Le ragioni di un «cattivo maestro»

A proposito dell'autobiografia di Toni Negri

Gian Maria Tosatti (1000x667)
Gian Maria Tosatti, installazione per la mostra «Lo spazio esistenziale. Definizione #1», a cura di Lucrezia Longobardi - Fondazione Morra, Napoli (2017)

Questa recensione di «Storia di un comunista» di Toni Negri (Ponte alle Grazie, 2016), è stata pubblicata anche su Il Veneto oltre il 1866. La strana transizione, a cura di Eva Cecchinato, Venetica, XXXI, n. 52 (1/2017), pp. 167-177.

La pubblicazione di questa anomala autobiografia del «cattivo maestro» par excellence del lungo ’68 italiano è stata salutata, come ci si poteva aspettare, dalla ennesima polemica giornalistica incentrata sull’assenza di un pentimento che si vuole necessario prima di ogni presa di parola da parte dei protagonisti e dei leaders della generazione che ha tentato l’assalto al cielo. Eppure qualcosa si è mosso, nella coscienza civile, in merito alla possibilità cognitiva di una riparazione e di una composizione della memoria sugli anni del conflitto italiano – la frammentarietà di questa memoria è stata definita come la base di ogni strumentalizzazione da Giovanni De Luna1 – grazie all’importante esperienza coordinata dal gesuita Guido Bertagna e dai giuristi Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Questa esperienza, poi fotografata nel volume decisivo Il libro dell’incontro2, ha visto vittime e «responsabili» dei cosiddetti «anni di piombo» mobilitare insieme gli strumenti della memoria per ricomporre una visione della storia che rimane, comunque, non ricucibile ma mantiene una più pacificata policentricità. La storia dell’Autonomia Operaia risulta ancora irriducibile a questa memoria condivisa: in parte se ne colloca fuori e fuori viene apertamente posizionata dalla riflessione storiografica, più o meno mainstream. Se ne colloca fuori perché è stata piuttosto indocile anche all’auto-narrazione storica, preferendo forme plurivocali, tra storia orale e auto-inchiesta3. E fuori è stata posizionata a causa, essenzialmente, dell’ombra del teorema ideato da Pietro Calogero, sostituto procuratore di Padova nel 1979 secondo il quale l’Autonomia conviveva con le Brigate Rosse in un progetto di insurrezione contro lo Stato4. La ragione più forte, però, mi pare da indicare in ultimo nella sua complessa genealogia e nella sua permanenza attualizzante, qui e ora, nei movimenti di contestazione più radicale su scala mondiale.

La nascita del movimento dell’Autonomia, nella sua strutturazione complessa tra Marghera, Milano e i Volsci romani, nel manipolo di mesi dell’inizio del 1973 – del gennaio è l’assemblea di Bologna, a marzo l’occupazione di Mirafiori – è l’inveramento di tendenze rivendicative, pratiche di lotta e scoperte intellettuali covate sul lungo periodo, dagli anni Sessanta fino al cuore degli anni Settanta:

Comincia a emergere una linea di approfondimento della direzione operaia a partire dalla fabbrica e di intensificazione della direzione operaia su tutti i movimenti che si muovono nel sociale. C’è la consapevolezza che la battaglia non si vince più solo in fabbrica: consapevolezza di enorme importanza quando spinge quei militanti operai che hanno conquistato prestigio e autorità nelle lotte a impegnarsi nel lavoro dei comitati dopo le otto ore di lavoro in fabbrica, a occupare i giorni di riposo nell’organizzazione. Di strategico c’è una sorta di inseguimento operaio della difesa del salario diretto a quello indiretto, dal terreno della produzione a quello della riproduzione – passaggi difficili per chi era stato cresciuto nella separatezza corporativa del sindacato o anche nell’estremismo fabbrichista dei gruppi operaisti5.

Il movimento, soggetto nuovo, parzialmente estraneo al pensiero comunista se non nella variante hegeliana della società civile, diventa un movimento specifico, grazie a una analisi tipicamente stadiale dello sviluppo capitalistico che tende a individuare uno specifico soggetto politico-sociale come «egemone» e quindi capace di individuare il preciso punto in cui lo scontro con il capitale si fa mortale, violento e decisivo:

