugo Mattei, Antonio Negri, Ivana Pais, Tania Parisi, Giacomo Pisani, Alessandra Quarta, Michele Spanò.
La fronte china a terra
non è dunque rimprovero miopia o umiltà d’accatto,
solo un inchino al prato:
se la pioggia ha cessato
la sua retorica battente
adesso è bello uscire, nonostante
una bisbetica bava di vento.
Da sola si bonifica
la terra vilipesa. Se io pure
procedo tutti i giorni a questi campi
è appena per vedere:
non attendo nessuno
non ho nulla da dire
piuttosto prendo appunti
su questa pasta d’alberi. Ma scrivo
impugnando uno stelo di nipitella e quindi
non troverete segni. Lo capisco.
Mi correggo da solo.Andrea Temporelli, Errata corrige
1. L’ipotesi attorno a cui chiamammo a discutere sociologi, urbanisti, economisti, filosofi, giuristi e politologi, nel novembre 2015, all’Università di Torino, poteva essere a buon diritto considerata di una sconcertante banalità. Si trattava di interrogare tutta la pletora, confusa e arbitrariamente raccolta sotto le etichette equivoche di “condivisione” e “collaborazione”, di fenomeni, più e meno istituzionalizzati, che gli attori sociali (quelli che noi, provocatoriamente e contro molta sociologia, chiamiamo “i privati”) avevano messo e stavano mettendo in campo per soddisfare bisogni e garantire servizi che la crisi economica aveva contribuito a ristrutturare da cima a fondo, quando non semplicemente a far sparire. Né lo Stato, nella sua novecentesca veste provvidenziale e progressiva, e tanto meno il mercato, in quella di efficiente e razionalissimo allocatore, sono apparsi all’altezza della bisogna. E i privati si sono dati da fare: istituzionalizzando la cooperazione sociale. Producendo cioè una gamma, ricca e tutt’altro che omogenea, di esperienze di “mutualizzazione” di bisogni e servizi all’incrocio tra gratuità e profitto, pubblico e privato, locale e globale, materialità delle pratiche e ineffabilità degli algoritmi, informalità e vincoli, civismo e illegalismo, affetti e necessità.
Non era il giudizio di valore a interessarci; ma l’analisi il più possibile “etnografica” del panorama. Se il giornalismo sarebbe bastato a dare conto di questa impressionante intraprendenza delle forme di vita di fronte a quella radicale metamorfosi del produrre e del vivere assieme che con troppa pigrizia continuiamo a chiamare “crisi”, restava – e ancora resta – da capire come queste pratiche trovino i propri mezzi, si forgino le proprie forme, si dotino dei loro propri arrangiamenti normativi. Dunque, non l’eroismo dei singoli – con paradossale obliterazione delle cause – era sotto il fuoco dell’analisi, ma la composizione sociale della crisi; il tenore “politico” di queste risposte e l’effetto che esse avrebbero potuto avere su quello che, faute de mieux, ci intestardiamo a definire “politica”. L’ipotesi è così perfezionata e la domanda che attende risposta è quindi se, nell’indeterminarsi di forme di vita e modi di produrre valore, esistano, e come siano fatte, quelle che abbiamo deciso di chiamare provvisoriamente “istituzioni” della cooperazione.
2. Questo libro offre, attraverso una batteria di saggi che immaginiamo come diversi ma convergenti colpi di sonda, un almanacco destinato a invecchiare presto, data la velocità che accompagna il fenomeno e che si spiega con la fantasia umana di far fronte ai propri bisogni.
