L’ordine del tempo è il suo governo
Il nuovo libro di Carlo Rovelli
Che cos’è il contemporaneo? Con questo titolo circa una decina di anni fa Giorgio Agamben pubblicava il testo della sua lezione inaugurale del corso di Filosofia teoretica 2006-2007 allo IUAV di Venezia. La risposta a una domanda tanto complessa può essere sintetizzata in questo modo: secondo Agamben, «contemporaneità» significa dislocamento, sfasatura, frattura. Pensare la contemporaneità significa scinderla in più tempi, introdurre nel tempo «una essenziale disomogeneità»1 in quanto «il contemporaneo mette in opera una relazione speciale fra i tempi»2. In questo senso, il concetto di «contemporaneità» non solo si discosta, ma si oppone a quello di «presente». Quest’ultimo, infatti, si configura solo in relazione alla successione determinata nella triade passato-presente-futuro, come un momento liscio e aconflittuale di questi passaggi diretti verso un avvenire; il «contemporaneo», al contrario, si mostra come divenire in grado di rompere questa continua transizione triadica.
La domanda con cui Agamben ha deciso di intitolare il suo intervento è parte di una questione ben più ampia: quella del tempo, del suo significato e delle conseguenze politiche che questo significato assume. Il «governo del tempo»3 è fondamentale nei meccanismi di produzione e riproduzione capitalistica fin dalla nascita del capitalismo stesso. Per questo, si configura come un campo di battaglia: combattere «il governo del tempo» significa sottrarre al capitale il monopolio dell’organizzazione e della narrazione di questo tempo, rivendicare politicamente la conflittualità della contemporaneità, la frattura che essa è in grado di generare contro il «presentismo»4 neoliberale, opporre al tempo omogeneo del capitale una pluralità stratificata di tempi differenti e antagonisti.
Di «contemporaneità» come «antagonismo» parla anche Toni Negri, definendola categoria della resistenza e dell’antagonismo nel «postmoderno»5. Già in un momento in cui la «fine della Storia» era di là da venire (1981), lo stesso Negri si dedicava alla questione del tempo in modo simile: il primo capitolo dell’opera Macchina tempo, «Prassi e paradigma», anticipa quella che sarebbe diventata una questione chiave del pensiero postcoloniale, e delinea l’inutilizzabilità di schemi lineari della transizione al comunismo, la difficoltà di un marxismo che si pensa come teoria oggettiva di questo passaggio (obbligato?) e come metodologia lineare del processo rivoluzionario: la grandezza di Lenin, secondo Negri, sta infatti nell’aver colto la natura formale del nesso riforme/rivoluzione e della continuità meccanica degli «stadi di sviluppo» e nell’aver saltato «dalla dialettica all’antagonismo»6. Nel corso dell’intero libro la questione del tempo viene posta come questione politicamente centrale: emblematici i titoli scelti per la III parte, «Il rompicapo della transizione», e del tredicesimo capitolo, «La costituzione del tempo».