L’Autonomia è un movimento: ma cos’è un «movimento»? […] I movimenti vivono nella lotta di classe, vivono come tensione di liberazione dalla schiavitù, dallo sfruttamento, dal lavoro […] Tra gli anni Sessanta e Settanta i movimenti si sono costituiti come forze in azione nel lungo periodo: come aperture di faglie geologiche che spostano i confini della lotta di classe e scatenano scosse telluriche di grande rilievo. […] Chi ha tentato di definire i movimenti come un rapporto mai concluso fra l’eccedenza di una domanda e la deficienza del risultato, li fissa nella staticità: ma i movimenti sono produttivi, mai statici, non nascono da un buco nero (né vogliono riempirlo), ma da una realtà che si presenta loro come conflitto […] I movimenti sono l’emblema di quel processo rivoluzionario continuo attraverso il quale il capitale ha voluto imporre il proprio potere sulla vita – ma dove la vita ha violentemente espresso il suo rifiuto6.

In questo nocciolo ideale, giunge a maturazione – compiuta, secondo alcuni; esasperata, secondo altri; con qualche tratto irrazionalistico, secondo altri ancora – il gesto ermeneutico che l’operaismo aveva provato a realizzare, dentro il movimento operaio ma parzialmente contro la tradizione comunista, fin dagli anni Cinquanta7. Raniero Panzieri, anima critica della sinistra socialista e animatore dei «Quaderni Rossi», era stato capace di guardare finalmente alla situazione industriale italiana in sé e non sulla base di ipoteche analitiche che la volevano forzosamente «arretrata»- si tratta, in fondo, di uno storytelling ancora persistente, incapace di fare i conti con una specificità di distretto industriale che si è mostrato talvolta esportabile con successo: basti pensare alle cosiddette multinazionali tascabili8 – e nella capacità di elevare il lavoro a limite dello sviluppo industriale e del suo progetto di dominio. Fu però il più giovane Mario Tronti a rivoluzionare lo sguardo sulla fabbrica e a impostare un progetto intellettuale inusitato e nuovo. Con l’ausilio di Carl Schmitt e della coppia amico/nemico, Tronti opera il rovesciamento performativo che posiziona gli operai in quanto classe ermeneuticamente davanti al e prima del capitale, facendo finalmente dei primi la leva – la vera mallevadrice – dello sviluppo9. Per un paradosso che forse solo gli storici dei movimenti cristiani riuscirebbero a sbrogliare, le pratiche e il pensiero dell’Autonomia operaia discendono da questo gesto in una genealogia diretta, quasi purificata. Si tratta di un paradosso perché Tronti rientra nei ranghi del Pci in un momento che più intempestivo non poteva essere – il 1967 – e sviluppa complessivamente un pensiero di elaborazione preventiva «del lutto» della sconfitta: se quella classe operaia è stata spazzata via, se il capitale ha vinto, il progetto intellettuale operaista si trasforma, nella parabola di Tronti, in un continuo memento mori che diviene sempre più pessimista. Senza il katechon operaio, il capitale non può che sviluppare la sua forza distruttiva.

L’Autonomia, invece, mostra la persistenza di quel gesto perché è la più coerente incarnazione di quel soggetto naturalmente antagonistico, che dall’operaio massa della fabbrica fordista diventa operaio sociale. Quella che era una spinta riformatrice gregoriana nelle pagine di Panzieri e di Tronti, più o meno disponibili a lunghe marce all’interno del quadro tradizionale delle istituzioni del movimento operaio, diventa, nel pensiero e nella prassi di Potere operaio, prima, e dell’Autonomia, poi, esplicitamente «eresia» e infine «chiesa» alternativa. Ben più di un rapporto tormentato e complesso con la violenza della scelta armata10, è questa alternatività radicale e fattuale che rende il soggetto ancora scabroso per la storiografia, ufficiale e più o meno progressista.

In questo paradosso, del rapporto strettissimo tra l’intellettuale-politico Toni Negri e il movimento dell’Autonomia – ripeto: in questa visione egemonica e tendenziale che individua nell’Autonomia la punta di un intero sviluppo sociale e politico – si situa questa poderosa (607 pagine!) e affascinante biografia. Già il titolo Storia di un comunista tende a trascendere la singolarità e punta a posizionare l’autore in una esemplarità meritevole di generalizzazione: la vita di «Toni» si intreccia continuamente con il contesto, e infatti fino al capitolo intitolato Sessantotto11, il testo oscilla continuamente, in una maniera che non mi pare riconducibile a razionalizzazione, tra un io e una terza persona («Toni», appunto) che sembra dare a questa vita ancora una singolarità inquieta, non compiuta. È appunto all’altezza del ’67-’68 («il mondo mi scoppia attorno. È evidente che, oltre alle vicende personali e alle esperienze di lotta, c’è quello spirito che soffia dove vuole e ti trascina con lui»12) che i due protagonisti si avvicinano (ma non si riuniranno mai) e sembrano toccare un noi che abiterà, in maniera protagonistica, quella «specialità italiana» che fu del «fare del ’68 un decennio». Alle spalle si è già consumato il vero divorzio operaista, dopo la precocissima uccisione del padre Panzieri: lo scontro fu soprattutto con i romani, per ragioni diverse ma non di rado ricondotte, dall’occhio del militante che sta nelle fabbriche, all’ambiente tipico della capitale («a Roma risuonano tutti i movimenti, ma non capitano mai le lotte: l’ontologia della lotta di classe sta sempre altrove, a Roma ne arrivano talvolta i simulacri.