Epperò, se si trattasse soltanto di raccogliere, classificare, valutare gli espedienti sviluppati dagli attori sociali negli anni della crisi, si perderebbe la dimensione attiva di queste esperienze che, a ben vedere, non solo reagiscono, per rintuzzarli, agli impulsi del contesto economico e sociale, ma imprimono allo stesso tempo una attiva, dinamica, deliberata curvatura di cambiamento e innovazione che interroga profondamente le scienze sociali. La “crisi” ha obbligato – secondo il modo della violenza – a rifare daccapo il legame sociale; ha azzerato l’ultima memoria sociale del Novecento. Ma essa ha anche, e allo stesso tempo, liberandole dalle fin troppo classiche mediazioni dicotomiche, polarizzate e fatalmente dialettiche (pubblico-privato, Stato-mercato), portato alla luce le radici, un tempo interrate, della singolarità e della cooperazione, della produzione e della riproduzione. Essa ne ha insomma esibito il carattere perfettamente autonomo e sociale. Di nuovo: più ancora che deplorare il disastro che si è prodotto, occorrerà investigare i modi di farvi fronte. Non già per cancellare così la sequenza storica che ha condotto alla situazione presente, ma per trasformare quest’ultima in una chance, in un campo di inaudita sperimentazione. Bruciata la casa e asciugate le lacrime si tratta di costruirne una nuova, usando tutto quello che resta della vecchia, ma innovando i modi per farlo fino al punto di trovarsi ad abitare uno spazio che potrebbe essere difficile continuare a chiamare ancora “casa”.
La collaborazione, da un lato, e la creazione di nuove istituzioni, dall’altro, sono i due principali vettori che occorre percorrere al fine di capire cosa si cela sotto l’etichetta, insieme troppo pigra e troppo ammiccante, della sharing economy: una formula, tutt’altro che adamantina, con la quale ci stiamo abituando a nominare la condivisione di beni e servizi, tanto nel caso in cui questi siano forniti in maniera diretta da singoli che si auto-organizzano, quanto in quello in cui essi siano il prodotto di rapporti privati mediati da un ente che gestisce la piattaforma digitale dove domanda e offerta possono incontrarsi.
Si potrebbe, come pure alcuni hanno cercato di fare, distinguere le pratiche di condivisione “genuine” da quelle che sarebbero inautentiche o spurie perché espressione dell’ennesima trasformazione del capitale, pronto a colonizzare nuovi settori del mondo della vita e creare così nuovi segmenti di mercato. Ciononostante, a fronte di una difficoltà definitoria che chiede interpreti avveduti, praticare l’esercizio della distinzione bizantina in questo orizzonte in perpetuo movimento ci pare, almeno per ora, un’attività poco utile.
In effetti, che il capitale sia pronto ad appropriarsi dei frutti della cooperazione sociale, dismettendo i panni del lupo cattivo per costruire il recinto di comunità di affetto, è uno scenario facilmente decifrabile. Ciò che ci interessa discutere sono le traiettorie singolari e collettive imboccate dagli attori sociali in questo mondo nuovo, a cui hanno accesso grazie alle potenzialità della rete, del digitale e della tecnologia, mediazioni, certo, tutt’altro che neutre e per certi versi decisamente opache, se il calcolo di un algoritmo consente di governare processi economici e scambi sociali.
I privati – e quindi molti di noi – in questo orizzonte si destreggiano più e meno agevolmente, stabiliscono rapporti, inventano nuovi modelli di produzione, di scambio e di consumo; creano e praticano alternative al mercato mettendo a valore beni sotto-utilizzati o non utilizzati, rendendo utili le capacità inespresse delle cose. È per questa ragione che, nel perimetro insieme troppo slabbrato e troppo angusto della sharing economy, i profili più interessanti potranno apparire soltanto scegliendo deliberatamente un partito preso, un punto d’osservazione privilegiato. Si tratta per noi della parte dei prestatori dei servizi e degli utenti: i privati, appunto. Ma, si sa, ogni “partigianeria” comporta l’assunzione di un rischio più o meno calcolato: qui si tratta di accettare di avventurarsi in una terra moralmente, affettivamente e politicamente ambigua.
