Festa e metafisica dell’asino

Referendum: il NO costituente che dice SI alla vita

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Claire Fontaine, They hate us for our Freedom, 2013

Dire sì, dire sì alla vita è il messaggio dello Zarathustra di Nietzsche.
Ma non ogni sì. Non a ogni vita.
Non il sì del servo paziente di cuore, non l’ossequio al mondo così com’è, non chi non dice mai no. Il raglio dell’asino – I-a – suona in tedesco come (Ja). Ma Zarathustra detesta quel sì enfatico di adattamento al mondo. L’umile farsi carico del lavoro e del dolore non fa per lui.
L’asino che dice sì al mondo è il servo, il portatore del peso del mondo davanti al trascendente, non chi libera il sì dell’immanenza.

L’innocenza ignara e sottomessa non va oltre una carnevalata o una canzone da organetto: «Certo, se non diverrete come i fanciullini non entrerete in quel regno dei Cieli.
Ma noi non vogliamo neppure entrare nel regno dei Cieli. Siamo diventati uomini, perciò noi vogliamo il regno della terra».

Asinina è l’immagine renziana dell’Italia-che-dice-sì, prima alle riforme poi al referendum costituzionale che le coronerà a novembre con ghirlande di crisantemi

Asinina è l’immagine renziana dell’Italia-che-dice-sì, prima alle riforme poi al referendum costituzionale che le coronerà a novembre con ghirlande di crisantemi. Che i fautori del NO siano dipinti come odiatori dell’Italia, come i fuoriusciti antinazionali del bel tempo che fu, professoroni, gufi, profeti di sventura, archeologi della Carta, ecc. fa parte del folklore polemico improvvisato di un apparato politico-mediatico scadente. Ci interessa di più quella logica stravolta del SÌ.

L’incondizionata accettazione del mondo com’è viene qualificata come realismo attivista in opposizione alla pigrizia utopica, volontà di cambiamento effettivo contro sottigliezze astratte e programma di riforme alternative sia alla conservazione del passato sia a irrealizzabili sogni di palingenesi. Non solo cambiamento (senza specificare quale) ma anche velocità del cambiamento, come se in assenza di contenuto farlo in fretta fosse un vantaggio. Mai, soprattutto, individuare a favore di chi vada il cambiamento così vagamente evocato e ancor più la sua sbrigatività. Con l’avvertenza complementare che, quanto più indefinita e retorica è la proposta, tanto maggiore è l’accanimento con cui ogni critica o presa di distanza è respinta e dileggiata.

Se, bene o male, di alcune riforme si percepiva l’urgenza e la direzione (cioè a favore di quali settori e quali altri calpestando), per esempio il Jobs Act, la cui natura malefica è stata subito colta dai diretti interessati ed è sfuggita soltanto alla complice cecità della sinistra Pd e della Cgil, invece la natura e l’urgenza di una riforma complessiva della Costituzione appare meno chiara e non è stata neppure oggetto di pressanti richieste europee. Insistere su di essa è una mossa tutta politica e ad alto coefficiente ideologico. Bisognava foggiare un asino metafisico e una metafisica asinina per lanciarla, inventandosi che essa è il contenitore di ogni riforma possibile, il segno tangibile della volontà di cambiare. Un tormentone all’altezza degli slogan più recenti sugli 80 € e sul 40% alle elezioni europee. Non però una mancia o un espediente, ma una promessa inverificabile nei tempi brevi. Il significante vuoto ha lunghe orecchie grigie.

Intorno a un progetto pasticciato e prolisso, la cui unica ratio è di eliminare i contrappesi e i ritardi all’azione di un esecutivo contestualmente rafforzato dalla legge elettorale iper-maggioritaria, si sono succeduti gli esorcismi per convincere gli elettori del referendum del suo carattere epocale e plebiscitario. Offensiva, beninteso, tutta rivolta a sinistra, perché a destra la riforma piace già di suo, al di là delle strumentali dichiarazioni di opposizione, in quanto struttura pienamente post-democratica e notabiliare. Dunque, evocazione di defunti eccellenti (attendiamo con ansia Gramsci) chiamati a testimoniare le radici antiche del progetto, sfacciate falsificazioni storiche, arruolamento di seconde file di costituzionalisti, economisti e galoppini culturali per rafforzare il campo del SÌ, martellante campagna mediatica e sfrenato attivismo dei ministri, staccati per mesi dai problemi reali e dalle stesse poco auguranti elezioni comunali in alcune città-chiave. Non senza vivaci proteste della minoranza Pd, che purtroppo quelle riforme le aveva già votate in prima e pure in seconda battuta.

Il problema non è di dire NO, teniamoci quella che abbiamo (la Costituzione, la vita in degrado a essa soggiacente), ma diciamo SÌ a una vita in trasformazione e avviamo un processo costituente che ne registri le direzioni di cambiamento 

Non entriamo, per ora, nell’articolato della riforma costituzionale, che richiede forse un intervento specifico di specialisti e che, in ogni caso, al momento è agitata con straordinario e sospetto anticipo solo per la sua componente spettacolare, di manifesto del «nuovo», del change. Segnaliamo però che, in perfetta simmetria, le posizioni di difesa rigida della Costituzione vigente non solo definiscono uno schieramento debole, ma rinforzano la campagna demagogica del cambiamento a ogni costo, della ragliante Italia-che-dice-sì.

Il problema, infatti, non è di dire NO, teniamoci quella che abbiamo (la Costituzione, la vita in degrado a essa soggiacente), ma diciamo SÌ a una vita in trasformazione e avviamo un processo costituente che ne registri le direzioni di cambiamento. Non che sia facile, a questo livello di movimenti, ma l’unico senso del rifiuto di questa riforma metà inconcludente e metà autoritaria è di tenere aperta la strada per un’altra riscrittura, che faccia perno sull’espansione dei diritti e della cittadinanza, sui beni comuni e sul municipalismo, su nuove forme di reddito e welfare.

Naturalmente so bene che esistono posizioni assai apprezzabili di costituzionalismo evolutivo, che intendono forzare la lettera della Carta vigente per accogliere istanze allora non presenti o troppo implicite, tuttavia credo che l’accento debba cadere ormai una riformulazione, i cui tempi di formalizzazione dipendono evidentemente dalla congiuntura politica. La post-democrazia ha messo oggettivamente in crisi sia le costituzioni autoritario-efficientistiche di seconda generazione (quella della V Repubblica francese, di cui non a caso Rancière richiede a gran voce la cancellazione sull’onda della Nuit debout e dello sciopero generale) sia quelle kelseniano-keynesiane di prima generazione, come quella italiana. In qualche modo bisognerà uscirne fuori con istituzioni repubblicane di tipo diverso – come del resto sta accadendo, fra molte contraddizioni, inciampi e particolarità, in America Latina o nel Rojava.

La risposta al neo-liberalismo, che è regolazione dall’alto del mercato, non può che passare anche attraverso riforme istituzionali. L’inserimento (da tutti approvato nel 2012) con l’art. 81 del vincolo di bilancio e le misure di rafforzamento dell’esecutivo previste nella riforma sotto referendum testimoniano la consapevolezza neo-liberale di una strumentazione di grado costituzionale, cui una qualche replica andrà data: come e quando da discutere.

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