La questione del tempo, in effetti, è centrale anche nel mondo delle scienze cosiddette «dure», e soprattutto nel campo della fisica. Non a caso, un fisico teorico come Carlo Rovelli ha deciso di dedicarvi il suo ultimo lavoro divulgativo: L’ordine del tempo (Adelphi, 2017). L’obiettivo dichiarato di Rovelli è condurre il lettore attraverso un percorso di andata e ritorno, in grado di sbriciolare le «certezze» granitiche che si annidano nel senso comune riguardo l’essenza – l’ontologia – del tempo come entità omogenea, oggettiva e universale. La prima delle tre parti in cui è diviso il libro («Lo sfaldarsi del tempo») è dedicata alla decostruzione del concetto «classico» di tempo. Qui il tempo perde il suo carattere di unicità, poiché, spiega Rovelli, «il tempo non scorre uniforme»7 e «ogni fenomeno che accade ha il suo tempo proprio, il suo proprio ritmo»8, tanto che «la fisica non descrive come evolvono le cose nel tempo. Bensì come evolvono le cose nei loro tempi e come evolvono i tempi l’uno rispetto all’altro»9. Ma l’unicità del tempo non è la sola vittima illustre di questa disamina. Sotto i colpi di Rovelli cade anche un altro totem del pensiero comune sul tempo: la direzionalità. Già la fisica del XIX e XX secolo si era accorta che non esiste differenza oggettiva tra passato e futuro, e che l’unico elemento che permette di determinare questo fluire è il calore: la legge di Clausius10, afferma Rovelli, «è l’unica legge generale della fisica che distingue il passato dal futuro. Nessuna delle altre lo fa […], nessuna distingue il passato dal futuro. Se una sequenza di eventi è permessa da queste equazioni, lo è anche la stessa sequenza ribaltata all’indietro nel tempo. Nelle equazioni elementari del mondo, la freccia del tempo appare solo quando c’è il calore»11. Solo dove c’è calore c’è distinzione tra passato e futuro: è l’entropia, il secondo principio della termodinamica. Il calore passa solo dai corpi caldi ai corpi freddi, mai viceversa, e in questo suo fluire sta la percezione del fluire del tempo. Percezione è, qui, un termine chiave. Se, infatti, la freccia-tempo viene qui oggettivamente spezzata, soggettivamente, ovvero a partire da un punto di vista situato, essa ricompare proprio come percezione. La distinzione tra passato e futuro, la direzionalità del tempo, diventa, allora, niente di più che la cifra della particolarità di un punto di vista (la «sfocatura della nostra prospettiva», come la chiama Rovelli).
A questo punto, il tempo ha perso unicità e direzionalità. Ma Rovelli non si ferma qui, e a partire dalle intuizioni di Einstein circa il rallentamento del tempo da parte della velocità ci guida verso «la fine del presente». Infatti, per un ente in movimento il tempo passa in modo più lento: «per un oggetto in moto il tempo è contratto. Non solo non esiste un tempo comune a diversi luoghi, ma non esiste neppure un tempo unico in un singolo luogo. Una durata può solo essere associata a un movimento di qualcosa, a un percorso dato»12. La conseguenza che ne dobbiamo trarre è che nell’universo non esiste un «presente», poiché ciò che chiamiamo in questo modo altro non è che una «bolla» più o meno estesa a seconda della precisione con cui siamo in grado di determinare (governare) il tempo: «se è di nanosecondi, il presente è definito solo per pochi metri, se è di millisecondi, il presente è definito per chilometri. Noi umani distinguiamo a malapena i decimi di secondo, e possiamo tranquillamente considerare l’intero pianeta Terra come un’unica bolla, dove parliamo del presente come di un istante comune a tutti noi. Non più in là»13. Nell’universo non esiste un presente comune.
Manca un ultimo colpo ben assestato: Rovelli lo sferra raccontando una «danza» tra «tre giganti», Aristotele, Newton ed Einstein. Secondo il greco, il tempo è la misura del cambiamento: se nulla cambia non c’è tempo, esso si configura come conteggio delle cose che cambiano. Al contrario, Newton afferma l’esistenza di un tempo assoluto (il tempo su cui si basa la fisica moderna, ricorda Rovelli) e indipendente dagli accadimenti esterni. Si tratta di una divergenza che si riproduce pressoché in modo identico nella concezione dello spazio. Il dilemma tra Aristotele e Newton presenta due alternative escludenti, che vengono però sintetizzate da Einstein: «la risposta è che, sì, il tempo e lo spazio che Newton ha intuito esistere nel mondo al di là della materia tangibile effettivamente esistono. Sono reali. Tempo e spazio sono cose reali. Però non sono per nulla assoluti, per nulla indipendenti da quanto accade, per nulla distinti dalle altre sostanze del mondo come Newton immaginava. Possiamo pensare che ci sia la grande tela Newtoniana su cui è disegnata la storia del mondo. Ma questa tela è fatta della stessa sostanza di cui sono fatte le altre cose del mondo, della stessa sostanza di cui sono fatte la pietra, la luce e l’aria»14. Questa tela si chiama «campo gravitazionale», esiste di per sé, specifica Rovelli, ma non è qualcosa di diverso dal resto delle cose del mondo (come invece pensava Newton): «più che un disegno su una tela, il mondo è una sovrapposizione di tele, di strati, di cui il campo gravitazionale è solo uno fra gli altri. Come gli altri, non è né assoluto, né uniforme, né fisso, ma si riflette, si stira, si tira e si spinge con gli altri»15. Eccolo, l’ultimo affondo al senso comune: il tempo non è indipendente – assoluto – dal mondo, dalla materia.