3. Produzione, scambio e consumo sono gli unici punti di riferimento, veri e propri “invarianti”, in questa “zona grigia” – sintagma evocativo, senz’altro; e tuttavia forse più acconcio e perfino determinato di “sharing economy” –, benché essi siano lungi dal presentare tratti univoci e profili omogenei.
In primo luogo si assiste alla mutazione del soggetto agente. La figura del consumatore si libera della vaga definizione che le riserva il diritto a livello europeo – quello che pure più ha contribuito a imporne la centralità – manifestando la molteplicità che lo anima. Negli scambi cooperativi, infatti, gli attori non soltanto consumano, ma possono tutti produrre qualcosa. La condivisione muta l’essenza della produzione per annettervi il riuso e il riciclo, senza che sia necessario verificare un principio di organizzazione economica: sono questi i caratteri tipici di un soggetto ibrido, il famigerato prosumer. Personaggio proteiforme, che non si identifica però esclusivamente con il micro-imprenditore di una start up. Il prestatore di servizi nell’ambito dell’economia collaborativa condensa tratti di subordinazione e di autonomia nei confronti della piattaforma di collaborazione, dando così corpo a una creatura giuridica e politica mostruosa: autonomia e subordinazione non possono non urtare, in un attrito che rende la flessibilità e l’indipendenza della prima difficilmente compatibile con rivendicazioni sindacali tradizionali (sicurezza sul lavoro; salario; orario di lavoro), e che, d’altro canto non può certo significare l’accettazione dell’ennesima, e retoricamente più subdola, precarizzazione (quest’ultima, finalmente con una certa pertinenza, ribattezzata “uberizzazione”) del lavoro.
Lo scambio concluso dalle parti si emancipa dalla logica conflittuale e asimmetrica che oppone i tradizionali protagonisti del contratto di compravendita per valorizzare l’elemento cooperativo, che trasforma il loro accordo in una soluzione per organizzare gli interessi e si libera così dai vincoli dell’autonomia contrattuale concessa dal legislatore. Lo scambio cooperativo lancia una sfida alla concorrenza, perché cambia i presupposti stessi della negoziabilità: non soltanto perché le parti sono disponibili a organizzare i rispettivi interessi, ma anche perché esse possono persino re-inventarsi il medio stesso della negoziazione, vale a dire la moneta. Lo sviluppo di circuiti alternativi di pagamento rappresenta un’altra delle facce dell’auto-organizzazione, in cui la moneta è pensata per circolare rapidamente, per essere spesa e non accumulata. Il suo passaggio di mano in mano, la destina a sparire, a fungere da mediatore evanescente di relazioni di scambio che, riducendo progressivamente il profitto, ma non già il guadagno, tolgono acqua ai pozzi della speculazione.
Il consumo, infine, diventa il territorio in cui celebrare forme di riconoscimento reciproco e inventare nuove strategie di azioni collettive. La collaborazione tra sconosciuti facilita il consumo e, in molti casi, migliora la qualità della vita di chi vi si impegna. Il consumo, in altre parole, si presta a essere letto a meno di quel suffisso (consum-ismo) con cui è stato troppo spesso demonizzato e a rappresentare un campo sperimentale destinato alla proliferazione di forme di vita in tutto e per tutto politiche. In questo ambito la novità è consistente: se infatti per molto tempo l’anima politica del consumo è stata rappresentata soltanto dalla sua versione etica o critica, il consumo collaborativo, nel solco ma anche in discontinuità con l’attivismo tipico delle sue versioni precedenti, rende facilmente riconoscibile la comunità all’interno della quale collocare ed esercitare le proprie scelte di acquisto. Il consumo diventa fabbrica di legame sociale, sperimentazione di affiliazioni temporanee guidate da necessità, gusto, possibilità e, soprattutto, contingenza; sfera pubblica effimera che intreccia affetti e strategie sotto il segno del “presentismo” e di aleatorietà e mutevolezza. Ciononostante, e anzi a maggior ragione, la scelta del consumo collaborativo e dell’auto-organizzazione segnala un’opzione politica, diretta a migliorare la propria condizione e quella di chi si trova in una situazione simile, sia questa la ricerca di un alloggio per una vacanza a basso prezzo o di un passaggio in auto per percorrere una qualunque distanza.