È una capitale diversa da Parigi o Londra, dove le cose avvengono»13). Di Tronti resta l’insegnamento, in particolare quelle pagine che impostano quasi definitivamente il programma operaista (Lenin in Inghilterra), ma la sua figura diventa, poi, quasi fantasmatica; la cosa risalta in maniera particolare, perché le pagine della seconda parte (Laboratorio veneto14) costituiscono, tra altre cose, un prezioso spaccato della pluralità di voci e di esperienze che costituì l’esperienza operaista, esperienza allo stesso tempo intellettuale – nel senso di: fatta anche da intellettuali – militante e soprattutto «di ricerca». Degli altri, numerosissimi, incontri resta una galleria di personaggi diversi, ad alcuni dei quali vengono dedicati medaglioni degni degli exempla medievali – si pensi a Giangiacomo Feltrinelli, ipostasi di un estremismo cocciuto, settario e generoso – o brevi frasi pregne di rese dei conti – e qui ricordo il Mario Isnenghi dei tempi del «Progresso Veneto», che diventa anche lui un simbolo dei limiti progressisti delle correnti dell’autonomia socialista.

La metodologia della «conricerca», che discende dall’esigenza trontiana di una scienza di parte operaia, è il cuore non solo di un avvicinamento alla fabbrica, ma di uno spostamento deciso del baricentro della riflessione direttamente nell’azione, attraverso i suoi attori principali (gli operai). Romano Alquati, che Negri non manca di definire «una specie di Pollock»15, la definisce una volta per tutte, trasformando l’operaismo da punto di vista a pratica immersiva nella lotta e nella realtà. Una linea anche operativamente operaista, che conviverà con la rivista «Classe Operaia» e in parte in «Contropiano» ma si realizzerà soprattutto in Potere Operaio, è nata. È questa che permette a Negri di individuare una corrente precisa nel ’68, diversa dalle impostazioni di Lotta continua – liquidate essenzialmente come un aggiornamento dell’azionismo socialista – ma anche da una gran parte del movimento, perché si caratterizza per una serie di pratiche che proseguono e si sviluppano nel decennio successivo. Ed in effetti, nel già citato capitolo dedicato al Sessantotto, la cronologia è complessa, al limite quasi (volutamente?) confusa: il ’68 di Storia di un comunista è meno un momento fondativo della modernità e più un passaggio non concluso, un complesso grumo di contraddizioni in cui la fabbrica fordista sta consumando le sue energie, e nuovi soggetti nascono e si definiscono lentamente, nella riflessione e nelle strade. Credo che il valore di scrittura – direi in parte dovuto anche alla penna smaliziata di un narratore come Girolamo de Michele – del volume sia anche in questa massa memoriale che si presenta continuamente come indomabile ma fa intravedere aperte linee di compensazione.