Indipendenza, unicità, direzionalità, universalità: eccoli, i quattro bastioni della concezione «mainstream» del tempo, assediati e infine sconfitti dall’esposizione di Rovelli e da un antagonista che fa la sua comparsa verso la metà del libro: la fisica quantistica, campo d’indagine scientifica dello stesso Rovelli. «Il tempo universale si è frantumato in una miriade di tempi propri», afferma il fisico, «ma se teniamo conto dei quanti dobbiamo accettare l’idea che ciascuno di questi tempi, a sua volta, fluttua, è sparso come in una nuvola e può avere solo certi valori e non altri»16. La fisica quantistica demolisce ulteriormente «quel poco che restava della nostra idea di tempo» tramite tre scoperte (granularità – il tempo quantizzato è granulare, e non continuo, e sparisce al di sotto di certi valori; indeterminazione – lo spazio-tempo fluttua in una sovrapposizione di configurazioni diverse; relazioni l’indeterminatezza provoca da tutte le possibili configurazioni si risolve nel momento in cui una quantità interagisce con altro) che conducono a quello che Rovelli chiama «il mondo senza tempo», cui è dedicata la seconda parte del libro.
Assenza di tempo non significa, però, immobilità; al contrario, il mondo è cambiamento incessante, è accadere. Non è un insieme di cose, ma di eventi: «la differenza tra cose ed eventi è che le cose permangono nel tempo. Gli eventi hanno durata limitata. Un prototipo di una cosa è un sasso: possiamo chiederci dove sarà domani. Mentre un bacio è un evento. Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi»17. Il mondo si configura allora come una rete di eventi (più o meno lunghi), come relazione tra accadimenti. Ecco che il tempo ritorna in una forma diversa da quella in cui lo abbiamo conosciuto: «se per tempo intendiamo null’altro che l’accadere, allora ogni cosa è tempo: esiste solo ciò che è nel tempo»18, ma questo tempo è accadere incessante che non può essere schiacciato sulla direzionalità della linea orientata, né misurato da un gigantesco orologio. In altre parole, contro «presentismo» ed «eternalismo» Rovelli afferma l’esistenza del cambiamento nel mondo, la presenza di una struttura temporale di relazioni tra gli eventi tutt’altro che illusoria, ma ribadisce che questo «accadere» non è ordinato, né tantomeno globale: piuttosto, è un accadere complesso che non ammette la semplificazione di una descrizione ordinata e universale. Ecco perché la fisica quantistica nelle sue equazioni non si serve della variabile fondamentale (t), tanto cara alla fisica classica. Il «mondo senza tempo» è una rete di eventi interconnessi, è «come un insieme di punti di vista in relazione gli uni con gli altri; il mondo visto dal di fuori è un nonsenso, perché non c’è un fuori dal mondo»19. Difficile non pensare a Deleuze e al suo «puro divenire» che «schiva il presente» e, per questo, «non sopporta la separazione né la distinzione del prima e del dopo, del passato e del futuro»20.