Il trait d’union tra produzione, scambio e consumo ha molto a che fare con la consapevolezza che la redistribuzione della ricchezza, sempre attuale, sempre necessaria, non potrà essere l’opera di uno Stato – che qui suona sinonimo di “pubblico” – in perenne affanno. È proprio ciò che i nuovi modelli collaborativi di produzione e consumo realizzano: aumentare il ventaglio delle scelte, introducendo un numero di soluzioni altamente competitive rispetto a quelle esistenti, e non soltanto perché libere dai costi della burocrazia e degli oneri amministrativi. Si apre così un nuovo cono d’ombra, in cui gli spazi delle nuove forme del mercato e quelli del neo-mutualismo si confondono. Ma si tratta di un difetto di serie.
Le prime vanno infatti considerate nulla di più – ma anche, e forse soprattutto, nulla di meno – che soluzioni alternative nate all’interno del mercato, non vie di fuga dalla realtà. Esemplare, in questo senso, il co-housing: sospeso tra socialità, lotta alla rendita e incapacità di risolvere i problemi di chi non può permettersi l’acquisto di un’abitazione. L’alternativa che decide di sfidare le regole del mercato e insieme di sfruttarne le logiche è imbevuta di contraddizioni e corre inevitabilmente dei rischi, ma resta probabilmente una delle poche soluzioni in cui la pratica politica si fa consigliare dalla realtà i modi per trasformarla, invece, spinozianamente, di intestardirsi a scrivere satire su come si vorrebbe che fosse a dispetto di come è.
Allo stesso modo, il mutualismo colonizza la ricerca di una soluzione collettiva ai problemi, riannoda i legami sociali e offre una via di fuga dalla solitudine che crisi, precarietà e debolezza dei corpi intermedi contribuiscono a determinare. In questo senso, gli spazi di co-working liberano i freelance dalle mura domestiche (e così dalla loro quota di nevrosi e frustrazione), consegnando un luogo di condivisione in cui la comune condizione può alimentare processi di soggettivazione e una ritrovata vicinanza dei corpi può contribuire a costruire un piano di rivendicazioni.
4. La fin troppo evidente politicità di questo catalogo di forme dell’auto-organizzazione non si lascia accomodare negli schemi tradizionali: il cocciuto rifiuto di riferimenti ideologici, la ricerca di nuove forme di rappresentanza (non una critica della rappresentanza, si badi; ma la condizione dell’irrappresentabilità – pur variamente giustificata – assunta come orizzonte intrascendibile) e la semplice e ordinaria ricerca di soluzioni concrete si connotano per il ricorso a una sorta di principio di effettività e per un pragmatismo che scolora facilmente in cinismo.
La differenza specifica con i servizi auto-organizzati sperimentati negli anni Settanta, è che questo nuovo modello di produzione, scambio e consumo non esprime il desiderio di un riconoscimento da parte del pubblico. L’impossibilità di applicare le etichette tradizionali, tuttavia, non autorizza a derubricare queste esperienze a sintomi di un ritorno o ritiro nel privato. Si tratta piuttosto di un paradossale “pubblicizzarsi” di tutto quanto è privato. E ciò accade, come si è detto, certamente in forza di fenomeni “strutturali”, ma insieme, e soprattutto, in virtù delle iniziative inanticipabili degli attori sociali. Sono cioè i privati stessi il motore di questa sovversione – morale, giuridica e politica – di ciò che, soltanto e finché è esistito il “pubblico”, abbiamo potuto chiamare – riconoscendovene l’antipode – il “privato”. Su questo terreno sociale non ci sono avanguardie e neppure interpreti ufficiali, ma soltanto scritture di nuovi codici di condotta e modalità di azione che meriterebbero di essere approfonditi.