L’organizzazione cronologica delle memorie negriane è basicamente biografica, va da sé; ma l’architettura organizzativa è tutt’altro che banale. C’è sicuramente una sistemazione di tipo geografico, che fa emergere, non continuativamente, un profilo piuttosto netto del Veneto del dopoguerra, particolarmente accurato nella prima parte, intitolata «Andarsene». Il titolo tuttavia mette già in relazione l’infanzia e l’adolescenza veneta di Negri, tra Padova e Venezia, e i viaggi in Europa, battuta in autostop a partire dal 1951: nell’ordine, Londra, Scozia, Galles, Parigi, Basilea, Innsbruck, Austria, Germania, Danimarca, Svezia Finlandia, le Olimpiadi di Helsinki, Capo Nord, Amsterdam, Parigi, Marsiglia, la Linguadoca, Barcellona, Cordova, Siviglia, il Marocco, Israele e Jugoslavia: «viaggiare in questo modo è una forma di estraneazione non alienante: sei una spugna di sensazioni e un ricettacolo delle cose che ti circondano, ma non ti perdi in questa moltitudine». In questo pendolarismo, il Veneto costituisce innanzitutto una formidabile miniera di prammatica esistenziale, segnata da due figure fondamentali: il nonno Enea, deceduto quando Negri, già orfano di padre, è a Padova e frequenta il liceo classico Tito Livio, e soprattutto il fratello Enrico, morto, forse suicida, a 17 anni dopo aver aderito alla Repubblica di Salò ed essere andato a combattere sul fronte jugoslavo. Questo coacervo veneto, di pulsioni nere e mortifere in un quadro profondamente segnato dal cattolicesimo e dalla presenza di profughi istriani, rimane una geografia sotterranea, che ritorna in forma di geyser qua e là nella narrazione: nel cuore degli anni Settanta queste pulsioni si incontrano con le spinte repressive dello Stato, contribuendo al colore tipicamente padovano del teorema Calogero. Tutto ciò soprattutto per sottolineare che, senza ombra di dubbio, la prima parte è, forse, quella più inedita e sorprendente, ma non vive in una totale autonomia: gli altri due movimenti ne fanno emergere e ne attualizzano alcune tendenze profonde.

In effetti, non è mai schivata, e volutamente, una certa teleologia più che del raccontare biografico, del continuo interpretare avvenimenti e posizioni. Questi ultimi sono spesso presentati come anticipazioni di sviluppi ben successivi, non di rado tramite un linguaggio – quello della biopolitica e delle moltitudini – che solo negli anni Ottanta e Novanta sarà davvero l’alfabeto del pensiero negriano: quando, cioè, l’incontro con il post-strutturalismo francese sarà davvero compiuto16. Ma è soprattutto nel percorso filosofico che questa tentazione teleologica si fa più stringente, al limite martellante. Perché la «storia» del Negri «filosofo», affidata a paragrafi segnalati nel volume con dei numeretti in corsivo per indicare al lettore meno smaliziato i punti di maggiore difficoltà concettuale, viene presentata in questa biografia come autonoma. Una storia che comincia negli anni del liceo e nell’impegno nell’Azione Cattolica dell’effimera direzione progressista di Mario Rossi per poi approdare finalmente all’università di filosofia in ragione di una sete di «verità» che sembra davvero l’unica traccia di un cattolicesimo vissuto soprattutto come unico strumento di comprensione concepibile nel contesto veneto dell’epoca. La conversione e l’allontanamento dalla religione non hanno niente di appassionato o drammatico, ma è anche vero che questo rapporto apparentemente naturale e a-problematico con il cattolicesimo costituisce un po’ la matrice del rapporto con la filosofia e l’università: Negri diventa un brillante e giovanissimo ricercatore, formatosi alla scuola di diritto progressista più prestigiosa d’Italia, ma già radicalizzato dopo un passaggio nella sinistra socialista.

La cattedra padovana è prestigiosa, e Toni l’ha conquistata presto: è il più giovane cattedratico italiano, ed è bravo […] Ma allora, perché è riuscito? Perché è bravo – ma soprattutto perché è solo. Così lo vedono i suoi maestri: un geniaccio, fors’anche sovversivo, ma «uno»17

Ma anche questo è un passaggio che viene riletto e riemerge in diversi punti del volume, mostrando l’evoluzione dell’Istituto di Dottrina dello Stato di Padova in un think tank del pensiero più sovversivo, contenutisticamente e metodologicamente avanzato e «scandaloso».

Con i miei compagni-colleghi avevamo creato un dispositivo di insegnamento, attraverso i seminari, che toglieva agli insegnanti ogni figura di autorità. D’altra parte, l’insegnamento era interamente fondato sulla ricerca, non volevamo in alcun modo trasmettere verità che non fossero metodiche18.

Insieme alle pagine sull’adolescenza, quelle sull’università sono sicuramente le più felici e potenti, proprio perché mostrano le potenzialità critiche di un uso pur tradizionale dei saperi proprio nel momento dell’apertura dell’Università di massa19.

