La vera posta in gioco

Sul Referendum costituzionale e le sue alternative

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Carmelo Romeo, La revoca delle anagrafie (1971).

Su cosa si vota il 4 dicembre? Qual è la vera posta in gioco. Difficile immaginare che i chiamati alle urne siano in grado di raccapezzarsi, bombardati da una ridda di dibattiti farraginosi e opinabili, frastornati da una campagna elettorale studiata per confondere. Si vota un nuovo testo costituzionale o si è chiamati a decidere sulla sopravvivenza del governo, sulla sorte del sistema bancario nazionale, sulla salvezza delle finanze pubbliche, sulla democrazia in pericolo, sull’opportunità di salvare il Paese dal diluvio o almeno da una seconda peste bruna?

Si vota prima di tutto su una riforma della Costituzione che nelle intenzioni comportava solo una ulteriore e secca diminuzione del ruolo del Parlamento rispetto a quello del governo e dei poteri locali rispetto allo Stato centrale, ma che è stata poi declinata con impareggiabile cialtroneria. Se la riforma fosse approvata dal popolo votante l’indirizzo di fondo resterebbe immutato, senza però essere compensato da quella maggiore efficienza in nome della quale non pochi sono dispostissimi a sacrificare della sostanza della democrazia, accontentandosi delle sue nude forme.

Ciò non implica però che la riforma di Renzi equivalga alla fine della democrazia parlamentare, sia perché tra Pina Picierno o Simona Bonafè e «los moros» di Francisco Franco c’è una certa differenza, sia perché detta democrazia parlamentare è già per molti versi un compianto ricordo. Il governo in carica si è abbandonato a un’orgia di decretazioni d’urgenza coniugate col voto di fiducia, pratica che però non è stata certo inaugurata dal ragazzo di Rignano: si è trovato il lavoro già quasi completato dai predecessori, nessuno escluso.

In questo caso, come in quello del precariato, Renzi si è limitato a procedere come il medico che per curare il morbo affronta il problema alla radice accoppando il malato. Ha risolto la piaga di un lavoro precario spogliato di diritti rendendolo col Jobs Act norma universale: basta con le diseguaglianze tra lavoratore e lavoratore. Con la riforma sommata alla legge elettorale si proponeva di abbattere l’incresciosa messe di decreti e fiducia rendendo ogni votazione tanto blindata da non aver più bisogno di ricorrere alla decretazione d’urgenza o al voto di fiducia. Il problema, pertanto, non è tanto quello di impedire che al Parlamento venga sottratta centralità: si tratterebbe casomai di restituirla. Ma frenare un arrembaggio, sia pure su una nave già quasi del tutto conquistata, vuol pur sempre dire una possibilità di controffensiva che la vittoria del Sì invece metterebbe a lungo fuori gioco.

Non si vota invece sul governo. Quella è una delle tante bufale che hanno goduto di circolazione tanto ampia quanto indebita. A spostare l’asse dello scontro è stato Renzi, convinto dalla lettura dei media di corte che il popolo sovrano aspettasse solo l’occasione di incoronarlo, e poi spintosi troppo avanti per ingranare una efficace retromarcia. Quando le urne saranno chiuse, se avrà vinto il No,tutti si fingeranno stupiti nello scoprire che invece una maggioranza c’è ancora, neppure scalfita dal temuto tsunami e del tutto in grado di sostenere un nuovo governo. Se Renzi sceglierà di non presiederlo sarà solo perché convinto di aver così migliori chances di rivincita alle prossime elezioni politiche.

Tuttavia la percezione diffusa che in ballo ci sia qualcosa di più che non una pur orribile riforma costituzionale o la necessità di evitare il trionfo di un pur pessimo capo del governo è giustificata. Per coglierne il senso la vicenda referendaria va collocata nella dimensione adeguata: nel contesto del parallelo e interrelato abbattimento di ogni diritto dei lavoratori da un lato e della democrazia sostanziale dall’altro in corso da oltre un ventennio.

La trasformazione dei cittadini in sudditi, essenziale per realizzare quella dei lavoratori in schiavi de facto, non passa per la cancellazione dittatoriale della democrazia, ma per la sua riduzione a simulacro. Ai cittadini è concesso un margine di partecipazione al momento di scegliere i loro rappresentanti. Il ruolo dei quali, però, è sempre più di pura apparenza, sia perché una quota essenziale delle decisioni significative vengono prese a livello sovranazionale e da istituzioni che di democratico non hanno nulla, sia perché il ruolo del potere esecutivo diventa sempre più invadente a spese di quello legislativo, come appunto il caso del referendum italiano conferma.

Anche così le elezioni comportano un margine di rischio al quale, per due decenni, si è ovviato grazie alla presenza in campo di opzioni politiche, che pur non essendo identiche, si muovevano però all’interno del medesimo perimetro. Al di fuori del quale doveva esserci solo un’area irrazionale e anti-sistema, considerata per definizione «invotabile» e dunque non temibile dal momento che si riteneva esclusa la possibilità che gli elettori scegliessero il «salto nel buio».

La miopia del calcolo stava nel fatto che se lasci ai cittadini una sola arma è quasi inevitabile che quell’arma prima o poi venga usata. È quello che è successo negli ultimi mesi nel mondo occidentale e succederà ancora. Quanto l’imprevisto abbia sconvolto le élites lo dimostrano le chiacchiere non tanto in libertà diluviate nella campagna referendaria italiana. Scalfari, con l’impudicizia della senescenza, è stato l’unico a rendere pubblicamente omaggio all’oligarchia ma le frequenti battute sull’inopportunità di proseguire oltre col suffragio universale denotano quanto diffusa sia quella visione del mondo. Soprattutto all’interno dell’oligarchia stessa.

È evidente che una dinamica del genere è densa di pericoli, essendo un campo nel quale prosperano anche i fascismi moderni, soprattutto quando dall’altra parte del campo ci sono solo eserciti di amministratori e politici preoccupati soprattutto dalla difesa del proprio posto di lavoro. Ma la scelta è tra usare la sola arma oggi a disposizione per incrinare il modello di società neoschiavista e a-democratica in fase di avanzata edificazione, o permettere che quell’edificio, carcerario in tutto tranne che nelle forme, diventi ancora più solido.

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