La terza e ultima parte («Le sorgenti del tempo») ha come obiettivo quello di «ricostruire il tempo della nostra esperienza»21: da dove viene la distinzione tra passato e futuro, carattere fondante del fluire del tempo? Per rispondere a questa domanda, secondo Rovelli occorre uno specchio: le «sorgenti del tempo» altro non siamo che noi stessi. Il nostro punto di vista, localizzato, parziale, situato, ci orienta nella trama quantistica attraverso la distinzione tra passato e futuro, dove il passato altro non è che il momento di bassa entropia rispetto al nostro punto di vista, collocato in una certa configurazione e in certe interazioni con le variabili del mondo con cui interagiamo. «Il fluire del tempo non è una caratteristica dell’universo: come il roteare della volta stellata, è la prospettiva particolare dall’angolo di mondo a cui apparteniamo»22. Per questo motivo Rovelli recupera le argomentazioni husserliane, kantiane e heideggeriane sulla natura interna, piuttosto che esterna, del tempo e afferma, in conclusione, che gli uomini sono «esseri fatti di tempo»23. In ultima istanza, il tempo è l’esperienza di vita di ognuno di noi.
Funzionale dal punto di vista argomentativo, questa conclusione è, in realtà, politicamente tronca: sostenere che «l’ordine del tempo» è interno all’uomo non significa negare che quel particolare ordinamento trovi le sue radici nei rapporti che si producono tra gli uomini, più che negli uomini: «il modo in cui un uomo vive il tempo dipende dal luogo in cui esso si trova in carne e ossa e soprattutto dalla classe alla quale appartiene»24, come afferma Ernst Bloch.
Il merito di Rovelli consiste nel mostrare la parzialità dell’idea di tempo: esso vale solo nella misura in cui si prende in considerazione il punto di vista situato da cui scaturisce. La fisica classica affermava, al contrario, la sua universalità. Allo stesso modo, il capitale pretende di governare il tempo ordinandolo (sincronizzandolo) secondo il paradigma «evoluzionista» del presentismo: there is no alternative e mai ci sarà, data la (supposta) naturalità storica della relazione capitalista. Per combattere contro questa menzogna è utile, allora, ricordare che quell’ordinamento è solo parziale, frutto di un punto di vista – quello del capitale, appunto – a cui si può e si deve opporre un’altra parzialità, antagonista: contro il «presente», occorre rivendicare che il «contemporaneo» è quel «puro divenire» conflittuale in grado di articolare temporalità differenti che scardinino unicità, direzionalità, universalità e stadialità del tempo capitalistico.
Note
↩1 | G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, 2008, p. 23. |
---|---|
↩2 | Ibidem. |
↩3 | V. Morfino (a cura di), Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013. |
↩4 | Mi riferisco qui a F. Hartog, Regimi di storicità. Presentismo ed esperienze del tempo, Sellerio Editore, 2007; E. Traverso, Malinconia di sinistra, Feltrinelli, 2016. |
↩5 | A. Negri, Postmoderno o contemporaneità?, videoconferenza trasmessa alla Mellon Foundation, Pittsburgh (Penn.) il 15 novembre 2004 e contenuta in A. Negri, Movimenti nell’Impero. Passaggi e paesaggi, Raffaello Cortina Editore, 2006, pp. 291-299. Emblematica la chiusura di questo intervento: «In termini spinozisti si direbbe: la contemporaneità è l’unico modo di esprimere l’eterna volontà di resistenza e libertà» (Ivi, p. 299). |
↩6 | A. Negri, Macchina tempo. Rompicapi, liberazione costituzione, Feltrinelli, 1982, p. 25. |
↩7 | Ivi, p. 20. |
↩8 | Ivi, p. 24. |
↩9 | Ivi, p. 25. |
↩10 | Sinteticamente, afferma l’impossibilità che il calore passi da un corpo freddo a uno caldo e, quindi, la sua irreversibile unidirezionalità. |
↩11 | Ivi, p. 29-30. |
↩12 | Ivi, p. 41. |
↩13 | Ivi, p. 44. |
↩14 | Ivi, p. 68. |
↩15 | Ivi, p. 69. |
↩16 | Ivi, p. 74. |
↩17 | Ivi, p. 87. |
↩18 | Ivi, p. 92. |
↩19 | Ivi, p. 108. |
↩20 | G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, 1975, p. 9. |
↩21 | C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017.p. 115. |
↩22 | Ivi, p. 130. |
↩23 | Ivi, p. 162. |
↩24 | E. Bloch, Eredità del nostro tempo, Il Saggiatore, 1992, p. 82. |
condividi