Nonostante i numeri in corsivo, però, è bene dire che il percorso del Negri filosofo non può del tutto essere staccato dalla parabola complessiva, se non al prezzo di un inutile, e dannoso, decurtamento del progetto culturale dell’operaismo negriano. La sua formazione sui testi dell’Historismus tedesco e i primi studi sul kantismo giuridico, instradandolo sulla carriera accademica, gli forniscono anche gli strumenti e il punto di attacco di una costruzione ambiziosa. Forse l’unico nella sua generazione, Negri affronta i nodi più complessi della modernità (in particolare, Descartes20) per aggredire la questione politica per eccellenza, spesso schivata dai marxisti sulla base del manipolo di cenni raccolti da Lenin: mi riferisco alla voce «Stato» della Enciclopedia Feltrinelli Fischer del 1970, realizzata non senza aver chiuso i conti con John M. Keynes e la costituzione repubblicana21.

È in questa traiettoria che il punto di vista di Tronti e quello di Alquati hanno mostrato plasticamente la propria produttività (ma anche, in parte, i propri limiti sul terreno soprattutto economico-politico22); la biografia-storia ne mostra finalmente la dinamica di relazione complessa col presente, coll’urgenza dell’agire, ma soprattutto contribuisce a individuare gli spazi esistiti al di là di una situazione europea e mondiale che risultava asfittica e che la tradizione intellettuale del Pci contribuiva a rendere tale, perché il movimento operaio

aveva fatto di quella Yalta generalizzata un alibi per dissolvere non solo un glorioso passato, ma soprattutto la densità e la forza del suo rapporto con la classe operaia, e il desiderio di rivoluzione di questa. Sviluppando contro questi ostacoli la lotta, avevamo comunque trasformato la società23.

Il racconto si arresta, bruscamente, alla mattina del 7 aprile del 1979. Negri torna da Parigi; la sua casa viene perquisita, ma non è la solita operazione di routine: c’è un mandato di cattura. Comincia l’odissea giudiziaria legata al processo intentato dal sostituto procuratore Pietro Calogero. La scelta, direi, non è inusuale per le biografie politiche degli ultimi anni. Vi accosterei volentieri quella di Rossana Rossanda, che interrompe il racconto della Ragazza del secolo scorso proprio in coincidenza dell’espulsione del gruppo del manifesto dal Pci24. L’accostamento è, in qualche maniera, autorizzato anche dalla relazione, complicata ma stretta, tra il gruppo de «il manifesto» e la tradizione dell’operaismo, ma in specie l’Autonomia: lo stesso Negri individua a più riprese nel giornale un punto di riferimento per il movimento, a patto di considerarne una differenza generazionale. «il manifesto» è, in qualche maniera, il simbolo dei padri, spesso proprio dei genitori dei militanti dei movimenti. Ma a parte l’aria di famiglia, c’è soprattutto, in questa scelta, l’idea di lasciare aperta la storia, di non considerarla conclusa: c’è, in altri termini, il palese rifiuto di sentire le idee per le quali si è combattuto superate e finalmente postume.

Nessuna melanconia è concessa al lettore; la storia è viva, si intromette nella storia precedente con una teleologia necessaria, in un vitalismo spinoziano che è, davvero, una sincera essenza consustanziale al punto di vista di Negri. Se pensiamo alle memorie dei rivoluzionari del movimento operaio – Victor Serge e Louise Michel, per esempio, ma anche Daniel Bensaïd, per ricordare un caso più recente25 – non possiamo non individuare un nodo malinconico che si posiziona, solitamente, sullo scorcio dell’esistenza e che, in parte, muove intimamente la stessa azione del ricordare. Il capostipite non può che essere l’infaticabile Blanqui della Eternità vista attraverso gli astri, per il quale

gli astri nascono, brillano, si spengono e, anche se possono sopravvivere per migliaia di secoli al loro splendore ormai svanito, sono solo sepolcri vaganti consegnati alla legge di gravità. Quanti miliardi di questi gelidi cadaveri si trascinano così nello spazio tenebroso, in attesa dell’ora della distruzione, che sarà, contemporaneamente, quella della resurrezione26.

Non è un progetto di pacificazione, ma piuttosto di sedimentazione che trova la sua ragione più forte nella memoria dei vinti, che ai più è apparsa necessaria per superare i complicati periodi seguiti sconfitte e per tenere viva una sottile linea di continuità con il futuro.