L’impegno e la condivisione sono strettamente legati al raggiungimento di un risultato molto concreto, capace di incidere in maniera efficace, sensibile e diretta sulla propria vita. Non deve stupire, pertanto, il riferimento al neo-municipalismo come campo politico in cui realizzare obiettivi simili a partire dall’auto-organizzazione che, a questo livello, si concretizza nella costituzione di liste o coalizioni civiche, pronte a sostenere sindaci ribelli che rappresentino esperienze di autogoverno e inventino soluzioni locali per combattere l’austerity e la gabbia del patto di stabilità.
Le ambiguità sono le stesse di esperienze che si muovono aldiquà o aldilà della mediazione politica classica. Se il neo-municipalismo rischia sempre, e spesso inavvertitamente, di inocularsi il veleno del “caudillismo” localistico, allora il “sindacalismo sociale”, che pure sovverte il rapporto pubblico-privato proprio sulla soglia della mediazione e nelle forme dell’organizzazione, sperimenta la vertigine dell’immediatezza. In ogni caso: organizzare il quanto di “politico” insiste nel “sociale” non può prescindere da questo intreccio di necessità di tutela e desiderio di autonomia, che, come descrive i bisogni, così ordina i servizi; gli uni e gli altri interrompono ogni volta il giudizio morale che pende sulle condotte e obbligano a ripensare una mediazione all’altezza delle forme di vita che dovranno servirsene.
5. In questo scenario così complicato e spesso contraddittorio, il diritto resta, apparentemente, ancora a guardare.
Il dibattito sulla sharing economy ruota perlopiù attorno al tema della regolazione e alla necessità di un intervento del legislatore per garantire una leale concorrenza tra gli operatori dei diversi settori sconvolti dall’emersione di queste nuove forme di produzione e fornitura. A questa posizione si oppongono quanti ritengono che la regolazione costituirebbe un ostacolo allo sviluppo del segmento e che la novità del settore non consente di prevederne gli sviluppi, con il rischio che un intervento legislativo risulti immediatamente caduco.
Certamente è necessario osservare e capire il fenomeno, gli attori coinvolti e i luoghi di concentrazione del potere, per evitare di elaborare proposte di legge che si presentino con armi spuntate dinanzi alle corporations che stanno creando dei veri e propri monopoli in alcuni settori, almeno in Italia. Se una regolazione ci deve essere, inoltre, essa riguarda l’economia delle app, ossia quei processi di fornitura di beni e servizi che utilizzano la rete per creare il mercato.
Come si diceva in apertura, il fenomeno più interessante resta però l’interazione tra i privati e le dinamiche di auto-organizzazione che si traducono nella creazione di regole prodotte dal basso, specifiche per quel particolare rapporto e quindi destinate a essere rimesse in discussione con l’accordo successivo. Questo vuol dire non ridurre l’interezza del fenomeno alla misura di un “segmento” di mercato da regolare. Prendere sul serio la cooperazione sociale, vuol dire anche industriarsi a “istituirla”.
Queste dinamiche indicano all’interprete che le descrizioni dogmatiche degli istituti civilistici sono insufficienti a inquadrare i fenomeni e che è quindi necessario attribuire loro dei nuovi significati attraverso una lettura contro-egemonica.
Se i beni comuni hanno alimentato una nuova discussione sull’istituto della proprietà, consentendo di immaginare nuove traiettorie per sancirne la legittimità, all’insegna dell’inclusione e dell’accesso, la vitalità dell’autonomia privata segnala la possibilità di avviare una nuova riflessione sull’istituto del contratto e persino sul negozio, superato dalla civilistica degli anni Settanta alla ricerca di percorsi teorici che avessero un maggiore contatto con la realtà e meno con l’astrazione delle categorie.
Adesso è tempo di risalire la corrente e di capire se i modelli esistenti e le opportunità offerte dall’atipicità siano idonee a descrivere giuridicamente gli accordi cooperativi che i privati concludono, organizzando i propri interessi, collaborando per condividere risorse, scambiando servizi. In questo scenario, gli elementi essenziali del contratto restano gli unici indicatori della validità degli accordi? La causa del contratto, nelle sue varianti soggettive e oggettive, sempre pronte a confondersi, traduce ancora la funzione economica e sociale dell’accordo? E questa espressione può ancora fare a meno delle sensibilità personali – politiche, ecologiche, estetiche, morali – quando queste costituiscono le premesse di scelte di consumo che, altrimenti, non sarebbero esercitate?
Si tratta di un breve “menù” di interrogativi che disegnano i confini di scenari giuridici complessi e ambiziosi e che pertanto richiedono allo stesso tempo un esercizio archeologico e uno sforzo fondativo, all’insegna di quello spostamento di paradigmi che riteniamo stia interessando gli istituti di un diritto civile che, sempre più, si qualifica come diritto dei privati.
6. Abbiamo immaginato questo saggio introduttivo – e il libro tutto intero – come un’ideale prosecuzione di Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni (Mimesis, Milano-Udine 2016). Nell’Introduzione a quel volume mettevamo in evidenza l’emersione di un diritto dei privati, di regole e istituzioni create a partire dai bisogni e dalle necessità degli attori sociali. Le istituzioni del comune ci erano apparse il prodotto, molto sofisticato, di legami di solidarietà e comunità d’affetto capaci di produrre regole giuridiche e legami politici.
I protagonisti di questi esperimenti istituzionali condividono una prospettiva di vita comune che, generalmente, si traduce, da una parte, nell’invenzione di soluzioni alternative al mercato, produttive di segmenti di economia parallela, di prossimità e fortemente relazionali e, dall’altra, nell’organizzazione di modelli di gestione di beni comuni urbani, che richiedono il dialogo con le amministrazioni locali per costruire nuove forme di welfare. È questa la “scena” che ospita il riemergere dei corpi e delle pratiche politiche che mettono al proprio centro la materialità della vita, i bisogni e le necessità. Alisa Del Re analizza queste dinamiche, interrogandosi sul significato dell’accesso ai diritti, in una fase storica, economica e politica in cui il legame di quest’ultimo con il lavoro è spezzato e interrotto dalla precarietà e dal lavoro gratuito.
Non si tratta soltanto di sfuggire all’individualizzazione e all’isolamento che il capitale, in tutte le sue forme, ha alimentato, ma anche di inventare nuove strategie di interpretazione del conflitto tra capitale e lavoro che siano all’altezza delle sfida lanciata con la fine del sistema fordista dall’evoluzione tecnologica e da una nuova e non meno violenta forma di accumulazione. Antonio Negri conduce il lettore al cuore delle dinamiche della cooperazione sociale e chiarisce la necessità politica di intendere il comune, fuori di ogni metafora, come un vero e proprio modo di produzione. Soltanto così, sembra suggerire, è dato concepire nuove strategie per la riappropriazione dei mezzi di produzione e dei saperi.
Nella medesima cornice analitica va collocato il saggio di Giacomo Pisani: un’analisi del ruolo delle piattaforme di intermediazione nei rapporti della sharing economy, che mette in evidenza in che modo il disegno proprietario che le sostiene detti l’agenda di un processo di liberazione delle pratiche collaborative dai meccanismi di sussunzione capitalista. Le piattaforme, infatti, sono allo stesso tempo moderni mezzi di produzione e strumenti per commodificare affetti e relazioni che, invece, al mercato possono sfuggire. Se questo è vero, secondo l’autore, occorre che il discorso sui beni comuni trovi un punto di raccordo con i temi della cooperazione sociale, investendo il campo dell’appartenenza delle stesse piattaforme e lavorando sulla distribuzione degli asset digitali, al fine di consolidare l’auto-imprenditorialità collaborativa che, negli spazi dei coworking, inventa, mentre le pratica, nuove forme del lavoro.