In Negri, questa preoccupazione è assente: nessun cedimento all’idea che il comunismo sia stato una proiezione su campate troppo lunghe, il desiderio di volo del brechtiano sarto di Ulm che pure muove un’altra biografia-storia, quella di Lucio Magri, che condivide con il teorico veneto questa doppia dimensione personale-collettiva27. Di nuovo, la continuità paradossale con Tronti è lampante: nella scienza di parte operaia, dall’operaio-massa all’operaio sociale alla moltitudine, il katechon è attivo, il soggetto è vivo seppure cangiante. È questo che rende questa storia una storia tumultuosa ma soprattutto gioiosa. Perché vitale e gioiosa è l’idea di militanza a cui Negri ha fornito un quadro compiuto, fino alla pagina di Impero, sullo sfondo delle rivolte no-global, nella quale Francesco d’Assisi è evocato come simbolo di questa gioia:

In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell’ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere. Si tratta di una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poiché il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell’amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia di essere comunisti28.

Ma anche Francesco d’Assisi è uomo dai mille volti: e accanto a quello gioioso del rapporto con le creature, c’è il Francesco ombroso delle stigmate, un frate che misura le pene e i limiti dell’Ordine da lui fondato, e si chiede se, nel passare dall’intuizione all’istituzione, i suoi confratelli non si siano schiantati al suolo29. Lo storico Enzo Traverso ci ricorda proprio che questa dimensione pensosa, benjaminiana e melanconica, è intimamente connessa alla storia dei comunismi anche nei momenti di ascesa e di affermazione, aprendo, anche in quei momenti, degli spazi di problematicità, e mostrandone, nei bivi storici e nelle crisi, le infinite possibilità di sviluppo30. Ben più che negli astratti discorsi sulla violenza, è in questo appuntamento mancato con una storia non teleologica che il percorso di Negri misura la sua unicità, ma anche la sua problematicità.

Note

Note
1Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Feltrinelli, Milano 2011.
2Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, Il Saggiatore, Milano 2015.
3Si prenda ad esempio l’imponente Gli Autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, a cura di Lanfranco Caminiti e Sergio Bianchi, DeriveApprodi, Roma 2007-2008, 3 vol.
4Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo. Voci della «città degna», Manifestolibri, Roma 2009.
5Toni Negri, Storia di un comunista, p. 451.
6Ivi, pp. 473-474.
7Su questo vedi la ricostruzione in Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Alegre, Roma 2008.
8Giovanna Vertova, Distretti industriali e multinazionali tascabili. La trasformazione produttiva del Made in Italy, in Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, a cura di Daniele Balicco, Palumbo, Palermo 2015, pp. 37-45.
9Dario Gentili, Italian theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012, in particolare pp. 58 e ss.
10Affrontata a più riprese nel volume, e in una maniera che non consente facili riassunti, perché individua le linee di frattura nella discussione all’interno dei movimenti; su questo piano il volume ha una notevole potenzialità anche storiografica, perché potrebbe costituire materiale di riflessione importante in vista di una visione più sfrangiata e complessa della lotta armata in Italia che finalmente emerge nella bibliografia: vedi, ad esempio, i lavori di Monica Galfré, in particolare La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo, 1980-1987, Laterza, Roma-Bari 2014, e il recente Luca Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Carocci, Roma 2015.
11T. Negri, Storia di un comunista, cit., pp. 309-355.
12 Ivi, p. 342.
13Ivi, p. 251.
14Ivi, pp. 165-352.
15Ivi, p. 213.
16Timothy S. Murphy, Antonio Negri. Modernity and the Multitude, Polity, Cambridge 2012, pp. 117-149.
17T. Negri, Storia di un comunista, p. 275.
18Ivi, p. 377.
19Su una figura-chiave dell’istituto, vedi Antonio Negri, Luciano Ferrari Bravo. Ritratto di un cattivo maestro, Manifestolibri, Roma 2003.
20Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano 1970.
21Antonio Negri, La teoria capitalistica dello stato nel ’29. John M. Keynes [1967] in Crisi dello stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Clusf, Firenze 1972, pp. 5-41; Antonio Negri, La forma-stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli, 1977.
22Su questi limiti, vedi soprattutto Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Quale attualità dell’operaismo, in Wright, L’assalto al cielo, cit., pp. 293-306.
23T. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 605.
24Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005.
25Daniel Bensaïd, Una lenta impazienza, Alegre, Roma 2012; Louise Michel, Mémoires, François Maspero, Paris 1976; Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario. Dal 1901 al 1941, La Nuova Italia, Firenze 1956.
26Louis-Auguste Blanqui, L’eternità attraverso gli astri, SE, Milano 2005, pp. 56-57.
27Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, Milano 2010.
28Antonio Negri e Michael Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2003, pp. 382-383.
29Il fatto delle stimmate di S. Francesco, Porziuncola, Assisi 1997.
30Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli, 2017

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