Su questo stesso argomento si soffermano anche Filippo Barbera e Tania Parisi, affrontando uno dei temi il più delle volte evocati insieme alla sharing economy. Si tratta dell’“innovazione sociale”, una delle categorie più effervescenti e ambigue tra quelle forgiate dalla sociologia contemporanea. Gli autori si concentrano sui protagonisti del fenomeno: gli innovatori sociali, soggetti che investono in attività e pratiche anche molto diverse (dalla gestione di beni comuni alla rigenerazione urbana; dallo sviluppo di reti di cittadinanza attiva all’organizzazione imprenditoriale in forme non convenzionali), condividendo alcuni elementi essenziali. Si tratta, infatti, di giovani con meno di trent’anni, che abitano in grandi città e che sono politicamente orientati “più a sinistra” rispetto alla media della popolazione italiana. Si potrebbe aggiungere che questi dati sembrerebbero dare ragione all’intuizione politica di chi profila trasformazioni economiche e sociali proprio a partire dalle pratiche dell’innovazione sociale, se non fosse che proprio lo studio di queste ultime consente di smascherare l’apparato retorico di quei discorsi, incapaci di cogliere un aspetto essenziale della questione. Infatti, come pure sottolineano Barbera e Parisi, l’innovazione sociale può essere ben compresa soltanto se si accetta di avere a che fare con un prodotto delle rovine del capitalismo, che – pertanto – non si candida in alcun modo ad avanguardia di nuovi modelli di produzione, ma anzi impara da quelle comunità che ricostruiscono tessuto sociale a partire dall’organizzazione di attività culturali, associative e ricreative.
L’intento di fare chiarezza nel marasma teorico che spesso accompagna l’emersione di alcuni fenomeni è condiviso anche da Davide Arcidiacono, Ivana Pais e Francesco Chiodelli. I primi, nel loro contributo, offrono le coordinate fondamentali per affrontare i numerosi tentativi definitori e tassonomici in materia di sharing economy. Gli autori, che preferiscono parlare di “economia collaborativa”, misurano l’impatto dell’economia delle piattaforme nel nostro paese, prestando una particolare attenzione allo sviluppo del crowdfunding. Chiodelli, invece, esamina il co-housing, evidenziando come questo nuovo modello descriva non tanto una soluzione nata in risposta alla diffusa emergenza abitativa, ma rappresenti piuttosto una forma di comunità residenziale di tipo collaborativo che risponde a bisogni altri, ancora una volta ascrivibili all’autoproduzione di forme di welfare perfettamente corrispondenti alle occorrenze.
Se tutti i fenomeni descritti nei saggi sono in parte un prodotto della crisi, tuttavia, come si è detto in apertura, essi hanno ormai assunto un profilo autonomo rispetto all’evento da cui sono stati generati. Per questa ragione, non è facile formulare una previsione circa la loro fisionomia futura e circa l’impatto che l’uscita dalla crisi potrebbe produrre sulla loro attuale, e tutt’altro che assestata, morfologia.
Proprio a questa ambiguità è dedicato il saggio di Giso Amendola. L’emergere della cooperazione e i nuovi processi di valorizzazione costituiscono fenomeni caratterizzati dall’autonomia e dalla creatività degli attori sociali, ma allo stesso tempo – inseriti come sono nel rapporto sociale di capitale – essi restano esposti alla verosimile minaccia della sussunzione. Pratiche come quella del sindacalismo sociale – che ristruttura le esperienze delle soggettività al lavoro – forniscono un caso esemplare di un modello di organizzazione politica all’altezza del tramonto del welfare fordista.
Massimo Amato, nel contributo in cui esplora il significato della moneta e la sua relazione con i processi di mercificazione, invita il lettore a interrogarsi sul possibile significato di un ritorno alla normalità alla fine di una crisi che ha carattere strutturale. L’indagine sulla moneta e quindi sul medio degli scambi, il suo rapporto con il lavoro, la materialità delle cose e il tempo, chiarisce un tema che, tra le righe, caratterizza tutti i contributi raccolti in questo libro: lo scambio può essere sempre ricondotto alla sua socialità originaria e, in questa cornice interpretativa, anche la moneta può essere semplicemente intesa come lo strumento che dà corpo alla possibilità di condividere una misura comune che, in quanto tale, non può essere concepita come una merce.
Lo scambio, nel mondo del diritto, incontra inevitabilmente il tema del contratto. I contributi giuridici che chiudono il volume si confrontano con la “zona grigia” della cooperazione sociale e provano a restituirne un’immagine giuridica che, da un parte, non sia appiattita sullo schema della compravendita e, dall’altra, non resti intrappolata in sistemazioni teoriche che rischiano di non cogliere la portata innovativa dell’autonomia dei privati. È questa la direzione lungo cui si muove il saggio di Alessandra Quarta: una disamina delle pratiche collaborative eseguite a titolo gratuito, che mette in evidenza come l’istituto delle prestazioni di cortesia così come quello del contratto atipico a titolo gratuito non consentano di accendere i riflettori su una importante trasformazione che sta investendo la teoria dei contratti: l’attribuzione di nuovi significati all’accordo, per organizzare interessi, convergenti o contrapposti, su beni condivisi e servizi autoprodotti.
Su questa stessa linea ricostruttiva, ma con l’ambizione di restituire il contesto speculativo in cui è maturato il superamento teorico del negozio a favore del contratto, si colloca il contributo di Michele Spanò, che a partire da un’analisi genealogica della venerabile categoria dell’autonomia privata, lumeggia i tratti di un diritto privato capace di sfruttare, recuperandola contro la sua stessa storia, la propria strutturale dimensione cooperativa. Il “diritto dei privati” è perciò l’esito di una lettura che, incrociando politica e diritto, offre del diritto civile un’interpretazione schiettamente istituzionalista e istituente.
A chiudere la raccolta, a mo’ di postfazione, un saggio di Ugo Mattei che abbozza i tratti generali secondo cui andrebbero lette e collocate le trasformazioni giuridiche e le nuove istituzioni prodotte dai privati. Si tratta del diritto privato della crisi: un’area su cui – a dieci anni dall’esplosione del fenomeno – occorrerebbe soffermarsi, per capire cosa abbia significato la caduta del muro – teorico e politico – che opponeva pubblico e privato, l’emersione dei beni comuni e della cooperazione sociale e, contemporaneamente, quali siano i presidi da difendere di fronte ai nuovi dispositivi – tecnologici e regolatori – con cui il mercato sta ridefinendo il campo del conflitto.
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Al convegno che è all’origine di questo volume – Rispondere alla crisi. Pratiche, invenzioni, istituzioni (Università di Torino, 5-6 novembre 2015) – hanno partecipato molte e molti, i cui contributi, per motivi diversi, non appaiono qui. Desideriamo ringraziarli. In primo luogo Alberto Fierro, con cui abbiamo pensato e organizzato “cooperativamente” il convegno. Le attrici e gli attori che quotidianamente sperimentano quelle pratiche che il libro cerca di raccontare: Matteo Dispenza, Giulia Frangione, Davide Leone, Gabriele Littera, Chiara Mossetti, Chiara Usseglio. Le e i partecipanti che hanno contribuito al dibattito: Anna Maria Cristina Bianchetti, Mauro Magatti, Christian Marazzi, Cristina Morini, Chiara Saraceno.
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